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4.1 L’ ARCHITETTURA RURALE NELL ’ AREA IBLEA

4.1.4. g Le tipologie edilizie ed i materiali impiegati negli edifici per la produzione

Tra l’ottocento e il novecento, nella progettazione planimetrica degli ambienti per la lavora- zione dell’olio (Figura 90, Figura 91 e Figura 92), trovava spazio, in rapporto con l’ambiente esterno, l’olivaio, utile al deposito delle olive quando la lavorazione non poteva avvenire imme- diatamente dopo la raccolta. Qui le olive venivano depositate sul pavimento, in strati di ridotto spessore, o collocate in cassette con il fondo di canne intrecciate in un ambiente che, per evitare la putrefazione e facilitare la traspirazione dei frutti, doveva essere adeguatamente ventilato e possedere una temperatura mite. La conservazione non doveva prolungarsi di molto e superare i quindici giorni. L’olivaio, negli impianti edilizi realizzati a più livelli, si trovava nella zona più alta del fabbricato e da qui, tramite canalette e tramogge, le olive venivano versate direttamente nelle macchine che effettuavano la frangitura. In questo locale venivano effettuate anche le ope- razioni di mondatura, cernita e lavaggio. La mondatura era ritenuta necessaria quando fra le oli- ve erano presenti notevoli quantità di foglie o altri corpi estranei; la cernita si effettuava a mano su appositi tavoli per l’eliminazione di frutti guasti. Fondamentale era l’operazione di lavaggio, specialmente ove veniva effettuata la raccattatura a terra delle olive al fine di eliminare le parti- celle di argilla che potevano causare un sgradevole sapore all’olio.

Il lavaggio delle olive che consentiva l’eliminazione della terra, delle foglie e di ogni altro tipo di corpo estraneo era eseguito a mano, immergendo in acqua le cassette, con l’impiego di molta manodopera e di cospicuo tempo. L’evoluzione tecnologica portò alla realizzazione delle lavatrici rotative costituite da più tamburi con le pareti forettate, suddivisi in scomparti e muniti di apposite pale. Le olive venivano introdotte dalla tramoggia, irrorate dall’acqua e convogliate negli appositi tamburi al fine di perdere progressivamente terriccio e foglie.

La sala di frangitura e di torchiatura era di notevoli dimensioni e ospitava le macchine di mo- litura e di torchiatura. Iva doveva essere mantenuta una temperatura di 15-20° C e rappresentava il locale principale dell’impianto. Esso doveva essere direttamente al di sotto o adiacente all’olivaio e in diretta comunicazione con i locali di conservazione della sansa e di centrifuga- zione del mosto oleoso. Il pavimento doveva essere facilmente lavabile e in materiale antisdruc- ciolo e le pareti rivestite o tinteggiate fino ad un’altezza di 1,5 m.

Accanto agli impianti di torchiatura si trovava una zona ove avveniva la separazione dell’olio dall’acqua di vegetazione. Infatti, l’olio estratto dal procedimento di pressatura sgron- dava in una vasca (in appositi sottini) che, vicina alle presse, veniva riempita con dell’acqua di vegetazione (Cascone & Lanteri, 1990). L’olio, raccolto con un vassoio di zinco perché emer- gente in superficie, veniva successivamente versato nei contenitori per la conservazione. Tutta- via tale soluzione prevedeva l’interramento della vasca che comportava una maggiore fatica e un rilevante dispendio di tempo così, a partire dai primi del novecento si preferì collocare, in corrispondenza delle presse, delle zone a quota inferiore, a circa 1-1,50 m, dove posizionare i contenitori, in terracotta o latta, per la raccolta dell’olio.

