4.1 L’ ARCHITETTURA RURALE NELL ’ AREA IBLEA
4.1.3. a Il processo e gli strumenti per la produzione del vino
In campo, durante la vendemmia (Figura 45), l’uva veniva raccolta in recipienti fatti di canne di diverse dimensioni, chiamati comunemente “cruveddi”, “canceddi” o nei “cancidduzzi” che venivano appesi alla groppa dei muli (Paravizzini Dierna, 2007; Magnano di San Lio, 2005). Il mulo o il carro erano gli unici mezzi che, in passato, consentivano il trasporto dell’uva al pal- mento.
L’uva, distribuita sulla pista, veniva pigiata, senza l’ausilio di macchine pigiatrici84 (Figura
46 e Figura 47) ma a opera di uno o più contadini, i “parmintara” che, attraverso movimenti ca-
84
Le pigiatrici meccaniche sono costituite da una tramoggia che conduce le uve fra due rulli scanalati di ghisa o di legno che ruotano in senso antiorario e schiacciano più o meno fortemente i grappoli. L’operazione consente di otte- nere un mosto che contiene anche raspi e bucce. Nei modelli a motore, un dispositivo a bracci regola l’afflusso dell’uva nei rulli. Questi macchinari sono mobili e potevano essere disposti direttamente sui tini. I modelli di mag- giori dimensioni hanno i rulli rivestiti di gomma e sono muniti di una pompa che convoglia il mosto ai recipienti di fermentazione.
librati e ritmici delle gambe e con l’uso di scarpe bullettate, effettuavano la pigiatura sostenen- dosi, a volte, a delle corde attaccate al soffitto. Successivamente, con l’introduzione delle prime pigiatrici, l’area di pigiatura inizialmente dimensionata in base alla capacità di lavorazione gior- naliera venne utilizzata per il deposito temporaneo delle uve (Acquaviva, 1995).
La pigiatura effettuata con i piedi presentava alcuni inconvenienti legati alla lentezza, alla incompletezza dell’operazione e alla scarsa igiene. Tuttavia, lo schiacciamento degli acini avve- niva in maniera soffice, senza lacerazioni, senza lo spappolamento della buccia evitando il con- tatto del mosto con gli elementi di metallo che ne avrebbero alterato la qualità (Cantarelli, 1983).
Figura 45 - Immagine di una vendemmia a Sant'Alfio (Ct) dei primi del'900 (Foto N. Spina).
Dopo l’operazione di pigiatura, mediante paratie mobili di legno e canalette a sbalzo, il pi- giato veniva trasferito nelle vasche sottostanti, tini o ricevitori che servivano per la fermentazio- ne tumultuosa, a volte con la presenza delle vinacce, del mosto o, nel caso di vinificazione del vino bianco, erano i luoghi deputati per una parziale decantazione (Failla & Nicolosi Asmundo, 1984). Il numero dei tini presenti in palmento e la loro capacità complessiva dipendeva dalla quantità giornaliera di uva raccolta e dalla durata di fermentazione del mosto.
La vinaccia veniva raccolta dalla zona di pigiatura o dai tini e pressata nei torchi. La lettera- tura indica vari sistemi di torchiatura, usati dai greci e dai romani e adoperati fino ai giorni no- stri nelle aziende a conduzione familiare.
Il sistema più arcaico per pressare la vinaccia consisteva nel metterla dentro una cesta e com- primerla attraverso una lunga trave prelum che formava una leva tra un punto di appoggio, cre- ato nel muro perimetrale, e due pilastri di legno detti arbores (Acquaviva, 1995). La zona del- la torchiatura doveva consentire sufficiente spazio di manovra e dall’esterno era spesso ricono- scibile per la presenza di contrafforti murari in corrispondenza del vincolo a muro della trave del torchio.
Nella zona archeologica di Palazzolo Acreide, nello scavo di un palmento (Figura 48) sono presenti accanto alla vasca di pigiatura due fori scavati nella roccia: uno rettangolare di dimen-
Al fine di ottenere un vino armonico, ossia giustamente acido e tannico, venivano impiegate le macchine pigiatrici diraspatrici che eseguivano contemporaneamente la pigiatura e la separazione dei raspi. Le macchine erano costi- tuite da uno o più cilindri di lamiera forata al cui interno girava un albero dotato di pale elicoidali. Su un telaio me- tallico era disposto l’apparato diraspante. L’uva introdotta attraverso una tramoggia veniva sbattuta contro le pareti del cilindro e dai fori della lamiera defluiva il mosto che veniva raccolto nella vasca sottostante il cilindro. I raspi passano in un secondo cilindro concentrico e da qui erano espulsi. Tale operazione consentiva una pigiatura rapida e completa, senza lacerazione dei raspi, con una certa aereazione che favoriva il raffreddamento del mosto e lo svi- luppo dei lieviti. Queste macchine, azionate a mano o a motore, con capacità lavorative da 10 q a 400 q al giorno, erano a cilindri orizzontali e a cilindri verticali e consentivano l’espulsione dei raspi dal basso o dall’alto (Cantarel- li, 1983).
sioni 27 × 40 cm e profondo 44 cm e uno irregolare con un lato di 61 cm di dimensione. I due buchi, comunicanti tra di loro mediante un foro ad asse orizzontale scavato nella roccia, servi- vano rispettivamente: il buco rettangolare ad accogliere un palo verticale con aperture ai quattro lati che fungeva da vincolo per la trave orizzontale del torchio e quello irregolare permetteva il posizionamento nel foro roccioso di comunicazione di un asse di legno che garantiva la stabilità del palo verticale. Tale sistema rappresentava un vincolo in un estremo della trave di pigiatura che operava la torchiatura della vinacce.
