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IL FALLIMENTO DELLA RIEDUCAZIONE

LEGISLAZIONE PENALE MINORILE OGGI Dal 1934 a oggi

4.2 IL FALLIMENTO DELLA RIEDUCAZIONE

Negli anni '60-'70 questa fiducia nelle istituzioni totali e nella loro capacità di risocializzare e rieducare il minore entrò in crisi:

"nella stragrande maggioranza degli istituti un vero trattamento rieducativo non esiste [...]. Invece di un trattamento individualizzato, di cui necessitano i disadattati, viene applicato un trattamento di massa, che umilia l'individuo, lo inimica all'ambiente e, di conseguenza, lo costringe all'antisocialità".100 La pluralità di istituzioni e organismi rieducativi, creati dalla Legge del 1956 per consentire un trattamento più adeguato alle singole personalità, ebbe scarso successo, perché, nella pratica, la stessa misura fu usata indifferentemente in situazioni soggettive diverse che avrebbero richiesto, invece, differenti trattamenti.

Così, ad esempio, negli anni '50-'60 si ebbe un boom delle Case di rieducazione dovuto al fatto che queste non si limitavano più ad accogliere le richieste di internamento dei figli irregolari nella condotta e nel carattere da parte dei padri, come prevedeva l'art.

25 della Legge n. 888 del 1956, ma spesso, soprattutto nel Sud, ospitavano i ragazzi solo perché non avevano una casa in cui abitare e dei genitori che si prendessero cura di loro:

100 G. Senzani, L'esclusione anticipata, Jaca book, Milano 1970, p. 463: "negli istituti i minori sono divisi in gruppi di 20/30 ragazzi [...], affidati [...] ad un solo agente [...] per cui, di fatto, è impossibile il trattamento rieducativo".

“[…] il sistema rieducativo copriva e mistificava ancora, in buona parte, esigenze di carattere assistenziale. Cioè, la presa in carico dei minori da parte delle istituzioni rieducative non era neppure chiaramente motivata da devianze conclamate o da sintomi evidenti di irregolarità della condotta e di disadattamento, ma da gravi carenze o dalla totale mancanza di risposte assistenziali e sociali di tipo primario (famiglia, scuola, enti locali).” 101

In sintesi:

“Il sistema rieducativo-penale italiano, dopo vari decenni di esistenza e di funzionamento, non ha inciso sulle condizioni di abbandono dei minori, non li ha salvati dai pericoli del traviamento, del disadattamento, della delinquenza, non ha tutelato la loro socializzazione, le loro possibilità di integrazione e di inserimento sociale; tale sistema non ha neppure difeso la società dalla minaccia e dai danni della delinquenza minorile, sia perché non ha prodotto alcuna azione preventiva in tal senso, sia perché non ha rieducato i «minori delinquenti», non li ha corretti, recuperati, riabilitati.”102

Questo è quanto accaduto, ma quali sono le cause del fallimento della rieducazione? Normalmente i fattori considerati la causa di tale fallimento sono l'insufficienza numerica e l'impreparazione del personale, il sovraffollamento degli istituti e l'inadeguatezza degli ambienti ("soltanto il 23% degli istituti di rieducazione è stato appositamente costruito per i minori, il 77% è costituito da vecchi edifici adattati"103). Ma secondo De Leo ragionare in

101 G. De Leo, La giustizia dei minori. La delinquenza minorile e le sue istituzioni, Einaudi, Torino, 1981, pp.14-15

102 Ibidem

103 Spadolini, Storia dei processi culturali ed educativi, vol. II: Dal Rinascimento al Positivismo, Roma, Armando, 1998.

termini di fallimento comporta implicitamente non solo l'adesione agli obiettivi perseguiti con questa politica sociale e istituzionale, ma anche il riconoscimento della validità in sé e per sé dei mezzi previsti per raggiungerli, per cui ciò che si contesta riguarderebbe solo le modalità di funzionamento delle istituzioni.

