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Il fallimento dello Stato: tra ossimoro giuridico e possibilità reale

La tematica del default sovrano pone degli interrogativi per i quali non è agevole, né tantomeno immediato, ricavare una risposta univoca e immediata. Di certo, l’impresa si dimostrerà ancora più ardua, se si decidesse di approcciarsi a un fenomeno così asistematico e peculiare, imbracciando dogmi, categorie e concetti di natura “tradizionale”. Da arduo l’impegno diverrebbe quasi sisifeo, se ci si limitasse ad aiutarsi con le sole strumentazioni e certezze del proprio orticello nazionale90. Una volta richiamato il giurista a un doveroso mutamento di

paradigma, resta da capire quali siano le “sfide” che attendono lo studioso allorché sia alle prese con la crisi del debito pubblico. Principiando il tutto con domande che a taluni potrebbero suonare retoriche, mentre per talaltri hanno quasi il gusto dell’irragionevolezza. Ovvero, cosa si debba intendere per fallimento dello Stato, e se tale ipotesi sia giuridicamente sostenibile.

Per quanto riguarda il primo dei due quesiti occorre muovere da un rapido chiarimento lessicale. La delimitazione dei confini della nozione d’insolvenza

sovrana è operazione tutt’altro che scevra da complicazioni, confusioni e possibili

fraintendimenti.

89 Sulle differenze con l’odierna governance del default greco cfr. T. W. Guinnaine, A pragmatic approach to external debt: The write-down of Germany’s debts in 1953, 2015, consultabile

al link [http://www.voxeu.org/article/pragmatic-approach-external-debt-write-down-germany-s- debts-1953].

90 Sembrerebbe dunque indispensabile affidarsi alla cultura e pratica comparatistica: la

comparazione giuridica, potendosi e dovendosi concedere di oltrepassare gli steccati locali, ha nelle sue corde le potenzialità per rifiutare ogni rassegnazione ai paradigmi tradizionali; paradigmi che, peraltro, spesso sono di scarsa utilità nell’indagine sul default statale. Sull’energia “sovversiva” del diritto comparato cfr.: A. Somma, Temi e problemi di diritto comparato, Torino, 2005, pp. 64-71; H. Muir Watt, La fonction subversive du droit comparé, in Revue de droit international et de droit

comparé, 2000, pp. 503-527; B. Markesinis, The distructive and constructive role of the comparative lawyer, in RabelsZ, 1993, pp. 438-448.

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A questo proposito, va qui evidenziato che nell’indagine corrente con la formula in esame ci si riferisce alla sola dimensione economico-finanziaria: « «‘Insolvency’ is the financial state of an entity that “is unable to pay all debts as they

fall due”, and ‘bankruptcy’ is “the state of a person who has been adjudged by a court to be insolvent”. […] These definitions raise several problems, but they do reveal the idiosyncratic features of sovereign risk. The concept of bankruptcy does not apply to sovereign debt issuers. The reason is that no court is entitled to liquidate a sovereign’s assets and its property cannot be formally sequestered or seized. Thus insolvency is synonymous with ‘state bankruptcy’. […] However, some observers argue that a state cannot truly be insolvent because it can always cut expenditures, nationalize private firms, increase taxes, and so forth. This point of view […] implies that debtors default not because they are unable to pay all or a good part of their debt service, but simply because they do not have the will to pay»91.

Concetto dunque ben diverso da quello – altrettanto diffuso nel discorso giusinternazionalistico – di stato fallito, ovverosia di quelle circostanze nelle quali, in ragione della condizione di anarchia governativo-istituzionale che si viene a creare, scompare ogni possibilità di individuare un apparato statuale rappresentativo e pienamente legittimato, tanto sul piano interno che su quello internazionale: «States in which institutions and law and order have totally or

partially collapsed under the pressure and amidst the confusion of erupting violence, yet which subsist as a ghostly presence on the world map, are now commonly referred to as ‘failed States’ or ‘Etats sans gouvernement”. However, neither expression is sufficiently precise. “Failed” is too broad a term, for, going to the opposite extreme, the aggressive, arbitrary, tyrannical or totalitarian State would equally be regarded as having “failed” - at least according to the norms and standards of modern-day international law. On the other hand, ‘State without government’ is too narrow, since it is not only the central government but all the other functions of the State which have collapsed. For this reason, the term “failed

91 Con poche lucide battute l’economista Gaillard riesce a racchiudere l’intera complessità

della faccenda, ogni sua sfaccettatura e dettaglio: N. Gaillard, When sovereigns go bankrupt: a study

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State” should be understood to mean “disintegrated” or “collapsed” State»92.

