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Peptidi antimicrobici

I peptidi antimicrobici (AMPs) rappresentano una parte importante del sistema immunitario innato.

AMPs sono piccole molecole che possono presentare attività antibatterica, antifungina, antiparassitaria e antivirale (Jenssen et al., 2006).

Queste molecole sono composte da 10-15 residui aminoacidici e sono divise in gruppi diversi a seconda della composizione aminoacidica, la dimensione e la conformazione molecolari (Nakatsuji e Gallo, 2012).

In natura esistono quattro grandi classi: 1. peptidi anionici;

2. peptidi cationici con un’alta percentuale molare di prolina, arginina, fenilalanina, glicina o triptofano;

3. peptidi cationici e anionici che contengono cisteina che forma ponti disolfuro;

Il classico meccanismo di azione di AMPs riguarda la loro abilità di causare danni alle membrane (fig.16).

Fig. 16 Diversi meccanismi con i quali i peptidi antimicrobici causano

danno alle membrane dei batteri

AMPs possono interagire con i microrganismi attraverso le forze elettrostatiche che si instaurano fra i loro residui aminoacidici positivi e le cariche negative esposte sulla superficie cellulare.

La composizione della superficie della cellula è quella che regola la specificità di ciascun AMPs.

Nelle membrane dei mammiferi, i lipidi più comunemente rappresentati sul lato extracellulare del doppio strato sono fosfolipidi neutri come fosfatidilcolina e sfingomielina.

La membrana cellulare batterica, invece, è essenzialmente composta da lipidi caricati negativamente come fosfatidilglicerolo, cardiolipina e lo zwitterione fosfatidiletanolammina.

Inoltre, i batteri Gram– contengono lipopolissaccaridi nella loro membrana esterna e la parete cellulare dei Gram+ è arricchita in polisaccaridi acidi (acido teicoico e teicuronico); queste molecole conferiscono una carica complessiva negativa alla superficie batterica e rappresentano il target per i peptidi antimicrobici cationici.

L’interazione di AMPs con i loro bersagli dipende in gran parte dalla superficie cellulare e dalla composizione in aminoacidi di questi peptidi. Inoltre la struttura secondaria adottata dal peptide è essenziale per il legame alle cariche negative delle membrane.

A seconda del rapporto peptide/lipidi e dall’affinità reciproca, queste molecole peptidiche possono essere orientate perpendicolarmente, permettendo la loro inserzione nel doppio strato lipidico e la formazione di pori-trans membrana (Melo e Castanho, 2012).

Il meccanismo attraverso il quale AMPs possono attraversare le membrane microbiche non è comune a tutti i peptidi e sembra dipendere dalle proprietà molecolari di entrambi, peptide e composizione lipidica della membrana.

Molti difetti di membrana possono essere indotti da AMPs; tra questi possiamo evidenziare la formazione di pori, separazione di fase, e promozione di una struttura lipidica non lamellare o distruzione del doppio strato lipidico (fig. 16).

Sebbene molti AMPs interagiscano direttamente con la membrana cellulare, sono stati riportati casi in cui alcuni peptidi necessitano di un sito di ricoscimento batterico.

Più recentemente è stato proposto che AMPs possano portare a morte cellulare attraverso altri meccanismi in addizione alla distruzione della membrane seguita dalla lisi cellulare.

Alcuni AMPs possono, infatti, interagire con targets intracellulari che inducono danni come l’inibizione della sintesi della parete, del DNA, del RNA e delle proteine (Straus and Hancock, 2006).

Molti studi hanno anche mostrato differenti strategie che rendono i batteri resistenti a queste molecole, evidenziando un fenomento di coevoluzione dei peptidi antimicrobici e dei meccanismi di resistenza agli stessi.

Il più comune meccanismo di resistenza riguarda cambi di composizione nella parete o nelle membrana cellulare batterica e nel blocco dell’ accesso

E’ da sottolineare che questi farmaci sono costosi, spesso antigenici e mostrano una stabilità limitata.

Attualmente i peptidi antimicrobici approvati da FDA includono la bacitracina, la colistina e la polimixina B.

