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Pacta sunt servanda: implicazioni e ricadute in tema di default statale

Non è certo questa la sede più opportuna per affrontare funditus l’insieme degli interrogativi chiamati in causa dal principio internazionalistico – mutuato dall’esperienza di diritto civile321 - pacta sunt servanda322.

319 Buona parte delle considerazioni che seguono, tarate sul rapporto tra Stati, sono

pressoché integralmente applicabili anche alla relazione tra Stati e Organizzazioni internazionali: in particolare per ciò che attiene il diritto dei trattati, cfr. C. Brölmann, The Institutional Veil in Public

International Law: International Organisations and the Law of Treaties, Oxford etc., 2007.

320 Per una panoramica introduttiva cfr. U. Panizza, F. Sturzenegger, J. Zettelmeyer, The economics and law of sovereign debt and default, in Journal of Economic Literature, 2009,

specialmente pp. 652-659, e per il vastissimo corredo bibliografico pp. 693-698.

321 Cfr. G. Ripert, Les regles du droit civil applicable aux rapports internationaux,

(Contribution à l'Etude des Principes Généraux du Droit Visés au Statut de la Cour Permanente de

Justice Internationale), Académie de Droit International, Recueil de Cours, Vol. 44, II, Paris, 1933, pp.

569 e ss. In particolare, ricollegando piano civilistico e internazionalistico, così Ripert ricostruisce il sostrato del principio pacta sunt servanda (p. 589): «La force obligatoire des conventions repose en

effet sur deux idées essentielles. La première, c'est l'idée morale du respect de la parole donnée. Les enfants eux-mêmes s'indignent quand l'un d'eux ne tient pas sa parole. Sans doute, pour protéger la volonté et assurer la preuve, il a fallu pendant longtemps ne tenir compte que de la parole donnée dans certaines formes; les Romains, à l'origine, ne connaissent pas le pacte nu. Mais même dans le contrat formaliste, l'élément volonté est au premier plan; en tout cas, l'idée du contrat consensuel a été vite dégagée par le droit, et peu à peu sont tombés tous les obstacles qui s'opposaient à l'effet obligatoire de la parole donnée. Les canonistes ont beaucoup aidé à faire triompher cette idée qu'il faut respecter la foi jurée: pacta sunt servanda. Le monde civilisé a fait de cet adage une règle de morale commune et l'a intégré dans le système juridique. L'autre idée, c'est que le respect de la parole donnée permet à chacun de compter sur l'avenir. Le contrat est prévision, les hommes ont besoin d'échanger leurs richesses et leurs services; le troc n'est qu'un procédé élémentaire; il faut pouvoir différer l'exécution; on ne le pourra que si l'autorité publique fait respecter la convention et oblige les contractants à l'exécuter».

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Ad ogni modo, per quello che qui interessa, in primo luogo sarà sufficiente annotare che il principio del quale si discorre, dopo aver fatto la sua comparsa in alcuni atti costitutivi di Organizzazioni internazionali323, da ultimo, ha trovato una

consacrazione generale all’interno dell’art. 26 della Convenzione sul diritto dei Trattati tra Stati del 1969 (Vienna): «Ogni trattato in vigore vincola le parti e queste devono eseguirlo in buona fede»324.

Il confezionamento di tale disposizione si deve al lavoro del giurista britannico Humphrey Waldock325, individuato all’interno della Commissione del

diritto internazionale come rapporteur special sulla materia.

In uno dei suoi ultimi rapporti, Waldock suggerì l’adozione di un testo che, per quanto molto più articolato rispetto a quello odierno, ne conteneva già l’intero

ideal core: «A treaty in force is binding upon the parties and must be applied by them in good faith in accordance with its terms and in the light of the general rules of international law governing the interpretation of treaties»326. La mozione Waldock

venne poi direttamente trasferita all’interno dei lavori della Conferenza sulla Convenzione, ottenendo l’approvazione unanime di tutti i delegati, e dunque la sua positivizzazione nella forma attuale dell’art. 26.

322 Per una lettura storicamente orientata cfr. R. Redslob, Histoire des grands principes du droit des gens, Paris, 1923, pp. 47-57; e poi ancora H. Wehberg, Pacta Sunt Servanda, in The American Journal of International Law, 1959, pp. 775-786.

323 Nel Preambolo al Patto della Società delle Nazioni (1919), accanto agli altri valori

fondativi, trova spazio «a scrupulous respect for all treaty obligations in the dealings of organised

peoples with one another»; il testo del Patto è consultabile al link

[http://avalon.law.yale.edu/20th_century/leagcov.asp]. Lo stesso dicasi, qualche decennio più avanti, all’interno della Carta Onu (1945): «We The Peoples of the United Nations determined to […]

to establish conditions under […] respect for the obligations arising from treaties […] can be maintained»; il testo della Carta è consultabile al link [http://www.un.org/en/sections/un-

charter/preamble/index.html].