Figura 90 - Planimetria per la progettazione di un Frantoio. Fonte: Nuova Enciclopedia agraria Italiana, Utet, Torino 1912. A. Frantoio; B. Presse; C. Pompa Idraulica; D. Macello e frantoio per le sanse; E. Presse; F. Frullino; G. Caldaia; H. Bacini a gradinata; I. Deposito della sansa; L. Elevatore per le olive; M. Chiaritoio;

N. locale della motrice.

Accanto alla zona dove avveniva la frantumazione, nel caso di frantoi azionati con il traino degli animali, si poteva trovare un vano, adibito a maneggio e parzialmente chiuso, ove gli ani- mali, collegati a un’asta orizzontale, muovendosi causavano il funzionamento della macchina. Tuttavia, nel caso in cui il frantoio fosse alimentato a gasolio, negli impianti era prevista una stanza apposita adiacente che ospitava il motore.

Negli oleifici specializzati era presente un locale di chiarificazione, detto chiaritoio, dove ri- porre l’olio a decantare dentro tini, giare di terracotta, fusti cilindrici di lamiera stagna o in va- sche di muratura, su piani sfalsati, rivestite di piastrelle di vetro o di maiolica. Le vasche dove- vano essere dimensionate proporzionalmente alla lavorazione giornaliera dell’olio e alle diverse qualità di olio prodotto. L’olio poteva restare per un periodo compreso tra sette e dieci giorni. Le centrifughe utilizzate nei periodi successivi venivano ubicate nella stessa zone dove erano state realizzate le vasche di decantazione.

Un altro vano ospitava il locale di conservazione, l’oliario, che era collocato a un livello più basso da quello di chiarificazione al fine di facilitare il trasferimento dell’olio per gravità attra- verso canali e tubazioni che limitavano il contatto con l’aria. A volte, nei casi in cui l’olio non fosse venduto a terzi e poiché le condizioni termoigrometriche erano pressoché simili nei due ambienti (con la temperatura dell’aria compresa tra i 12 e i 16 °C), non vi era particolare distin- zione tra il locale di chiarificazione e quello di stagionatura e conservazione. Tale zona, nel con- trollo passivo del microclima interno, era interrata, parzialmente o totalmente per sfruttare l’inerzia termica del terreno (Di Fazio, 2008). Nell’oliario, l’olio veniva conservato nei conteni- tori, uguali a quelli utilizzati nel chiaritoio, e subiva due o più travasi. Un primo travaso avveni- va dopo 6-8 mesi e un altro dopo i successivi 4-6 mesi.

La Figura 93 illustra le piante e i prospetti di due edifici tradizionali a un unico livello adibiti a frantoi. I locali si presentano angusti e poco funzionali e, data la limitata superficie disponibile nel fabbricato, quali aree operative accessorie (l’olivaio ad esempio) venivano utilizzati gli spazi all’aperto, cortili o strade, adiacenti al fabbricato. Si può affermare che a questa tipologia di im- pianti appartengono tutti quegli oleifici di dimensioni assai modeste che sono molto diffusi nella provincia ennese (Failla et al., 1997) e in tutto il territorio siciliano.

Figura 91 - Schema planimetrico per un frantoio a trazione animale dei primi del novecento. Fonte: Di Fazio, 2008.

Figura 92 - Schema planimetrico per un frantoio azionato a motore dei primi del novecento. Fonte: Di Fazio, 2008.

Si potevano riscontrare nel territorio siciliano strutture edilizie, a due o più piani (Figura 94), costituite da un unico grande ambiente localizzato al piano terra del fabbricato che ospitava il ciclo produttivo dell’olio ed era realizzato con materiali e tecniche costruttive non proprio perti- nenti alla funzione. Al primo piano del fabbricato trovavano collocazione l’olivaio o i vani a uso abitativo.

Invece, di notevoli dimensioni e con una maggiore produttività erano gli impianti gradonati (Figura 95) ove trovavano alloggio, nel piano superiore, i frantoi, i torchi e altri macchinari e accessori mentre al piano inferiore si trovavano le vasche per la lavatura della sansa nei vari li- velli degradanti (Fichera et al., 2001).