La tossicità talvolta associata a AMPs è normalmente correlata alle alte concentrazioni usate per compensare la breve emivita di queste molecole dovuta alla rapida digestione da parte delle proteasi.

Queste caratteristiche hanno limitato il loro uso sistemico.

Gli svantaggi appena descritti, potrebbero essere aggirati legando in modo covalente i peptidi antimicrobici alla superficie di biomateriali (Costa et al., 2011).

Le infezioni associate con l’uso di impianti di biomateriali e dispositivi medici (per esempio cateteri, valvole cardiache, stents, artroprotesi) rimane una delle maggiori barriere dell’uso a lungo termine di questi ultimi nei pazienti.

Queste infezioni sono causate da batteri che normalmente popolano la pelle e sono in grado di colonizzare i dispositivi medici a partire per esempio da suture infette o a causa di procedure di impianto non sterili. Infezioni profonde possono manifestarsi anche mesi o anni dopo l’operazione chirurgica.

L’attività e la virulenza dei microrganismi sono correlate con la loro capacità di creare biofilms i quali sono in grado di colonizzare quasi ogni tipo di materiale (metalli, ceramiche e polimeri).

I biofilms sono costituiti da popolazioni di microrganismi differenziati ad alta densità che sono immersi in una matrice tridimensionale, ben organizzata, composta da polisaccaridi, proteine, acidi nucleici e lipidi prodotti dai microrganismi stessi.

Questa matrice è caratterizzata da un’alta resistenza agli stress ambientali, radiazioni UV, variazioni di pH, shock osmotici, disseccamento e rende praticamente impossibile la penetrazione di antibiotici e sostanze biocidi.

Inoltre la formazione del biofilm facilita il trasferimento orizzontale di geni tra ceppi batterici resistenti e quelli non resistenti (De Carvalho, 2009). Il risultato è che la resistenza agli antibiotici è 10-1000 volte più alta nei biofilms che nelle forme planctoniche delle stesse specie di batteri.

La formazione del biofilm risulta da una specifica sequenza di eventi (in cui sono implicati anche meccanismi di quorum sensing): aderenza microbica, formazione di micro-colonie e proliferazione, produzione della matrice, maturazione del biofilm e infine distacco cellulare con propagazione dell’infezione.

Dopo la sua formazione , un biofilm non può essere facilmente eliminato da procedure cliniche standard e l’nfezione spesso può essere eradicata solo con la rimozione dell’impianto infetto.

Per risolvere questo problema, sono state condotte ricerche per lo sviluppo di rivestimenti antimicrobici che possano prevenire l’iniziale colonizzazione da parte dei batteri (Costa et al. 2011).

AMPs hanno un enorme potenziale in questo frangente, possono essere fissati mediante legami covalenti su biomateriali, aumentandone la stabilità e diminuendone la tossicità.

Batteriofagi

Si definiscono batteriofagi, o più comunemente fagi, virus parassiti dei batteri, dai quali vengono replicati e di cui generalmente inducono la lisi (disgregazione cellulare).

Fig. 17 Batteriofagi su E. coli

L’esistenza dei fagi fu rivelata già nella prima metà del 1900.

Fin dalla loro iniziale individuazione lo studio della struttura e del ciclo riproduttivo dei batteriofagi è risultato basilare per la microbiologia e la virologia in particolare.

Infatti ha permesso di chiarire nei virus il ciclo litico e la fase di eclissi e nei batteri il fenomeno della trasduzione (modalità di trasferimento di geni mediante fagi) che è alla base dell’insorgenza di molte resistenze batteriche ai chemioterapici.

I batteriofagi si presentano come piccoli virus di circa 23-32 nm di diametro, con diversi tipi morfologici fondamentali, la cui organizzazione più complessa presenta un capside proteico isometrico (testa) che racchiude l’acido nucleico (DNA o RNA), collegato con un’appendice tubulare (o coda) e appendici caudali con apparato contrattile in grado di iniettare DNA o RNA fagico nel citoplasma del batterio (fig. 18). Pochi sono i fagi provvisti di rivestimento o envelope.