324 Un’edizione in lingua italiana, tradotta dalla versione ufficiale inglese, e dalla quale è

ripresa ogni porzione di testo citato, è consultabile all’interno dello spazio web del Governo

federale svizzero: [https://www.admin.ch/opc/it/classified-

compilation/19690099/200601260000/0.111.pdf].

325 Sir Humphrey Waldock (1904-1981), oltre ad aver ricoperto l’incarico di docenza

presso l’Università di Oxford, fu giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo (1966-1974), nonché membro della Corte Internazionale di Giustizia (1973-1981). Sulla figura di Waldock si veda I. Brownlie, The Calling of the International Lawyer: Sir Humphrey Waldock and his Work, in British

Yearbook of International Law, 1984, pp. 7-74.

326 Cfr. in particolare K. Schmalenbach, Article 26 – Pacta sunt servanda, in O. Dörr, K.

Schmalenbach (a cura di), Vienna Convention on the Law of Treaties: A Commentary, Heidelberg etc., 2011, pp. 427 e ss.

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Nelle note di commento a tale paragrafo dell’articolato, Waldock scrisse che: «The articles so far adopted by the Commission do not contain any formulation of the

basic rule of the law of treaties, pacta sunt servanda; and the appropriate place in which to state the rule appears to be at the beginning of the present part dealing with the application and effects of treaties. At this date in history it hardly seems necessary to adduce authority or precedents to support or explain the principle of the binding character of treaties which is enshrined in the preambles to both the Covenant of the League and the Charter of the United Nations.On the other hand, in commenting upon the rule it may be desirable to underline a little that the obligation to observe treaties is one of good faith and not stricti juris»327.

La chiosa finale del giurista, con quella sorta di richiamo – più o meno cosciente – alla distinzione romanistica tra obbligazioni di buona fede e di stretto

diritto, suscitò non poche critiche, «dal momento che ciò sembrava implicare che

l’osservanza del trattato avesse più a che fare con la morale internazionale che con il diritto»328. E’ pur vero che lo stesso Waldock, nelle righe del commentario subito

successive a quelle sopra citate, provò così ulteriormente a spiegarsi: «in other

words, the obligation must not be evaded by a merely literal application of the clauses»329.

In effetti, come si avrà modo di verificare nel paragrafo che segue, interamente riservato alla clausola di buona fede, quest’ultima, in ambito internazionalistico, piuttosto che acconsentire – se del caso, in via giudiziale - all’eterointegrazione equitativa delle norme pattizie per opera di valori solidaristici, è da considerarsi semmai come strettamente ricollegata alla fase interpretativo-esecutiva del trattato: nel senso che, in linea con il commento di Waldock, lo spirito materiale delle norme dovrà prevalere su di ogni adempimento conformato da una «interpretazione cavillosa»330.

327 Yearbooks of the International Law Commission, 1964, Vol. II, p. 7, consultabile al link

[http://legal.un.org/ilc/publications/yearbooks/english/ilc_1964_v2.pdf].

328 Così A. Oddenino, Pacta sunt servanda e buona fede nell’applicazione dei trattati internazionali, Torino, 2003, p. 42.

329 Yearbooks of the International Law Commission, 1964, Vol. II, p. 8.

330 La formula è presa in prestito dalle pagine – sulla buona fede civilistica – di R. Sacco, Il contratto, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, Vol. 6, 2, Torino, 1975, in

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Il rifiuto di ogni possibile eterointegrazione e/o rivalutazione dell’accordo in sede di svolgimento del rapporto, a favore di un rispetto pieno e incondizionato degli obblighi assunti, e quindi il senso della norma in esame, è confermato dalle riflessioni di un’altra personalità dalla strutturata cultura ed esperienza giuridica, quale certamente è stato Alfred Verdross; anch’egli fu chiamato a prendere parte ai lavori della Commissione331.

Il giurista austriaco, in uno dei suoi primi scritti, riassunse il principio pacta

sunt servanda come la «règle que la parole donnée doit être tenue»; e poi ancora «la règle objective “pacta sunt servanda” impose aux États le respect de la parole donnée»332. Verdross, in seno alla Commissione, pur suggerendo una

semplificazione del testo, approvò poi senza obiezioni la proposta di Waldock333.

