4.1 L’ ARCHITETTURA RURALE NELL ’ AREA IBLEA
4.1.4. f Estrazione dell’olio dalle paste
L’estrazione dell’olio dalle paste, ottenute dall’operazione di molitura, poteva avvenire: – per spremitura che rappresenta il sistema più antico di estrazione ed era ef-
fettuato con presse a bassa e ad alta pressione;
– per centrifugazione, a causa del diverso peso specifico, separando il mosto oleoso o il solo olio dalle parti solide della pasta;
– per filtrazione selettiva dell’olio dalle paste attraverso l’uso di diaframmi metallici. Tale sistema veniva denominato a percolamento o per capillarità; – per decantazione stemperando la pasta in acqua e mediante un campo elettri-
co coagulando le materie colloidali al fine di ottenere un rapido affioramento dell’olio.
Per migliorare il rendimento questi sistemi di estrazione erano spesso integrati.
L’area di torchiatura era in diretta connessione con quella di molitura e nei frantoi di piccole e di modeste dimensioni veniva effettuata nel medesimo locale. Il metodo tradizionale di estra- zione dell’olio dalla pasta avveniva per spremitura mediante i torchi. La pasta veniva raccolta dalla molazza e ingabbiata in fiscoli di paglia che andavano disposti sul piano del torchio, circo- lare in pietra dura, dotato di una canaletta al fine di convogliare il liquido estratto verso un tino per la raccolta o verso una vasca interrata. Si preferiva organizzare l’area su due livelli sfalsati di circa 1-1,50 m in modo da collocare nella parte più alta la macchina per la torchiatura e in quella più bassa i contenitori. Completata la spremitura i fiscoli pieni di sanza venivano rimossi dai torchi e svuotati.
In ogni frantoio, vi era un certo numero di molazze alle quali corrispondevano altrettanti tor- chi, in base alla capacità produttiva dell’azienda e al sistema di lavorazione del prodotto.
Secondo Mignoli (1901) per massimizzare le rese di olio si dovevano prevedere un numero di torchi proporzionati alla capacità di frangitura e tali da effettuare agevolmente la prima, la se- conda e la terza spremitura, poiché il processo prevedeva che le paste derivate dalla molitura venissero torchiate, ritrasferite successivamente nel frantoio per una seconda frangitura e quindi torchiate nuovamente. A volte questa operazione consisteva in tre o quattro molature e altrettan- te torchiature.
I torchi più arcaici, definiti “alla calabrese” (Figura 81) e usati nei frantoi siciliani agli inizi del novecento, erano realizzati in legno duro (quercia, noce, castagno) e dotati di due madreviti (scufini) che, girando attorno a due grosse viti (pilera), mediante una manovella o una mazza (palu) facevano abbassare la spessa panca superiore di legno, a forma di parallelepipedo, per pressare la pasta contenuta nei fiscoli. Questi, impilati centralmente tra le viti, venivano pressati da un disco di legno situato sotto la panca superiore che veniva rialzata grazie a un collegamen- to effettuato nel piolo centrale di una scaletta di legno.
Le madreviti venivano azionate dalla spinta di alcuni uomini, tramite un asta di legno fissata a un anello di corde posto in una delle madreviti. Le due viti erano ancorate, in basso, in due fo- ri praticati in un basamento ligneo, a sua volta rigidamente ancorato al pavimento del frantoio, o a volte erano superiormente ancorate al soffitto. La quantità di olive da torchiare dipendeva dal- la qualità della lavorazione e dalla capacità che avevano le macchine nel contenerle.
Il torchio alla genovese (Figura 82 e Figura 83), di dimensioni inferiori rispetto a quello alla calabrese, era dotato di una sola vite centrale che agiva direttamente sulla massa sottostante. I- noltre, l’operazione di torchiatura era facilitata dalla presenza di un argano, al punto da ottenere con il lavoro di un solo uomo quello che con il torchio alla calabrese si realizzava con l’ausilio
di quattro forze lavoro (Fichera et al., 2001). Questo macchinario per la torchiatura fu presente negli oleifici fino alla metà degli anni ’50 del XX secolo.
Grandi aumenti di produzione si ebbero con l’introduzione, a partire dalla seconda metà dell’800 in alcune zone dell’Italia, dei torchi metallici a vite in ferro, azionati a mano o con l’ausilio di un argano e dei torchi o strettoi idraulici.