Naturalmente, va pur detto che non è raro che circostanze d’instabilità e anarchia provochino un dissesto finanziario93.

Ma se l’ipotesi dei c.d. failed states non ha rilievo, quando è che uno Stato fallisce nel senso economico-finanziario del termine?

In linea generale, si può assumere che «a ‘sovereign default’ is defined as a

state’s failure to fulfill its financial obligations; such default can be viewed as a breach in the terms of the covenant between the lender and the borrowing state»94.

Quindi, l’inadempimento degli obblighi contrattuali di prestito sarebbe, di per sé, una valida cartina al tornasole per la crisi sovrana. Tuttavia, sviluppando il ragionamento, si rischiano conseguenze piuttosto estreme. Così ragionando - nemmeno poi così tanto ab absurdo – anche laddove vi fosse un semplice ritardo nel pagamento, o ancora un saldo parziale, e pur conservando lo Stato piena volontà di adempimento, si dovrebbe constatare una situazione di default95.

Gli esempi appena proposti conducono ragionevolmente a delle conclusioni di senso contrario. Vale a dire: quale che sia il tipo di contesto, perché questo possa considerarsi come un default, occorre che: i) l’inadempimento sia consistente – giacché investe un largo numero di creditori e/o per l’ingenza delle risorse in gioco; ii) l’inadempimento sia (tendenzialmente) assoluto, iii) l’inadempimento risulti sintomatico dell’impossibilità irreversibile di pagare – quantomeno secondo le pattuizioni originarie96.

92 Così si esprime D. Thürer, The "failed State" and international law, in International Review of the Red Cross, 1999, pp. 731-761. In effetti, il vocabolario potrebbe trarre in inganno anche

l’osservatore più scrupoloso; questo perché con i termini fail e failure non di rado si è soliti indicare anche l’insolvenza economico-finanziaria: cfr. F. De Franchis, Dizionario giuridico inglese-italiano, Vol. 1, Milano, 1984, p. 735. Dunque, per evitare spiacevoli malintesi, per il fallimento politico- istituzionale sarebbe da preferire la locuzione State without government (in francese Etats sans

gouvernement).

93 Selezionando tra quanti si sono occupati del fenomeno dei failed states, una certa

considerazione del nesso causale tra default economico e anarchia governativa si può ritrovare in D. Acemoglu, J. A. Robinson, Why nations fail: the origins of power, prosperity, and poverty, London, 2012, in particolare pp. 383-388.

94 N. Gaillard, op. cit., p. 1.

95 Dunque anche il solo c.d. inadempimento relativo sarebbe sufficiente per determinare la

crisi.

96 Secondo alcuni, tra gli schemi di default andrebbe ricompreso anche il ripudio: in questo

specifico caso il debito sarebbe impossibile da pagare non solo e non tanto per l’indigenza nella quale versa il Paese-debitore, ma soprattutto per l’illegittimità/illegalità che rende l’obbligo non ossequiabile, pena la “condivisione morale” dell’illecito che l’ha originato. Sarebbe del tutto sterile

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Nonostante taluno lasci intendere il contrario, non può dunque considerarsi sufficiente un singolo e isolato episodio d’inottemperanza: semmai è opportuno e corretto parlare di default sovrano solo ed esclusivamente per un’insolvibilità complessa, ampia e cospicua. D’altronde lo stesso accade in gran parte degli ordinamenti domestici - tanto per il fallimento del debitore commerciale97, quanto

per quello del debitore civile98 - all’interno dei quali ci si riferisce a uno stato

(d’insolvenza) e non piuttosto a un evento singolo e puntuale (d’inadempimento). Ciò considerato, è tempo di tornare a uno degli interrogativi posti in apertura. Se è vero che la realtà fattuale conosce e metabolizza, da tempo, l’insolvenza sovrana, se ne dovrebbe concludere che l’idea di un fallimento dello Stato sia una verità oramai assodata e incontrovertibile. Ebbene, le cose non stanno così. O meglio, si può dire che tale proposizione, in un certo senso, sia al contempo vera e falsa99.

Questo perché, se si rappresenta la procedura fallimentare come un sistema per trattare i diversi interessi coinvolti, tutti ugualmente apprezzabili, e rispetto ai quali non esiste un momento di bilanciamento predeterminato, ma soltanto un equilibrio da raggiungere secondo schemi normativi che rispondono a un sotteso ordine assiologico di valori100, allora l’affermazione è senz’altro vera.

compiere una rassegna citazionista degli autori che includono - seppure con alcuni distinguo - il

ripudio tra le ipotesi di dissesto: ad esempio, tra quelli consultati (e già citati), in sostanza non c’è studioso che vi si sia sottratto.