La necessità del controllo microclimatico influenzava l’organizzazione complessiva dell’impianto edilizio. Potevano essere sfruttate, se presenti nel territorio, grotte e cavità naturali o erano seguite le indicazioni dettate dalla letteratura tecnica che suggerivano l’esposizione a nord per l’olivaio e a sud per la sala di frangitura e di torchiatura e una localizzazione seminter- rata per il chiaritoio e per il locale di conservazione degli oli maturi.

Le murature venivano realizzate in calcare duro che, rozzamente squadrato o informe in base al periodo di costruzione del fabbricato, veniva estratto dalle cave locali. La muratura informe consentiva la realizzazione di paramenti variabili tra gli 80-120 cm di spessore ed era attuata di-

sponendo accuratamente, al fine di consentire l’assorbimento degli sforzi, pietre informi e mal- ta. Invece, la muratura squadrata che permetteva la realizzazione di paramenti di 70 cm circa, era detta “a filari” perché consisteva nella posa in opera di ricorsi regolari di blocchi di pietrame sbozzati, di lunghezza e di profondità variabile ma che risultavano però tutti della stessa altezza. La muratura squadrata era attuata con l’alternanza di pietre disposte di “punta” e di “fianco” e saturando gli spazi di risulta con minutame di pietra o di laterizi. Dopo il posizionamento dei blocchi veniva effettuata la rasatura del ricorso con malta, sovrabbondate in modo da provocare l’emissione laterale sotto il carico dei blocchi del ricorso superiore. Ciò determinava l’uniformazione dei carichi distribuiti che altrimenti, data la irregolarità delle superfici, sarebbe risultata concentrata in alcuni punti di contatto. Tuttavia, lo spessore della malta utilizzata veni- va ridotto al minimo per limitare il fenomeno della fessurazione dovuta al ritiro della malta e per conferire maggiore solidità al manufatto.

Lo sbozzamento del pietrame permetteva una migliore organizzazione della muratura, mi- gliori ammorsamenti e una più elevata resistenza. In questo caso i muri venivano efficacemente ammorsati negli incroci e nei cantonali con blocchi appositamente dimensionati.

L’intonaco, generalmente presente nei locali interni per garantire migliori condizioni igieni- che, poteva presentare una finitura liscia o strollata. La copertura era a una falda o a due falde, nel caso di edifici di modeste o di grandi dimensioni. Il tetto era strutturato con puntoni, arca- recci e incannucciato o tavolato o veniva realizzato con arcarecci, listelli e incannucciato o tavo- lato. Nel caso di fabbricati di notevoli dimensioni (8-10 m di larghezza) potevano essere presen- ti capriate lignee e nel caso di fabbricati a due elevazioni la copertura era fornita dalla struttura portante l’orizzontamento del secondo piano, frequentemente costituita da volte in muratura o in laterizi o, raramente, solai lignei a semplice o doppia orditura. Il manto di copertura era realizza- to in coppi e canali. Le aperture erano riquadrate da cornici in calcare tenero, perfettamente squadrate ad intradosso rettilineo o curvilineo in base alla dimensione della luce. Nella porta e- sterna principale di accesso, così come accadeva per gli edifici rurali che ospitavano la cantina e il palmento, veniva scolpita la data di realizzazione della fabbrica. La pavimentazione era rea- lizzata con lastre di pietra di calcare duro sostituite, nei tempi più recenti, dal battuto di cemen- to. Gli spazi interni dovevano consentire la collocazione delle macchine e la migliore agibilità per i lavoratori.

Figura 94 - Oleifici nel Motiferru. Fonte: Denti et al., 1994. Il piano terra era utilizzato per il ciclo pro- duttivo, il primo piano era destinato all’olivaio. Nello stesso fabbricato, i piani superiori erano a uso

abitativo.

Figura 95 - Stabilimento oleario nel territorio di Rizzoconi in provincia di Reggio Calabria (Fichera et

al., 2001). 1. Area di carico; 2. Olivaio; 3. Area di frangitura e pressatura; 4 ruota idraulica; 5. Area di