Bisognerebbe, pertanto, andare al di là della logica del fallimento e considerare la politica intrapresa non tanto per gli obiettivi mancati, quanto per gli effetti, soprattutto negativi, realizzati.104 È stata proprio la diffusione di nuove teorie che posero l'accento sugli effetti negativi della politica istituzionale, piuttosto che i pessimi risultati riscontrati nella pratica, a fare entrare in crisi il trattamento individualizzato. Sono gli anni in cui Goffman, dopo aver condotto una ricerca in un ospedale psichiatrico, afferma che l'ingresso in un'istituzione totale comporta necessariamente un processo degenerativo e destrutturante dei ruoli e delle immagini che precedentemente si hanno di sé.105

Negli stessi anni Erikson sostiene che l'ingresso in un istituto può essere causa per un minore di una vera e propria crisi di identità, dalla quale si esce con l'attribuzione al ragazzo, da parte dell'istituto, di un'altra identità, propria di un emarginato, di un individuo incapace di avere successo nella vita, di un fallito.

Durante il Convegno giovanile della Pro Civitate Christiana, svoltosi ad Assisi nel 1973, Seppilli fece notare che "una serie di ricerche in questi anni sono state condotte per analizzare le condizioni che si determinano nelle istituzioni totali", e che

"queste ricerche hanno messo in luce un meccanismo costante in tutte le istituzioni totali: il meccanismo di depersonalizzazione - ossia di privazione delle caratteristiche personali e di forzato adattamento alle condizioni di subalternità, di soggezione e di

104 Busnelli-Fiorentino, Minori e giustizia, Zancan, Padova, 1990.

105 Goffman, Stigma. L’identità negata, Giuffrè, Milano, 1983

massificazione, cioè di standardizzazione - degli individui sottoposti alle regole".106

La forte critica che, sul finire degli anni '60, investì l'ideologia rieducativa, per la prima volta, provenì non solo dagli ambienti tecnici, ma anche dalla stampa e dall'opinione pubblica. Quello che veniva contestato era il carattere estremamente punitivo del sistema giudiziario minorile, il quale ricorreva, sia attraverso le misure penali che attraverso le misure amministrative, all'internamento in istituzioni chiuse che avevano assunto una funzione di etichettamento, necessaria come rinforzo e consolidamento dell'azione della polizia e della magistratura.107 In questo modo si ottenne una demistificazione delle istituzioni rieducative, arrivando a sostenere, come si è già detto, che l'affermata finalità rieducativa mascherava un'azione di emarginazione nei confronti dei giovani facenti parte delle classi sociali più basse:

“[…] ciò che è stato demistificato è non solo il carattere ovvio di questa istituzione [...], ma soprattutto il suo effetto: è stato smascherato il carattere mistificante della sua strategia ufficialmente dichiarata”.108

La strategia ufficiale può essere la pena, per cui chi ha violato deve pagare, o l'esempio, cioè il cosiddetto effetto deterrente, o l'isolamento, per cui chi è pericoloso deve essere messo in condizioni di non poter nuocere agli altri, o la rieducazione,

106 T. Seppilli, Devianza e controllo sociale, in Minori in tutto, Emme Edizioni, Milano 1974, pp. 22-23.

107 Ibidem

108 Ibidem

secondo la quale chi è deviante ed ha deviato deve essere ricondotto a non deviare più.109

Ma nonostante questi siano gli obiettivi delle istituzioni totali, la pratica parla chiaro: le istituzioni non rieducano, anzi producono quel processo inverso, di cui si è parlato prima, di depersonalizzazione.

Di fronte a questa presa di coscienza, si affermò un certo orientamento verso la non istituzionalizzazione dei minori:

"come sempre, gli oppressi costruiscono, attraverso la presa di coscienza della loro posizione e attraverso la loro organizzazione collettiva, le basi per la loro generale liberazione".110

Questo movimento anti-istituzionale si manifestò, in Italia, soprattutto nel settore dell'antipsichiatria, cioè nella contestazione dei modi di operare degli ospedali psichiatrici, ma non fu da meno la lotta anticarceraria. A questo fermento culturale ed al movimento anti-istituzionale si contrappose una risposta penale fortemente contenitiva della devianza minorile. Ma, per contrastare questa maggiore severità nella risposta penale nei confronti dei minori autori di reati, iniziò quell'applicazione in senso depenalizzante, cui si è accennato precedentemente, sia dell'art. 98 c.p. sia dell'istituto del perdono giudiziale.111

Accanto a questi mutamenti culturali, si ebbero anche importanti innovazioni legislative, come la legge sull'adozione speciale del 1967, la riforma del diritto di famiglia del 1975 e la riforma penitenziaria sempre del 1975.