Ciò non toglie che all’interno della dottrina internazionalistica da sempre sia presente una qualificazione se non extra quantomeno pre-giuridica del principio, specialmente se considerato nel suo intreccio con la buona fede. Dunque, anche la supposizione circa un riferimento di Waldock a una dimensione morale non è del tutto inondata.

A tal riguardo, per gli aderenti alla c.d. concezione dualista, particolarmente radicata nella dottrina italiana dell’inizio del secolo scorso (Perassi, Anzilotti, Ago, Morelli)334, l’intero sistema internazionale affonderebbe le

sue radici nel principio pacta sunt servanda, con la conseguenza per gli Stati di un dovere (giuridico) generale di rispettare gli impegni tra di loro conclusi, e quindi, così agendo, ossequiare innanzitutto la fonte convenzionale del diritto internazionale. Lo stesso dicasi per il diritto consuetudinario, visto e considerato che tra i suoi elementi costitutivi vi è comunque presente un accordo – per quanto

331 Cfr. B. Simma, The contribution of Alfred Verdross to the theory of international law, in European Journal of International Law, 1995, pp. 33-54.

332 A. Vedross, Le fondement du droit international, Académie de Droit International, Recueil de Cours, Vol. 16, Paris, 1927, pp. 256 e 288.

333 Cfr. Yearbooks of the International Law Commission, 1964, Vol. I, pp. 24-25; testo

consultabile al link [http://legal.un.org/ilc/publications/yearbooks/english/ilc_1964_v1.pdf].

334 Per una mappa del pensiero giusinternazionalistico italiano si rimanda a G. Itzcovich, Teorie e ideologie del diritto comunitario, Torino, 2016, pp. 42 e ss.

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non esplicitato – in merito alla convinzione che quel certo comportamento sia conforme a diritto (opinio iuris sive necessitatis)335.

In particolare, secondo Dioniso Anzillotti, il principio pacta sunt servanda «poiché è alla base delle norme di cui parliamo [ovverosia, tutte le norme del diritto internazionale, comprese quelle consuetudinarie; n.d.a.] non è suscettibile di ulteriore dimostrazione dal punto di vista delle norme stesse: deve essere assunto come un valore oggettivo assoluto o altrimenti come l'ipotesi prima e indimostrabile, alla quale necessariamente fa capo questo come ogni altro ordine di umane conoscenze. Ci potrebbe essere una dimostrazione sotto altri punti di vista – etico, politico, etc. – ma sarebbe chiaramente irrilevante per la scienza giuridica»336. L’affermazione testé riportata, mossa da uno scientismo radicale, in

una sorta di eterogenesi dei fini, all’opposto finisce per esprimere una visione dai tratti metafisici, nella quale ricade anche l’assioma pacta sunt servanda.

Ad ogni modo, riflessioni di tal genere rappresentano la conclusione di un percorso intellettuale, quello di Anzilotti, teso a correggere talune sue posizioni iniziali, a tutto favore di una lettura positivista dell’ordine giuridico internazionale; lettura che però non apparteneva ai suoi primi lavori337. Infatti, in origine, Anzilotti

scrisse che «il fondamento ultimo del diritto non è, e non può essere, un concetto legale. […] Il carattere vincolante del diritto è un concetto morale piuttosto che legale. Questo è tanto più vero per quanto riguarda le relazioni internazionali, in cui una meno completa evoluzione dà maggiore incertezza ai confini tra la morale e la legge. Penso che nessuno possa dubitare che il motivo ultimo per cui gli Stati rispettano le norme fissate dalla loro volontà comune non è una ragione legale, ma un'idea etica»338.

335 Come si avrà modo di spiegare a breve, si tratta di una lettura del customary law presa

in prestito dalla costruzione triepeliana del diritto internazionale.

336 D. Anzilotti, Corso di diritto internazionale, Padova, 1928, p. 42.

337 Cfr. G. Gaja, Positivism and Dualism in Dionisio Anzilotti, in European Journal of International Law, 1992, pp. 123–138.

338 D. Anzilotti, Teoria generate della responsabilita dello Stato nel diritto intemazionale

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Del resto, analoghe contraddizioni si ritrovano in altri autori pressoché coevi ad Anzilotti e la sua Scuola, e anch’essi d’impostazione dualista,: è questo certamente il caso di Heinrich Triepel339.