97 «Lo stato d'insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali

dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni», così dispone il legislatore fallimentare italiano (art. 5 co. 2, Legge Fallimentare, Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, in seguito integrato e modificato). Invece, per una rassegna delle diverse opzioni nazionali – continentali e non - circa i presupposti al cui verificarsi è condizionato l’avvio del procedimento fallimentare cfr. I. Queirolo, Profili di diritto dell’Unione Europea, in Trattato di

diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da F. Vassalli, F.P. Luiso, E. Gabrielli,

Vol. 5, Profili storici, comunitari, internazionali e di diritto comparato, Torino, 2014, pp. 95 e ss. Cfr. pure: L. Stanghellini, Le crisi d'impresa fra diritto ed economia, Bologna, 2007, in particolare. pp. 117 e ss; nonché G. Ferri, Lo stato d’insolvenza, in Rivista del Notariato, 2015, pp. 1149 e ss.

98 Cfr. sull’argomento G. Terranova, Lo stato d’insolvenza, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da F. Vassalli, F.P. Luiso, E. Gabrielli, Vol. 1, I presupposti dell'apertura delle procedure concorsuali, Torino, 2014, pp. 242 e ss.; si rinvia altresì a E. Pellecchia, La composizione della crisi da sovraindebitamento, in Le Nuove leggi civili commentate, 2013, pp.

1245-1307.

99 Sulle peculiarità del fenomeno (giuridico) del fallimento sovrano, in comparazione con

quello gius-commercialistico, si veda G. Coltraro, L'insolvenza degli stati sovrani: affinita` e

divergenza con l'insolvenza dell'impresa, in Il dir. fall., 2017, pp. 70-122.

100 Preferendo ad esempio taluni creditori rispetto ad altri, o talune esigenze del debitore –

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Viceversa, se fine ultimo dell’apparato fallimentare è quello di liquidare l’asset patrimoniale del debitore così da soddisfare le pretese creditizie e quindi constatare/decretare l’estinzione giuridico-soggettiva dell’Ente fallito, con la sua conseguenziale espulsione dall’ordinamento di appartenenza, allora l’affermazione è senz’altro falsa101.

Lo Stato in quanto soggetto storico matura la soggettività giuridica in ragione di una legittimazione fattuale a sé stante, di una sorta di “effettività autopoietica”. In ambito internazionalistico non v’è spazio per la c.d. teoria normativa della soggettività. Una volta guadagnatosi il riconoscimento della “materialità storica”, che attribuisce, tra le altre cose, la patente di soggetto di diritto (internazionale)102, solo la Storia potrà farsi carico di sottrargliela103.

In conclusione, è dunque in un rapporto ossimorico che si gioca e realizza la possibilità del fallimento sovrano, in questo continuo dialogo tra un piano giuridico e uno che giuridico non è; tra il mondo del fatto e quello del diritto.

8. (Segue): Ristrutturazione del debito sovrano: politica, diritto, o entrambi?

Le riflessioni sviluppate nelle pagine precedenti conducono – quasi fosse un corollario – a una pregiudiziale ulteriore che si riduce a un solo interrogativo: ossia, ci si può dire certi che la via normativa alla gestione delle insolvenze sovrane sia generalmente considerata come la più adeguata104?

101 Peraltro, anche in tema d’insolvenza commerciale, che la strada liquidatoria non debba

essere l’unica percorribile è oramai sostenuto da più parti: così per esempio L. Stanghellini, op. cit., pp. 237 e ss.

102 A tal riguardo, la riflessione giuridica, dopo un periodo d’infatuazione per le

speculazioni deontiche kelseniane, è ritornata nei ranghi del pensiero giusfilosofico hegeliano. Cfr. H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, Milano, 1989, pp. 334 e ss.; la riflessione kelseniana in materia di soggettività internazionale è strettamente connessa – se non derivata - dalla visione monista del giurista austriaco. Diversa, e dal sapore “fattualista”, la concezione hegeliana: cfr. G.W. F. Hegel, op. cit., in particolare p. 553.

103 Cfr. A. Tanzi, Sull’insolvenza degli Stati nel diritto internazionale, in Rivista di diritto internazionale, 2012, pp. 66-88, in particolare pp. 67-69.

