III.1. La difficile sintesi di un «movimento a più voci»
III.2.1. Politiche del femminismo: il gesto di rottura
Parto da quella che può apparire la fine del movimento femminista come movimento di massa, perché è, a mio parere, il momento di una sfasatura, di un cortocircuito temporale che, come spesso avviene nelle mancate coincidenze, ci aiuta ad illuminare meglio quello che c'è stato prima, lo scarto tra ciò che è stato e ciò che è, tra quello che ci si aspetta e ciò che non è.
Negli anni settanta l'Italia era ancora una democrazia fondata sui grandi partiti di massa all'interno dei quali le donne erano collocate in una sorta di cittadinanza “asimmetrica”, ai margini dei più importanti ruoli decisionali. Quale fosse lo spazio, all'interno di tale sistema, per l'espressione di movimenti differenti e autonomi è una domanda cruciale al fine di comprendere il posizionamento del movimento femminista durante il decennio, nonostante non sia comunque possibile fornire un'immagine stabile e risolta di tale posizionamento.
Se pensiamo alla storia degli anni settanta considerando il femminismo, o meglio usare la sua declinazione plurale, i femminismi, come lente per una loro periodizzazione, non possiamo non considerare quanto questa storia segua altre traiettorie, altre cesure, altri punti di svolta, rispetto alla storia e alle periodizzazioni dei movimenti coevi, quella che Elda Guerra ha definito «la doppia storia di una generazione»411.
Se c'è un ampio consenso nell'individuare nella fine degli anni settanta la conclusione della parte più significativa e innovativa del femminismo recente, diverse sono invece le interpretazioni
409Memoria. Rivista di storia delle donne, n.31 (1, 1991) 410Memoria. Rivista di storia delle donne, n.31 (1, 1991), p.3 411Vedi E. Guerra, Storia e cultura politica delle donne, cit., p.48
sui suoi eventi di cesura. Anna Rossi-Doria, ad esempio, individua nella legge sull'aborto il momento di lutto del femminismo degli anni settanta. Luisa Passerini lo anticipa alla metà degli anni settanta con la crisi dei gruppi di autocoscienza e alla “perdita” della pratica che teneva assieme mente e corpo, pensiero e sessualità. Anche Lea Melandri parla di perdita in riferimento al passaggio agli anni ottanta, con una svolta culturale che abbandonava la capacità originaria del femminismo di tenere insieme esperienza e pensiero. Alla luce di tali ipotesi e considerando le parole ricorrenti a cui si consegnano gli anni settanta, lutto e perdita, Elda Guerra delinea i due grandi lutti: «da una parte, la perdita della parola autocoscienziale, dall'altra l'allontanamento dal corpo, insomma le due originali scoperte che avevano segnato il femminismo delle origini»412. Se è
vero che gli inizi degli anni settanta sono caratterizzati da una forte spinta utopistica e al cambiamento, il femminismo prosegue ben oltre la fine del decennio e nonostante il lutto e le cesure, si possono intercettare continuità – e non solo discontinuità – rispetto alla «felicità pubblica»413 di inizio decennio.
In tali passaggi e processi di continuità e discontinuità, si dovrà mettere a tema lo “scarto” che, nonostante la modificazione dei confini tra privato e pubblico, rimane tra tempi interni e tempi sociali, il tempo che si dà nell'esperienza del singolo, legato alle vicende e alla memoria del corpo - quello che lo psicanalista Elvio Fachinelli ha chiamato “il tempo tartaruga” per la lentezza con cui si modifica – e il “tempo freccia” della storia, del contesto sociale in cui viviamo414. Tale sfasamento
nel tempo, di questa duplice dimensione del tempo, si potrebbe declinare attraverso la falsa dicotomia liberazione/emancipazione. Una sfasatura che è chiave di lettura anche per l'analisi del rapporto tra movimenti femministi e movimenti sociali coevi, un rapporto che impone anche i propri tempi, che è anche una rivendicazione attenta a sentire il “tempo tartaruga”, la distanza dai tempi sociali imposti, considerando anche che i gesti iniziali nelle “pratiche della distanza”, distanza rispetto agli uomini, alle istituzioni patriarcali, alle generazioni precedenti, alle proprie madri, sono dell'ordine della frattura. Emblematica la frase di Carla Lonzi, la rottura come gesto di inizio che sin dal Manifesto di Rivolta si pone: «la civiltà ci ha definite inferiori, la Chiesa ci ha chiamate sesso, la psicoanalisi ci ha tradite, il marxismo ci ha vendute alla rivoluzione ipotetica»415.