Il giurista tedesco340, ragionando attorno all’origine e al modo d’essere del

sistema normativo internazionale, prima di ogni cosa si soffermò su quanto a suo dire accadrebbe nell’ordine nazionale: entro tale dimensione la fonte del diritto per eccellenza è senz’altro la volontà dello Stato. Eppure – argomenta Triepel – nel caso in cui si voglia confezionare un diritto internazionale obiettivo, e quindi vincolante per l’insieme dei suoi destinatari, questo non potrà ricondursi alla sola volontà giuridica di ciascuno Stato. Si dovrà trattare di una volontà comune (Gemeinwille), da intendersi come qualcosa di ontologicamente diverso dalla mera somma delle dichiarazioni dei singoli attori statali: «Nous regandons comme le

moyen de costituer une telle unité de volontés la “Vereinbarung”, terme dont on se sert dans la doctrine allemande pour désigner les véritables unions de volontés, et les distinguer des “contracts” qui sont, d’après nous, des accords de plusieurs personnes pour des déclarations de volontés d’un contennu opposé». Secondo Triepel tali

accordi “non-contratto” coinciderebbero con quei patti che in via permanente, nel governare una certa condotta statale, limitano fortemente la sferà di libertà sovrana; e poco importa che si tratti di accordi con adesione numerosa oppure esigua341.

339 Heinrich Triepel (1868-1946), di concezione positivista e dualista, tra le altre cose,

lungo la sua carriera di docente fu professore di diritto internazionale presso diverse università tedesche: Lipsia, Tubinga, Kiel, e infine Berlino. Sul pensiero di Triepel cfr. M. R. García-Salmones,

Early Twentieth-Century Positivism Revisited, in A. Orford, F. Hoffmann, M. Clark (a cura di), The Oxford Handbook of the Theory of International Law, Oxford, 2016, pp. 173 e ss; A. Lev, The

transformation of international law in the 19thcentury, in A. Orakhelashvili (a cura di), Research

handbook on the theory and history of International law, Cheltenham etc., 2011, pp. 111-142,

specialmente pp. 137-138.

340 La proposta triepeliana fu dapprima presentata in Völkerrecht und Landesrecht, Leipzig,

1899, in particolare pp. 63 e ss.. In un secondo momento verrà ripresa in occasione del corso tenuto da Triepel presso l’Accademia di diritto internazionale dell'Aja: Les rapports entre le droit interne et

le droit International, Académie de Droit International, Recueil de Cours, Vol. 1, Paris, 1925, in

particolare pp. 82 e ss.

341 H. Triepel, op. cit. (1925), p. 83. Nel volume del 1889 (p. 65), Triepel – sviluppando la

teoria del penalista tedesco Karl Binding (1841-1920) - contrappose ai c.d. trattati-legge (Vereinbarung) i c.d. trattati-contratto (Vertrag): i secondi, a differenza dei primi, non sono capaci di creare regole generali, atteggiandosi piuttosto a convenzioni sinallagmatiche, funzionali al soddisfacimento di interessi contrapposti; i patti di prestito bilaterale rientrerebbero nella seconda delle due categorie. In ogni caso, quale che sia l’ipotesi (trattati-legge o contratto) l’inadempimento unilaterale è da considerarsi illegittimo: i) nei patti-legge, l’inosservanza impedisce la realizzazione

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Non da ultimo, prosegue Triepel, capita di frequente che la volontà dei singoli non sia esplicitata, ma venga piuttosto veicolata da un tacito consenso: «Une

partie importante du droit international a été créée de cette manière; on la désigne habituellement du nom de droit international coutumier»342.

È pur vero che la scelta dello Stato d’impegnarsi sul piano sovranazionale non può considerarsi come assolutamente immodificabile: in questo senso, cosa fare laddove - in violazione di quanto pattuito - la volontà del singolo muti fuori dagli schemi di revisione previsti dallo stesso trattato? In altre parole, come vincolare i contraenti rispetto agli obblighi assunti?

La risposta di Triepel a tali interrogativi (al pari di quella dei dualisti italiani) si allontana di molto dal rigido positivismo nel quale il giurista tedesco si trovava ideologicamente impegnato: «Penso che possiamo essere soddisfatti dalla certezza che esso [ovverosia ogni Stato; n.d.a.] si senta vincolato [sich an ihn

gebunden fühlt]. Questo è un dato di fatto che non può essere negato dall’esistenza

di violazioni di obblighi»343. In sostanza, il canone che dovrebbe dar vita a un

ordine giuridico oggettivo si colloca fuori dal diritto, “relegato” ancora una volta nella sfera delle congetture e delle presunzioni344, o peggio in quello della psicologia del soggetto-Stato.