Fig. 18 Conformazione generale di un fago

L’acido nucleico è prevalentemente formato da DNA a doppio filamento o meno frequentemente a singolo filamento; meno frequenti sono i fagi provvisti di RNA a singolo o doppio filamento.

I batteriofagi possono essere distinti, sulla base del rapporto che si instaura fra batteriofago e cellula ospite batterica, in:

batteriofagi virulenti, se in grado di attuare un’infezione litica (o ciclo litico): sequenza di eventi che seguono l’internalizzazione di un virus da parte di una cellula suscettibile di infezione e che si conclude con la lisi della cellula e la liberazione dei virioni;

batteriofagi temperati, se capaci di svolgere su certe cellule batteriche alternativamente ciclo litico oppure lisogenia; quest’ultima è una particolare relazione fra cellula ospite e virus nella quale l’acido nucleico del fago aderisce al cromosoma batterico comportandosi come un gene batterico e replicandosi in armonia con esso senza determinare la lisi. Quando il DNA del fago si integra nel cromosoma batterico diventa un profago non infettivo e questo fenomeno si può ripetere per molte divisioni cellulari. Il profago può anche separarsi dal cromosoma batterico e dare inizio ad un ciclo

Fig. 19 Alternanza di ciclo litico e lisogenico

Il ciclo litico di replicazione virale (fig. 19) e di infezione della cellula batterica, per esempio di un fago T2 o lamba, inizia con la fase di adsorbimento e penetrazione.

Gli specifici recettori del batterio e del fago consentono a questi di fissarsi alla parete e poi, mediante l’azione di un enzima (lisozima) situato nella coda, di diminuire la rigidità e la resistenza della parete.

Successivamente si ha la separazione dell’acido nucleico dall’involucro, con il genoma fagico che viene iniettato all’interno del batterio mediante contrazione della guaina virale e passaggio del condotto interno.

Il virione cessa a questo punto di esistere come particella indipendente (fase di eclissi) per riapparire moltiplicato nel citoplasma batterico dopo che questi ha effettuato la sintesi dei costituenti virali (proteine del capside, acido nucleico).

Seguono le fasi di maturazione (formazione delle particelle complete o virioni) e di liberazione dei virioni, grazie a una endolisina che porta allo scoppio della cellula batterica.

Le fasi di eclissi, maturazione e liberazione vengono complessivamente indicate con il termine “fase vegetativa”.

I batteriofagi sono fra gli organismi conosciuti più ubiquitari.

Si trovano ovunque e per questo motivo non risulta costoso il loro isolamento.

I batteriofagi sono riconosciuti come agenti antimicrobici naturali che possono combattere le infezioni batteriche in uomini, animali e piante. Inoltre i meccanismi di resistenza agli antibiotici e ai batteriofagi sono differenti.

Questo comporta che batteri che risultano resistenti agli antibiotici rimangono sensibili ai batteriofagi.

Ceppi di E. coli, isolati da ulcere di pazienti diabetici, che mostravano alti livelli di resistenza agli antibiotici, sono risultati sensibili all’esposizione a fagi (Rahmani et al., 2015).

E’ necessario, però, sottolineare che l’uso dei batteriofagi per fini terapeutici nell’uomo richiede ulteriori ricerche.

L’ FDA ha approvato un clinical trial in fase I nel 2008, che valutava la sicurezza di un cocktail di fagi nel trattamento di pazienti con ulcere venose infette alle gambe (Abhilash et al., 2009).

E’ stato dimostrato che i batteriofagi sono efficaci nei confronti di una varietà di batteri Gram– (per esempio E. Coli, P. aeruginosa, Vibrio vulnificus, Salmonella spp) e Gram+ (Enterococcus faecium and S. aureus) (Brooks e Brooks, 2014).

Un cocktail contenente differenti tipi di fagi, specialmente se utilizzato in associazione con antibiotici tradizionali, potrebbe rappresentare un’ottima terapia per affrontare le resistenze.

Inoltre si potrebbe usare un rivestimento fagico modificato con specifici peptidi antigenici che potrebbero provocare la risposta immunitaria proprio nel sito di infezione.

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