Il gesto di rottura è il gesto originario della pratica politica femminista. Solo attraverso la rottura si potrà dare forma a un inizio, a una nascita nel senso arendtiano del termine.
Molteplici articolazioni del rapporto continuità/rottura si intrecciano, quindi. Non vi sono
412E. Guerra, Il corpo: presenze e assenze nei femminismi del passaggio di secolo in Laura Gambi, Maria Paola Patuelli et al. (a cura di), Partire dal corpo. Laboratorio politico di donne e uomini, Ediesse, 2011, pp. 25-45 (26) 413A. Rossi-Doria, Ipotesi per una storia che verrà, cit., p.1
414E.Fachinelli, La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, L’erba voglio, 1979
415Manifesto di Rivolta femminile in Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri
solo le configurazioni che il terrorismo rosso assume a metà degli anni settanta in termini di continuità/discontinuità con il '68. Nel caso del movimento femminista questa configurazione è di fatto più complessa e va analizzata non solo rispetto agli eventi del '68, non solo rispetto alle fratture che all'interno dei movimenti della nuova sinistra si pongono in termini di eredità/distanza tra i movimenti che nascono nel '68 e l'emersione della lotta armata, ma anche rispetto alle fratture che il movimento femminista assume nei confronti del movimento studentesco prima e dei gruppi della nuova sinistra poi.
Se è vero che il '68 e più in generale, i luoghi della socializzazione “mista” giovanile, università e scuola, sono un terreno fertile per la presa di coscienza, per sperimentare il disagio nel portare il proprio corpo di donna nella società, essi rendono anche difficile attenersi alla radicale asimmetria del “muoversi su un altro piano” proposto da Lonzi. È il luogo di un'inespressa contraddizione, di forze contrastanti che difficilmente trovano la forma di una sintesi, sospese tra l'orizzonte del proprio progetto di liberazione e il progetto politico di rivoluzione. Porsi in dialettica con il maschile, ci dice Lonzi, è ancora significare il femminile come il polo dell'alterità, opposto e complementare al maschile che si pone come umano assoluto. Sono sostanzialmente d'accordo con Maria Luisa Boccia quando afferma che l'intero arco del movimento femminista, dalla formazione dei primi gruppi alla grande mobilitazione di massa, fino al dissolversi dello stesso movimento come soggetto collettivo unitario è segnato dall'intreccio tra la componente ideologica e quella autocoscienziale416, tra “analisi del vissuto” e “pratica sociale”, tra “tendenza marxista” e “tendenza
radicale”. Ciò ovviamente non esclude la possibilità di un esito ideologico di pratiche autocoscienziali. L'intreccio non è lineare. È certo che il considerare la proposta radicale del movimento femminista rimette in discussione quella narrazione tradizionale che vede una sorta di “filiazione” tra '68 e movimenti degli anni settanta e femminismo. È la stessa Carla Lonzi che fa luce su questa supposta filiazione che, se assunta, non riuscirebbe a far comprendere l'esperienza stessa di Rivolta, tra l'altro marginalizzata durante quegli anni e vista come caso anomalo. Carla Lonzi, come già scritto precedentemente, vede una pura coincidenza generazionale, e in una lettera a L'Espresso scrive:
Il femminismo non è un movimento giovanile, in particolare Rivolta Femminile che è nata come gruppo nel luglio del '70...all'inizio ha espresso donne dai trenta ai trentacinque anni in avanti, che con il '68 non avevano nulla a che vedere. D'altra parte per entrare in uno spirito femminista le giovani hanno dovuto scardinare non poco le parole d'ordine, i modi e miti sessantotteschi. È stato
malgrado il '68 e non grazie al '68 che hanno potuto farlo417.