Passando invece alla prospettiva c.d. monista, e in particolare alla scuola di Vienna345, della quale faceva parte anche il già citato Alfred Verdross, il pensiero di

cui doverosamente bisogna dar conto è quello del suo capostipite Hans Kelsen. Non è semplice compendiare in poche righe l’intera impresa scientifica kelseniana in tema di Grundnorm internazionale346, considerando, peraltro, che

dello scopo comune; ii) nei patti-contratto, ogni violazione del sinallagma comporta la lesione degli

interessi della controparte. Sulla distinzione appena illustrata, cfr., ad esempio, J. V. Bernstorff, The

Public International Law Theory of Hans Kelsen: Believing in Universal Law, Cambridge, 2010, pp.

175-177.

342 H. Triepel, op. cit. (1925), p. 83.

343 Si traducono le parole di Triepel così come compaiono a p. 82 dell’opera Völkerrecht und Landesrecht (1889).

344 Concordemente si esprime ad esempio S. Mannoni, op. cit., p. 495, cui si rinvia altresì per

una panoramica sulle critiche che i contemporanei di Triepel mossero alla sua costruzione teorica. Si veda pure, e per tutti, T. Chen, The International Law of Recognition, London, 1951, pp. 23 e ss.

345 Sulla Scuola viennese cfr. J. L. Kunz (1890-1970), già allievo di Kelsen: The Vienna School and International Law, in New York University Law Quarterly Review, 1934, pp. 370-422.

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tale elaborazione si è sviluppata lungo interi decenni, talvolta con alcune rivisitazioni e ripensamenti. Perciò, non si potrà che procedere per approssimazione347.

In primis, per quello che qui interessa, va evidenziato che Kelsen si adoperò

preliminarmente per ridimensionare il contrattualismo giusnaturalista, a suo avviso non appropriato per fondare, oltre al sistema statale, anche l’ordine giuridico internazionale348. Tra le altre cose, fece notare che la rappresentazione

classica del contratto sociale lascia il fianco a due situazioni “anarcoidi”: i) il singolo, rispetto agli obblighi comandatigli dallo Stato, potrebbe sottrarsi adducendo di non aver mai esplicitamente prestato il consenso; ii) il singolo potrebbe in qualsiasi momento revocare il consenso “inizialmente” prestato.

Tanto è vero che - prosegue Kelsen – sono gli stessi ideatori del contrattualismo che per primi ricorrono a una serie di finzioni e presunzioni, non potendosi seriamente concepire l’accordo sociale come un fatto storico realmente accaduto. Da questa premessa, costoro – ossia i contrattualisti - ne ricavano che: i) un consenso libero, ponderato e generalizzato si presume sia stato espresso; ii) tale consenso non sarebbe revocabile in via unilaterale, ma semmai e soltanto di comune accordo con gli altri partecipanti.

Orbene, secondo Kelsen, una teoria già di per sé claudicante, non poteva candidarsi a giustificare l’ordinamento internazionale oggettivo. Diversamente, conclude il maestro austriaco, si sarebbe costretti ad accettare un sistema costantemente in balìa di una sua ridiscussione, a causa dell’eventuale ritiro del consenso – spesso capriccevole e/o egoista – da parte di uno dei suoi attori soggetti statali.

Per risolvere quello che Kelsen altrove indicò come rapporto di tensione («Spannungsverhältnes»349) tra la validità del diritto (Sollen) e la sua effettiva

346 Una delle prime opere con la quale Kelsen introdusse la sua proposta

giusinternazionalistica fu pubblicata nel 1920 con il titolo Das Problem der Souveränität und die

Theorie des Völkerrechts.

347 Per ogni approfondimento si veda J. V. Bernstorff, op. cit., 2010.

348 Tale riflessione è presente ad esempio nel volume Principles of International Law, New

York, 1952, pp. 313 e ss.

349 Nel pensiero kelseniano, una delle prime organiche apparizioni di tale antinomia risale

all’opera Der Staat als Integration. Eine prinzipielle Auseinandersetzung, Wien, 1930, in particolare pp. 13 e ss.

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osservanza (Sein), e quindi il dilemma tra l’imposizione sovraordinata delle norme e la loro accettazione da parte dei destinatari, nel caso del diritto internazionale, bisognava sottrarre la prima delle due istanze – quella della validità – alla volontà degli stessi Stati.

Per far ciò, occorrerebbe ricondurre la precettività del diritto internazionale, non tanto alla presenza di un patto fondativo sociale, quanto piuttosto all’intervento di una norma presupposta e gerarchicamente superiore che, se da un lato conferisce legittimità e obbligatorietà alle norme sottoposte, dall’altro permette agli Stati, per il tramite del diritto convenzionale, di creare degli obblighi che siano giuridicamente impositivi nei confronti degli altri contraenti: «that a treaty has binding force, is due to a rule of customary international law