Figura 46 - Pigiatrice Figura 47 - Pigiatrice diraspatrice
Figura 48 - Sistema di torchiatura. Fonte: Acquaviva, 1995.
Il torchio ad argano (Figura 49), documentato da Catone e utilizzato nel II° sec a.C., era dotato di un argano che, fissato a terra e manovrato da leve, consentiva la movimentazione del
prelum. Il prelum era appoggiato su traversine di legno, assercula, sorrette da una coppia di montanti di legno, arbores che, forati lateralmente consentivano di variare la posizione delle traversine e quindi la pressione della trave man mano che il volume da torchiare diminuiva. Il sollevamento della trave era concesso dallo scioglimento delle corde che scorrevano dentro una carrucola, sucula. L’ara, spazio di forma circolare dove venivano disposte le vinacce, si trova-
va allo stesso livello della pavimentazione e aveva una certa pendenza al fine di fare defluire il mosto dentro la vasca di pigiatura, lacus.
La Figura 50 mostra un torchio realizzato con la coclea, una trave orizzontale filettata con vite femmina che si avvitava su una trave verticale, ruga, a forma di vite senza fine. Sulla base
del giro che veniva impostato, in senso orario o antiorario, la trave pressante si alzava o si ab- bassava. Questi torchi si diffusero dal I° sec. a.C. al II° sec d.C. e potevano possedere dei con-
trappesi mobili o fissi (la vite era ancorata al suolo o a un contrappeso che, per la sua pesantez- za, non le consentiva alcun movimento).
Il torchio “a cappella” (Figura 51) presente nei vecchi palmenti del ragusano, era realizzato
con una traversa in legno dotata di madrevite che, vincolata a due montanti verticali, consentiva lo scorrimento della trave di legno.
Il torchio “a bilancia” (Figura 52 e Figura 55) era realizzato con la trave pressante vincola- ta nella testa, al muro (Figura 53) , nella parte centrale, a due montanti forati che consentivano l’inserimento di traversine in legno o in ferro, allo scopo di bilanciarla nelle fasi di sollevamento o di abbassamento. All’altra estremità rispetto alla testa, la trave terminava a forcella ed era vin- colata a una vite di legno (Failla & Nicolosi Asmundo, 1984).
Una variante di questo tipo di torchio presentava il vincolo alla testa della trave realizzato in- serendo il prelum in un palo verticale detto “u peri”. Tale palo, forato e generalmente in legno di quercia, era vincolato al muro con una coppia di lastre di pietra lavica (Figura 54). Le vinacce venivano ammassate nella parte centrale della trave pressante sotto un disco di legno. Esse era- no contenute in un cilindro alto circa 1,60 m, di circonferenza pari a quella del disco soprastan- te, realizzato con nastri di fibra vegetale che venivano intrecciati, dalla base per poi salire pro- gressivamente, con una tecnica che in dialetto siciliano si chiamava “murari u pastuni” (Ac-
quaviva, 1995).
Figura 50 - Torchio a vite - Buscemi - Palazzolo A- creide. http://www.museobuscemi.org
Figura 51 - Torchio a cappella con vite in legno ad azione diretta. Fonte: Acquaviva, 1995.
Figura 52 - Torchio a bilancia: immagine della testa della trave vincolata alla vite.
Figura 53 - Vincolo al muro della testa della trave pressante.
La vinaccia veniva sottoposta al torchio in genere due volte. Il giro di vite in senso orario, con il prelum bilanciato sui montanti, permetteva nell’estremità dove era inserita la vite un ab- bassamento dell’asse della trave e un innalzamento della testa. Invece la rotazione in senso an- tiorario produceva il movimento contrario. Queste operazioni, unite alla possibilità della trave di trovare appoggio sui vincoli (nei montanti e nel vincolo a muro) e all’azione alternante di toglie- re e/o inserire le traversine nei montanti e nel peri, consentivano l’abbassamento della trave e quindi la pressatura delle vinacce.
Di seguito vengono illustrate più nel dettaglio le operazioni di movimentazione del torchio (Figura 56) (Cascone et al, 1997):
La leva A-B fa perno nei montanti, in C, e ivi la traversina è posizionata nel primo foro. Il braccio C-B viene abbassato dalla rotazione delle vite e il braccio A-C contemporaneamente si solleva consentendo di togliere la traversina dal primo foro del punto A per inserirla nel secondo foro.