I torchi metallici (Figura 84) si distinguevano in base al tipo di movimento in:
− torchi a stanga (a palo, a leva, ad aspo, ad asta o a canocchia) che adoperavano un argano per effettuare la seconda pressione e fiscoli di minori dimensioni. Essi non potevano ese- guire la terza pressione;
− torchi a cricco o a stanga fissa dotati di un asta fissa che, dopo avere effettuato la pressio- ne, ritornava grazie al cricco nella posizione di partenza;
− torchi a leva multipla, dotati alla sommità della vite di un disco d’ingranaggio orizzontale che consentiva la rotazione;
− torchi a vite continua, dotati di una ruota verticale di notevole diametro posta sul lato op- posto della manovella.
Figura 81 Torchio alla calabrese realizzato con: a) pilera; b) scaletta; c) scufini; d) cianca suprana; e)
lumera. Fonte: www.iblei.it
Figura 82 - Torchio alla genovese. Fonte: www.selento.com
Figura 84 Torchi metallici. Fonte: Agosteo, 2008.
Le presse idrauliche (Figura 85) erano dotate di un meccanismo di trasmissione della pres- sione a mezzo di una pompa idraulica che, azionata a motore o a mano, consentiva a un pistone inferiore di sollevarsi e di schiacciare la massa contro un piatto posto al di sotto dell’architrave superiore. In alcune presse, una colonna forata faceva da guida al pistone e al posto dei fiscoli alcune presse erano dotate, con notevoli vantaggi, di gabbie metalliche (a fori, a bacchette, a doghe, a cerchi) che sostituivano i fiscoli che avevano il difetto di fare asciugare la pasta delle olive.
In alcuni oleifici erano in uso torchi con un contro-pistone girevole adatti per la prima lavo- razione con i fiscoli e per la seconda lavorazione con le gabbie (Figura 86).
Dal diametro del pistone e dalla pressione di esercizio si distinguono le presse a bassa poten- za, adoperate nella prima spremitura, da quelle ad alta potenza o superpresse adoperate per la seconda spremitura o nella lavorazione unica (Cantarelli, 1983). Tuttavia la logica evoluzione verso macchine di sempre maggiore potenza si ebbe con l’introduzione delle superpresse in ac- ciaio che consentivano di evitare la doppia lavorazione e garantivano la trasformazione di 50 q di olive al giorno.
Le superpresse erano realizzata da un’incastellatura in acciaio, con un basamento sul quale poggiavano due montanti che sostenevano un architrave. Sulla base dell’incastellatura trovano collocazione il pistone che, azionata da una pompa idraulica, si sollevava comprimendo la pasta, disposta su un piatto, contro la testata superiore. La pasta era disposta sul piatto del pistone a strati su diaframmi circolari di materiale filtrante (fiscoli): fibra di cocco, di sparto, fibre sinteti- che, ecc. Al fine di evitare che gli strati di pasta avvolta si potessero flettere, il piatto della pres-
sa presentava al centro una colonnina forata, la foratina, sulla quale si infilavano i fiscoli e che serviva a facilitare lo sgondro dell’olio (Cantarelli, 1983).
In Sicilia, l’introduzione e la diffusione di questo tipo di macchine fu agevolata dalla loro produzione nelle fonderie “Weigert & Pirrone” di Messina. Ciò consentì un notevole abbatti- mento del costo di acquisto che, comunque, veniva ammortizzato presto dall’aumento della produzione dell’impianto. Venivano accelerati i tempi di lavorazione, diminuiva il numero degli addetti coinvolti nelle procedure di torchiatura e avveniva un miglioramento globale della quali- tà del lavoro.
Figura 85 - Superpresse in acciao. Figura 86 - Presse idrauliche con gabbie metalliche. In generale, nel ciclo produttivo dell’olio, erano previste quattro diverse molature con relati- va pressatura. Le prime due fasi di pressatura avvenivano a freddo e portavano alla produzione dell’olio sopraffino e dell’olio fino. La miscelazione di questi due tipi di oli determinava un olio mezzo fino, dotato di qualità intermedie a quelle dei composti precedentemente citati. La terza fase di molitura e di pressatura era effettuata con acqua bollente.
La separazione dell’olio dall’acqua di vegetazione poteva essere ottenuta per decantazione o per centrifugazione.