416Maria Luisa Boccia, L'io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, cit., p.95
417Riportato in Marta Lonzi e Anna Jaquinta, Biografia in Scacco ragionato Poesie dal '58 al '63, Scritti di Rivolta Femminile, 1985, p.50, mio corsivo
Nonostante al centro della trattazione di questo capitolo, come già scritto, ci sia la presenza specifica e autonoma delle donne sulla scena pubblica e politica, c'è un evento emblematico che ci restituisce il diverso ordine di priorità tra femminismo e movimenti della nuova sinistra e la pratica femminista “malgrado il '68”, considerato nella sua accezione “lunga”: lo scontro fisico avvenuto a Roma il 6 dicembre 1975 in una manifestazione per «l'aborto libero, gratuito, assistito», tra le donne di Lotta Continua e gli uomini del servizio d'ordine e della sezione di Cinecittà della stessa organizzazione, che mal tollerando l'invito delle “compagne” a tenersi ai margini del corteo, lo sfondano in nome dell'unità di classe. La sera del 6 le donne di Lotta Continua invadono la riunione del Comitato nazionale pronunciando quella che apparirà come una bestemmia: “fascisti”. Qualcosa inizia a sgretolarsi. Al congresso di Rimini dell'anno successivo (31 ottobre - 4 novembre 1976)
Lotta Continua arriva attraversato da una grave crisi, che trova le sue radici in quell'evento
avvenuto l'anno prima. Lotta Continua scopre il soggetto imprevisto, che mette in discussione il suo modo di fare politica, «il “vecchio” partito, strumento di perpetuazione del potere maschile»418. Le
donne attive nel gruppo pretendono che i loro discorsi siano considerati a tutti gli effetti “politici” e che la sessualità così come vissuta nel gruppo sia messa a tema. Tale messa in discussione sarà radicale. Adriano Sofri, nella frase di maggior effetto dell'introduzione al congresso, dirà: «Dobbiamo abituarci a vivere col terremoto». Quel terremoto invece, a dispetto dei propositi del leader di Lotta Continua, decreterà la fine del gruppo extraparlamentare. Ed è proprio il decisivo secondo congresso nazionale di Lotta Continua e che non lasciava spazio a ricuciture ideologiche, che mette a tema in maniera emblematica le fratture che nascono proprio dal riconoscimento e dalla molteplicità dei bisogni alla luce del rapporto uomo-donna e della sessualità considerati come condizioni materiali oggettive che attraversano tutti i rapporti sociali.
Come afferma Lea Melandri, «ciò che non si è voluto capire, perché significava davvero “lasciarsi terremotare”, è che l'analisi del rapporto uomo-donna e della sessualità costringono ad un ripensamento dell'immagine tradizionale del nemico, della violenza e quindi anche dei modi dello scontro»419. L'«autenticità del gesto di rivolta» si pone in contrapposizione alla modalità con cui la
politica tradizionalmente organizza la ribellione e «la politica va ripensata a partire da tutto il cumulo del non detto, del negato che c'è dentro»420.
Il rapporto è tra l'affermazione di una specifica cultura politica delle donne che elabora una complessa e variegata accezione di politica, legata a una determinata analisi di potere, e le altre
418Stefania Voli, Quando il privato diventa politico: Lotta Continua 1968-1976, Edizioni Associate, 2006, p. 187. Rimando all'intero libro per un'analisi della “questione femminile” in Lotta Continua. Vedi anche Mariella Gramaglia, Affinità e conflitto con la nuova sinistra in Memoria. Rivista di storia delle donne, 19-20 (1-2, 1987) 419L. Melandri, Una barbarie intelligente, in L'infamia originaria. Facciamola finita col cuore e la politica, cit., p.77 420L. Melandri, Per un'analisi della diversità, in L'infamia originaria. Facciamola finita col cuore e la politica, cit., p.
culture politiche presenti nel territorio nazionale, le cui tensioni originarie si trovano nel dilemma uguaglianza-differenza.