Figura 54 - Vincolo a muro in alcuni torchi a bilancia. Fonte: Acquaviva, 1995.
Successivamente il braccio C-B viene sollevato in seguito alla rotazione in senso antiorario della vite e contemporaneamente si abbassa il braccio A-C fino a poggiare sulla traversina inse- rita in A nel secondo foro. Adesso spostando la traversina dal primo foro del palo centra le C al secondo foro è possibile rieffettuare le fasi di torchiatura precedentemente descritte.
Dopo avere spostato le traversine negli ultimi fori, un ulteriore rotazione della vite che pro- durrà il sollevamento della leva A-B consentirà l’inserimento sotto la traversina di cunei di le- gno e un ulteriore abbassamento della testa. La trave verrà fatta abbassare fino a quando il con- trappeso non accennerà ad alzarsi.
Figura 56 - Fasi della torchiatura nel torchio a bilancia. Fonte: Cascone et al., 1997.
Il “torchio a bilancia” si presentava più funzionale rispetto al torchio alla greca perché consentiva la torchiatura di una grande quantità di vinaccia e una maggiore pressione da parte della trave.
Negli anni trenta, nell’area iblea, il torchio a vite e quello a cappella con vite in legno ad a- zione diretta vennero progressivamente sostituiti da un torchio costituito da un tino di pressa, denominato “u cannizzo”, che rappresentò l’ultima generazione degli strumenti di pressa ma- nuali. Il torchio era realizzato con doghe di legno discostate tra di loro al fine di consentire la fuoriuscita del vino che veniva raccolto su un basamento in ghisa o pietra dotato di un beccuc- cio di scolo. Al centro del basamento era collocata una vite di ferro (Figura 57). La madrevite che consentiva la pressatura era costituita da una piastra forata con vite femmina in cui erano inserite delle assicelle di ferro che unitamente a una leva di ferro, azionata a mano, facevano ruotare la piastra. Erano macchine mobili di modeste capacità che esercitavano pressioni di 2,5 kg/cm² e che furono successivamente modernizzate con apparati di compressione idraulica.
Figura 57 - Torchio detto “u cannizzo”.
Figura 58 - Torchio a vite azionato da una pompa idraulica
Il torchio a vite azionato da una pompa idraulica (Figura 58) era dotato di un compressore costituito da due pistoni, un manometro e una valvola di scarico che consentiva la discesa rapida del piatto lungo la vite. Invece, il torchio a pressione idraulica, evoluzione del torchio a vite con pompa idraulica, era composto da un’incastellatura che comprendeva un basamento in cui aveva sede il pistone e da una gabbia di legno con armatura di acciaio disposta su un piatto mobile si- tuato su rotelle che conteneva le vinacce. Il meccanismo, azionato dalla pompa che era incorpo- rata nel montante dell’incastellatura, raggiungeva pressioni fino a 25 kg/cm² e permetteva la la-
vorazione di 5-15 q di vinaccia. Il pistone poteva sollevarsi dal basso o scendere dall’alto e ogni pressa disponeva di due gabbie mobili su carrello al fine di facilitare il caricamento e rendere più celere la spremitura. Con i torchi a pressione verticale si poteva ottenere un buon prodotto di spremitura e un’alta resa. Tuttavia il ciclo di pressatura con questo tipo di macchinario risultava piuttosto lento e intermittente (Cantarelli, 1983).
Con l’adozione del sistema pneumatico, la lavorazione delle vinacce risultò eccellente per la mancata lacerazione e perché essere venivano schiacciate in maniera soffice e uniforme. Questi tipi di macchinari permettevano la spremitura dell’uva e anche della vinacce mediante un cilin- dro di gomma che veniva gonfiato dentro una gabbia di acciaio.
Nei locali per la produzione del vino, accanto ai tini di fermentazione e soprattutto nelle grandi aziende vinicole si trovavano i tinelli di svinatura, ossia tini di piccole dimensioni che servivano per la raccolta momentanea del mosto, all’atto della svinatura e dopo la fermentazio- ne, prima della conservazione nelle botti.
Il travaso del vino veniva effettuato con una “mezza tina”, cioè in un tino di legno ottenuto
da una botte tagliata a metà, con “u brigghiolu”, cioè un secchio di legno a forma tronco- conica, con “u tineddu”, ossia un tino di forma tronco-conica stretto all’estremità o con i “lan- nuna”, contenitori di latta a forma di parallelepipedo dalla capacità di 12 litri. Tuttavia, a volte, il mosto fermentato defluiva dai tini di fermentazioni nelle botti attraverso apposite canalette in pietre disposte sui muri perimetrali della cantina.
Le botti, generalmente in legno di castagno, più raramente di quercia o di ciliegio, venivano controllate rigorosamente dagli operai prima di effettuare il versamento del mosto e cementate con della creta qualora presentavano delle falle.