104 Cfr. W. Mark, C. Weidemaier, M. Gulati, The Relevance of Law to Sovereign Debt, in Annual Review of Law and Social Science, 2015, pp. 395-408. Tra le altre cose, in apertura di

trattazione, gli autori annotano che: «the literature on sovereign debt tends to downplay the

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Nel cercare una possibile risposta, non si può che partire dall’analisi della lettura giusinternazionalistica. Ebbene, tra coloro che si sono spesi sul tema, viene fatto notare che: «one of the most remarkable impressions one gains after reviewing

this bosy of law and practice is that its legal status seems to be a somewhat lower charachter than the other fields of international law»105.

Addirittura vi è chi ritiene che gli stessi trattati di prestito, a differenza di quanto normalmente accade per gli altri impegni sovranazionali, non siano da considerarsi giuridicamente vincolanti: si argomenta che i continui infrangimenti metterebbero seriamente alla prova il superprincipio pacta sunt servanda: dunque, tutt’al più si tratterebbe di obblighi “naturali”. Conseguenzialmente gli accordi di rinegoziazione avrebbero il solo scopo di tentare il recupero del credito a fronte di un disatteso dovere morale. Così si ragiona: se perfino i debiti sono sottratti alla sfera giuridica, a fortiori ciò accadrà per la loro ristrutturazione.

In secondo luogo, si fa notare che mancherebbe nel panorama gius- scientifico una convergenza, pur sommaria, sulla possibilità che un eventuale meccanismo di restructuring si possa dire compatibile con l’ordinamento internazionale; ad esempio, si argomenta, non è detto che vi sia conciliabilità tra la libertà d’azione che si deve agli Stati in ambito economico e il dovere di cooperazione/solidarietà che una procedura pilotata di default necessariamente impone106.

Peraltro, i dubbi e le preoccupazioni appena illustrati, fanno il paio con il convincimento di coloro che ritengono del tutto fisiologico e opportuno il vuoto normativo che tutt’ora persiste107. Secondo tale prospettiva di riflessione,

l’eventuale inquadratura entro maglie legali preordinate rischierebbe di compromettere la gestione delle crisi. Viceversa, sostengono i fautori di tale

105 Così A. Reinisch, Debt Restructuring and State Responsibility Issues, in D. Carreau e M. N.

Shaw (a cura di), op. cit., p. 553.

106 Ivi, p. 554, dove l’autore illustra tale orientamento, sposandolo integralmente. La

posizione di Reinisch, pur essendo del tutto minoritaria, non è condivisibile poiché, tra le altre, si riduce all’applicazione del solo criterio esegetico, abdicando al ruolo (anche) “innovativo” che viceversa la dottrina – pur in presenza di indici normativi minimi - dovrebbe comunque tentare.

107 Per una sintesi di tale approccio, per nulla condiviso dall’autore, si veda contra C. G.

Paulus, Should Politics be Replaced by a Legal Proceeding?, in C. G. Paulus (a cura di), A Debt

Restructuring Mechanism for Sovereigns. Do we need a legal procedure?, München etc., 2014, pp. 191

e ss., specialmente pp. 197-200; cfr. pure C. G. Paulus, Some Thoughts on an Insolvency Procedure for

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approccio “liberista”, nell’assenza di vincoli predefiniti, i policymaker avrebbero strada libera per meglio conformare ogni soluzione in ragione del caso concreto; il tutto con una più efficiente ponderazione degli interessi in gioco.

Alla tesi liberista si può contrappore una diversa costruzione che invece considera un regime legale – sostanziale e processuale – una condizione irrinunciabile.

Innanzitutto perché solo la giurisdizione di un organismo terzo e indipendente potrebbe efficacemente impedire l’eventuale conflitto d’interessi, garantendo dunque un’equilibrata sintesi delle diverse esigenze contrapposte: «politicians acted not only as representatives of creditor states; they acted also as

representatives of their constituency from whom they are dependent regarding the prolongation of their mandate. This combination puts them in the awkward position to strike a balance between the diverging interests […] it is an inevitable consequence of this delicate mix that politicians are bound to destroy inter-state relationship»108.

Peraltro, si può far notare che l’implementazione di meccanismi precostituiti, da una parte, riduce di molto la possibilità di speculazioni finanziarie, dall’altra consentirebbe una gestione ordinata delle crisi: così facendo, si otterrebbe un considerevole risparmio nei costi “da ristrutturazione”109.