L’estrazione per decantazione avveniva in apposite vasche (Figura 86) dove l’olio veniva e- stratto per affioramento sull’acqua vegetale e recuperato tramite un mestolo. Invece, l’operazione per centrifugazione, rapida e completa, veniva effettuata mediante i separatori cen- trifughi (Figura 88) che erano del tipo a tamburo conico e contenevano una serie di coni fra i quali si determinava la separazione dell’olio che defluiva dalla zona centrale del bolo scarican- dosi dall’uscita più alta (Canticelli, 1983). Nel corso dell’operazione, si accumulano, sulla fac- cia interna dei dischi, le morchie88, pertanto è indispensabile smontare il macchinario per la pu-
litura dopo avere effettuato l’operazione.
88
Le morchie sono il deposito che si raccoglie in seguito alla decantazione dell’olio. Alcuni trattamenti chimici effet- tuati in raffineria consentono il recupero dell’olio e l’eliminazione delle parti mucillaginose, costituite dai frammenti della polpa estratti insieme al mosto oleoso e dalle particelle terrose.
Figura 87 - Dispositivo per lì affioramento continuo dell’olio in vasche di decantazione. La miscela acqua-olio alimentata in A subisce una serie di decantazioni successive che porteranno alla separazione dell’olio puro
Figura 88 - Separatore centrifugo per mosto oleoso
Infine, a conclusione del ciclo produttivo, avveniva la lavatura del nocciolo e il trattamento delle sanse che, con l’acqua, venivano lasciate a fermentare in una vasca. Il composto poteva essere molito successivamente e, con mezzi meccanici, veniva effettuava la separazione della polpa dai frammenti del nocciolo. Le sanse erano successivamente trasferite in una serie di va- sche, a più livelli, in cui scorreva dell’acqua. Ivi, i pezzettini di nocciolo cadevano sul fondo e la polpa affiorava in superficie. La polpa veniva così raccolta e sottoposta al processo di pressione. L’olio estratto poteva essere utilizzato per uso non alimentare, mentre i frammenti di nocciolo che si trovavano in fondo alla vasca potevano essere impiegati per la produzione di combustibi- le.
La tecnica tradizionale di produzione dell’olio comportava lunghi tempi di lavorazione, di- somogeneità della pasta di olive e conseguente perdita di una quantità non trascurabile di olio residuo dalle sanse, difficoltà di controllo della pressione di spremitura e presenza di acque di vegetazione nell’olio prodotto. Inoltre, spesso il processo produttivo si svolgeva in condizioni di scarsa igiene, per la presenza di animali all’interno dei locali, per la difficoltà nel compiere le operazioni di pulizia dei locali, dei fiscoli e dei sottini tra un ciclo produttivo e il successivo e per l’intervento manuale degli operatori in tutte le fasi della lavorazione (Cascone & Lanteri, 1990).
Il ciclo tradizionale di estrazione dell’olio (Figura 89) può essere schematizzato come nell’immagine sottostante.
Figura 89 - Schema di lavorazione delle olive con estrazione per pressione unica secondo il ciclo tradizionale: a) alimentazione delle olive; b) frantoio a molazze; c) gramolatrice; d) superpressa; e) settino di raccolto dal mosto oleoso; f) pompa; g) vaschetta sopraelevata di alimentazione della centrifuga; h) acque di vegetazione; i) centrifu-
L’olio veniva conservato in un luogo a bassa temperatura (12° C - 15° C), al riparo dall’aria, dalla luce e dagli odori che facilmente poteva essere assorbiti. Ogni sei mesi venivano effettua- vano più travasi per separare dall’olio le morchie che si accumulavano sul fondo dei contenitori. A seconda della durata del periodo di conservazione, gli oli si classificavano in oli mosti per i primi sei mesi di conservazione, oli giovani fino al primo anno, oli vecchi oltre questo periodo e oli decrepiti quelli conservati per un lungo periodo di tempo. Gli oli giovani, in genere, conser- vano il colore del frutto e sono opalescenti ma, in seguito, all’invecchiamento perdono progres- sivamente questi caratteri diventando incolore e limpidissimi.
I recipienti tradizionali per la conservazione dell’olio erano i vasi di terracotta, a forma span- ciata detti orci o ziri. In questi contenitori, le morchie si raccoglievano sul fondo in una piccola superficie e la stretta imboccatura del vaso permetteva una ridotta esposizione all’aria. Questi recipienti vennero sostituiti da vasche di lamiera stagnata o in resine sintetiche. Nei grandi im- pianti erano utilizzate grandi vasche in cemento, rivestite al loro interno con mattonelle di grés o trattate con silicati o con resine sintetiche. I recipienti in vetro consentivano, invece, la distribu- zione del prodotto al consumo.
4.1.4.g Le tipologie edilizie ed i materiali impiegati negli edifici per la produzione