La legge sull'ordinamento penitenziario, in realtà, non fornì nessuna soluzione al problema della compatibilità tra azione

109 Ibidem

110 Ibidem

111 Ibidem

rieducativa e istituti di reclusione, su cui si era incentrato il dibattito di quegli anni. Un'altra novità è rappresentata dal D.P.R.

n. 616 del 1977, il quale attuò il processo di decentramento che era stato sancito già con la Legge n. 382 del 1975.112 Questo decreto trasformò in modo radicale l'organizzazione delle misure amministrative, la cui competenza passò dalla gestione autonoma del Ministero di Grazia e Giustizia a quella dei Comuni (art. 23 lettera c D.P.R. 616). Il decreto rivoluzionò anche il sistema rieducativo, perché, sancendo l'abolizione definitiva delle Case di rieducazione, che si trovavano già in stato di avanzato decadimento, costrinse gli Enti locali a dover affrontare il compito della gestione della devianza giovanile.

"Dal D.P.R. in poi - secondo Fernanda Rizzo - si sviluppa un percorso per la giustizia minorile che [...] passa da un iniziale approccio centrato sulla punizione e la pena detentiva, ad una seconda fase orientata all'assistenza ('Welfare'), ad un terzo e più recente orientamento centrato sul trattamento".113

4.3 IL NEOCLASSICISMO

Caduta in crisi la prospettiva rieducativa, a causa dei deludenti risultati offerti dall'ideologia terapeutica della criminalità, tornò in luce il problema della responsabilità e del contenuto retributivo della pena.

Negli anni settanta e ottanta è emersa una nuova corrente di pensiero, detta "neoclassica", la quale auspica la separazione delle finalità di controllo da quelle di aiuto - entrambe presenti, invece, nel sistema rieducativo -, dal momento che la devianza

112 Salierno, Il carcere in Italia, Einaudi, Torino, 1971

113 Fernanda Rizzo, Adolescenze al limite, Pensa Multimedia, Lecce 1999.

non sempre richiede interventi terapeutici, di sostegno o di rieducazione, né coincide con la condizione di immaturità del soggetto. Gli adolescenti, secondo gli apporti della psicologia, non sono soggetti privi di capacità di giudizio morale, anzi, hanno coscienza di ciò che fanno, anche se la consapevolezza delle loro azioni è collegata, soprattutto sul piano qualitativo, alla loro età.

Secondo De Leo, uno dei più autorevoli esponenti di questo nuovo indirizzo, il problema è proprio questo:

"[…] una diversità nelle forme di consapevolezza non significa assenza o diminuzione o distorsione di consapevolezza; non ha quindi rapporto diretto, meccanico, deterministico, con il concetto di imputabilità, con la categoria della capacità di intendere e di volere e neppure con quella della maturità".114

Alla base di queste idee c'è la convinzione che le norme relative all'imputabilità dei minori si fondino su assunti, quali l'immaturità, ormai ampiamente confutati. Il comportamento deviante non sarebbe appannaggio esclusivo dei giovani che si trovano in situazioni di deprivazione, essendo, in realtà, diffuso tra tutti i ragazzi, a prescindere dal contesto sociale in cui vivono.

In particolare, De Leo ha osservato che:

"[…] un meno completo e coerente stadio di maturazione non rappresenta di per sé una maggiore predisposizione alla devianza" e che, comunque, "anche quando si riscontrano carenze di maturazione e comportamenti devianti nello

114 De Leo (a cura di), L’interazione deviante. Per un orientamento Psicologico al problema norma-devianza e criminalità, Giuffrè, Milano, 1981

stesso soggetto, è scientificamente infondato considerare le prime cause dei secondi".115

Nell'analisi di De Leo l'imputabilità e l'immaturità non sono questioni scientifiche, ma hanno la stessa natura convenzionale delle leggi, delle regole e dei costumi. Aver associato l'immaturità al reato ha costituito un'operazione non solo scientificamente infondata, ma anche confusionaria, in quanto ha comportato la messa in atto di un intervento basato su false premesse e, di conseguenza, la creazione di istituti rieducativi volti a trattare carenze e bisogni che in realtà non esistono. 116 Aver considerato il minore che delinque semplicemente un immaturo ha voluto dire deresponsabilizzare "tutte le parti in gioco nella giustizia minorile: le istituzioni primarie e secondarie e quindi, in particolare, la famiglia, i giudici, gli operatori e gli stessi minori".