Ad ogni modo, come in parte è già emerso, un eventuale – e qui auspicato – processo di giuridicizzazione non dovrebbe mai privarsi di un sottostante manifesto valoriale. Ed è solo così che si può accettare che si saldi la dimensione politica con quella giuridica: non invocando incivili regimi di laissez faire, ma semmai nel discutere sul come caratterizzare la ristrutturazione del default sovrano (soggetti, competenze, procedure, principi e regole sostanziali)110. A tal

riguardo, due concezioni antitetiche si contendono la “scena”: quella c.d. pubblicistica e quella c.d. privatistica111.

Dal punto di vista della prima prospettiva, la procedura d’insolvenza dovrà imporsi per il tramite di un atto internazionale convenzionale, così da obbligare

108 Ivi (2014), p. 199. 109 Ivi, p. 200.

110 Cfr., ad esempio e diffusamente, A. Viterbo, op. cit., 2014.

111 Cfr. S. L. Schwarcz, Idiot's Guide to Sovereign Debt Restructuring, in Emory Law Journal,

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tanto i governi (per via diretta) quanto i creditori privati (per via della successiva attuazione interna del trattato). La coercibilità contro i creditori diviene essenziale specie laddove costoro, sebbene in minoranza, non accettino gli esiti della ristrutturazione.

Stando così le cose, secondo l’opinione di alcuni autori, l’impegno verso l’approvazione di un Trattato potrebbe essere incoraggiato dalla possibilità per taluni governi di acquisire un ruolo primario nella “gestione” applicativa di tale accordo internazionale e dei suoi effetti. Infatti, perché la disciplina pattizia possa conformare l’ordinamento interno, com'è noto, si rende necessario un correlato atto domestico di recepimento. Ebbene, una volta assunto il provvedimento di ricezione, sarà quest’ultimo in via immediata a essere cogente per i traffici economico-giuridici “incorporati” all’interno di quel certo sistema nazionale. Con l’ulteriore conseguenza che: «because most sovereign debt loan agreements and

bond indentures explicitly state their governing law, and New York or United Kingdom law is typically chosen, the United States and the United Kingdom should have substantial control over the Convention's effectiveness»112.

Il che però pone un problema di geopolitica giuridica. Sviluppando il ragionamento finora riassunto, gli Stati solitamente preferiti come luogo d’incorporazione: i) si potrebbero affaticare, in sede di trattative, per monopolizzare la Convenzione esclusivamente secondo i propri schemi giuridici; ii) dappoi, in sede di esecuzione, lo stesso accadrà attraverso i loro tribunali domestici113.

Invece, la concezione privatistica, in luogo di strumenti eteronomi e generalizzati, preferisce che sia il “libero” gioco contrattuale a condurre a una regolamentazione sia del momento fisiologico (adempimento) sia di quello patologico (inadempimento). In quest’ottica, sarà dunque cura e premura del debitore sovrano assicurarsi un corredo di clausole che possano tutelarlo lungo il rapporto ed eventualmente in caso di difficoltà.

112 Ivi, p. 1208.

113 Cfr. H. Schier, Towards a Reorganisation System for Sovereign Debt: an International Law Perspective, Leiden, 2007, in particolare pp. 39 e ss.

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Tuttavia, l’idea contrattualistica si presta facilmente a soluzioni approssimative, deboli, e tendenti al ribasso114. E tutto ciò sicuramente per le

ragioni dei debitori, ma nondimeno per quelle dei creditori: nulla impedirebbe a uno Stato con una forte presenza nel commercio internazionale di abusare di questa posizione per imporre, in via diffusa, e senza che vi siano ragioni “di giustizia”, una serie di clausole sbilanciate a suo unico favore. All’opposto, non di rado accade che siano le controparti private a strappare condizioni di vantaggio; e questo potrà accadere specie quando lo Stato si trovi obtorto collo a dover ricorrere ai mercati finanziari115.

Infine, va detto che il modello privatistico sembrerebbe confliggere con il c.d. human rights approach: in mancanza di un legal framework sulla ristrutturazione la situazione d’insolvenza (o prima ancora d’inadempienza) inevitabilmente andrà a causare delle esternalità sociali negative. In senso concorde con quanto appena argomentato, c’è chi ha fatto notare che sempre più spesso lo Stato «schiacciato dal peso insostenibile del debito, è chiamato ad operare scelte radicali nel difficile tentativo di raggiungere un bilanciamento tra la tutela del più ampio interesse pubblico e il peso da imporre ai propri cittadini e agli investitori stranieri»116.

Ma anche volendo escludere le situazioni di drammatica compromissione