La questione sta, invece, nel considerare il minore un soggetto responsabile, perché solo così è possibile dare al minore un'immagine positiva di sé e responsabilizzarlo. Presupporre la responsabilità "in ogni caso e per ogni età significa costruirla socialmente e individualmente, come norma implicita, come regola di base, come aspettativa diffusa, come atteggiamento e capacità sul piano psicologico"; e questo perché la responsabilità non è "un dato istintuale" o "una tappa evolutiva autonoma", ma

"un'invenzione culturale, un elemento base del processo di inculturazione delle nuove generazioni". 117

115 G. De Leo, La natura del rapporto tra giovani e istituzioni nella legislazione penale minorile, in Dei delitti e delle pene, 1983, 2, p. 239.

116 Ibidem

117 Ibidem

Da questo deriva l'idea che occorre presupporre sempre e comunque la responsabilità del minore: la punizione deve prescindere dalle caratteristiche della personalità del minore per concentrarsi unicamente sul reato, ovvero deve essere irrogata nei confronti di un comportamento non più visto come manifestazione di una personalità deviante, ma solo come fatto da contrastare. Ciò comporta, necessariamente, un ampliamento dell'imputabilità del minore almeno per alcuni reati.118

I sostenitori di questa posizione, se da una parte auspicano il ritorno ad una maggiore corrispondenza fra reato e tipo di pena per promuovere la responsabilizzazione del minore, dall'altra sono favorevoli a un'ampia depenalizzazione - per ridurre il contatto dei minori con il mondo della giustizia - e ad una più marcata distinzione tra interventi di aiuto e di sostegno e interventi sanzionatori. Questo si traduce nella richiesta di trasformazione dell'attuale sistema sanzionatorio, da attuarsi soprattutto attraverso la creazione di misure penali alternative alla detenzione. Come hanno rilevato Bandini e Gatti, questo dibattito ha avuto il merito "di chiarificare alcuni termini del problema che in passato erano stati spesso offuscati dalle prospettive unilaterali e acritiche della rieducazione". 119

Ma lo stesso Gatti ritiene che se, da un lato, "l'attribuzione di un nuovo significato positivo alla pena dovrebbe indurre in alcuni operatori e in una parte dell'opinione pubblica una maggiore consapevolezza sulle responsabilità sociali che si hanno nei confronti dei giovani", dall'altro, l'ampliamento dell'imputabilità del minore potrebbe, di fatto, condurre a risvolti reazionari e

118 Ibidem

119 Tullio Bandini, Uberto Gatti, La minore età, in Guglielmo Gulotta (a cura di), Trattato di psicologia giudiziaria, Giuffrè, Milano 1987, p. 878.

maggiormente repressivi e punitivi, soprattutto nei confronti dei giovani "maggiormente deprivati da un punto di vista sociale ed economico", facendo crescere in modo considerevole il numero di carcerazioni: "è vero, infatti, che i fautori del nuovo orientamento richiedono punizioni diverse dal carcere, ma ciò appare, a breve termine, di difficile realizzazione e vi è il rischio che un programma basato sulla valorizzazione della pena venga utilizzato all'interno di un'ideologia di tipo reazionario".120

Secondo l'analisi di Gatti:

“[…] la pena può essere considerata inevitabile, per motivi di convivenza sociale, ma difficilmente se ne intravede un effetto positivo diretto per il soggetto che vi è sottoposto.

Oltre tutto il fatto di puntare su una funzione positiva della pena suona particolarmente stridente in un paese come l'Italia, ove i minori sono sottoposti a un regime detentivo del tutto inumano, privo di rispetto per i loro diritti, distorto nei suoi aspetti processuali e incapace, ormai da decenni, di una seppur minima evoluzione.”.121

L'obiettivo sembra, quindi, quello di ridurre al massimo il ricorso al sistema penale, senza però ricadere nel sistema rieducativo.

4.4 RIFLESSIONI

Alla luce del graduale processo di cambiamento che ha permeato la giustizia minorile dal secolo scorso ad oggi e a fronte delle particolari esigenze legate alla personalità del minore, viene naturale chiedersi se siano maturi i tempi per emanare un ordinamento giudiziario specifico per i minori, che tenga

120 Ibidem

121 Ibidem

perlomeno conto delle peculiari differenze di approccio al problema venutosi a creare tra i settori della giustizia, minorile e degli adulti.

Tale obiettivo appare perseguito dal disegno di legge

“Disposizioni relative all’applicazione ai minorenni delle misure penali” approvato il 7 luglio 2000 dal Consiglio dei ministri, il quale, se accolto definitivamente in sede legislativa, apporterà significative modifiche ed integrazioni all’insieme delle norme che si occupano del processo penale minorile, nonché alla disciplina delle modalità di esecuzione della pena detentiva.122 È da sottolineare come la politica della residualità del carcere (ben perseguita dal processo penale minorile se teniamo conto delle 430-450 presenze giornaliere rispetto alle 6.000 presenze calcolate prima dell’entrata in vigore dello stesso), si accompagni ad una non sempre adeguata presa in carico da parte dei servizi sociali (che dovrebbe essere caratterizzata da un articolato lavoro di rete), anche a causa di una diffusa mancanza di strutture ed operatori.

Alcuni recenti studi statistici condotti dall’Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile, evidenziano che, in un anno, vi sono mediamente tra le 44.000 e le 46.000 denunce a carico di minori.

Sarebbe dunque necessario conoscere cosa ne è (e cosa ne sarà!) di tutti quei minori che non sono stati agganciati e seguiti dagli operatori sociali.123

D’altronde il ruolo dei servizi è fondamentale in tutti quegli istituti, previsti dal D.P.R. n.448 del 1988, per i quali il territorio

122 Fonte reperita all’interno del carcere

123 Ibidem

rappresenta l’alternativa al carcere o, comunque, la risorsa che mirerebbe ad offrire al minore l’opportunità di inserirsi, come soggetto attivo e partecipante, nel contesto societario.

A tal proposito, citiamo il già menzionato ex art. 28, la sospensione del processo e la messa alla prova, oppure l’ex art.

27 che introduce la possibilità per il minorenne di uscire dal circuito penale, qualora si accertasse l’irrilevanza sociale del fatto-reato, oppure le misure cautelari delle prescrizioni (ex art.

20), della permanenza in casa (ex art. 21) e del collocamento in comunità (ex art. 22).124

È opportuno citare anche le “misure alternative alla detenzione”

previste dall’ordinamento penitenziario e dalla recente legge Simeone n.165 del 1998 “Modifiche all’art. 656 del codice di procedura penale ed alla legge n. 354 del 26 luglio 1975 e successive modificazioni”, legge - quest’ultima - che amplia la possibilità di concessione di alcuni istituti nei casi in cui il condannato abbia da scontare una pena o un residuo di pena inferiore ai 3-4 anni.

È inoltre da rilevare come la tendenza attuale della giustizia minorile a valorizzare sempre più la comunità ed il territorio vada a scontrarsi con la constatazione che il carcere sembra ospitare, perlopiù, stranieri e coloro che sono emarginati e soli;

come se, in certi casi, si ritornasse alla vecchia concezione di rieducazione all’interno dell’istituzione, tesa a scotomizzare la dimensione della risocializzazione e del reinserimento sociale del detenuto.

124 Vedere allegato n. 7 in Appendice

Tra l’altro, in prospettiva, il ruolo dei servizi sociali è destinato ad assumere una rilevanza particolarmente significativa considerato che l’art. 13 del disegno di legge del 7 luglio 2000 prevede la sospensione dell’esecuzione della pena, indipendentemente dalla sua entità, e l’immediato intervento dei servizi della giustizia minorile in tutti i casi in cui la pena detentiva debba essere eseguita nei confronti di soggetti minorenni.125

È dunque auspicabile una sempre maggiore integrazione tra competenze e professionalità specifiche, fondata sia sul processo circolare di scambio di informazioni, sia sull’analisi delle risorse realmente disponibili sul territorio, e che contempli l’attuazione di progetti di formazione permanente per gli operatori, al fine di consentire quel cambiamento mirato ad una reale e concreta riduzione dello scarto, purtroppo ancor oggi significativo, tra la teoria e la pratica.

4.5 L’AFFERMAZIONE INTERNAZIONALE DEI

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