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Non mancano certo i limiti, in un approccio narrativo alla bioetica: la- vorare su casi o narrazioni astratte dal reale contesto nel quale prendo- no forma può comportare una loro progressiva rielaborazione, un loro rimaneggiamento, che allontanerebbe appunto dalla realtà clinica, per portare piuttosto nel mondo immaginario dei film, delle fiction o dei ro- manzi e dei racconti (cfr. Chambers 1999). Si rischierebbe insomma di cadere nel mondo dell’immaginazione, presa qui solo negli aspetti più negativi che la possono caratterizzare.

Di fatto questo rischio si può evitare, se si lavora non su casi fittizi, ma su casi concreti, sulle storie che emergono nella realtà quotidiana della clinica e della cura. Nessun caso è solo un caso, perché ciascun caso rimanda ad una storia particolare, che definisce il nostro vissuto e la nostra identità. Certi limiti teorici contro i quali ci si scontra nel di- battito possono essere rimessi in discussione proprio nel confronto con le dinamiche reali di una storia, al punto tale da poter ridefinire i para- metri di riferimento ed i valori cui ispirarsi: e questo vale sia sul piano personale, quindi su di un livello che potremmo definire bioetico, sia sul piano comunitario, ovvero su quel livello che possiamo indicare co- me biopolitico.

Quale valore possano rivestire questi racconti e quale può essere la loro funzione? In un’analisi sulla narrazione Jerome Bruner (2002:29) si chiede:

Che tipo di modelli sono i racconti? In che modo simboleggiano il mondo al di là delle cose particolari alle quali si riferiscono diretta- mente? (…) soprattutto in quanto metafora. (…) è l’ossessivo potere della metafora che dà al racconto la sua spinta al di là del particolare, la sua spinta metaforica. Ma i racconti che cosa modellano metafori- camente? Certo non un semplice atto umano (…) Le storie sono come

Doppelgängeroperanti in due mondi, l’uno un paesaggio di azione nel mondo, l’altro un paesaggio di coscienza, dove sono rappresentati i pensieri, i sentimenti e i segreti dei protagonisti della storia.

Narrare, sottolinea Bruner, è legato sia all’atto del raccontare che a quello del conoscere e le narrazioni sono dipendenti dal linguaggio co- sì come dalle dinamiche sociali e da quelle culturali: la narrazione vie- ne fatta spesso ricorrendo ai casi, ma questi devono essere ricollegati entro una dimensione temporale ben precisa. Anche grazie alle strutture più definite che tendono a ricorrere nella narrazione succede che «le si- tuazioni prototipiche arrivano a diventare metafore fondamentali della condizione umana» (op. cit.:66).

In questo momento non mancano certo storie particolari sulle qua- li possiamo provare a riflettere.

Possiamo rileggere alcuni passaggi della lettera che Piergiorgio Wel- by scrisse al Presidente Giorgio Napolitano, nel settembre 2006, per cogliere la sua visione della vita e ascoltare i bisogni che lui – dopo anni di malattia – cercava di esprimere come proprie esigenze esisten- ziali:

Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la pas- seggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude (…), la morte non può esse- re ‘dignitosa’; dignitosa dovrebbe essere la vita; e ancora: che cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile per la vita.

La richiesta specifica di Welby riguardava la sospensione dei trat- tamenti: «Morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita» e per questo lui rimarcava il desiderio di compiere una scel- ta sulla propria vita: «Io credo che si possa, per ragioni di fede o di po- tere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa ‘giocare’ con la vita e il dolore altrui. Quando un malato termi- nale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita

e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente ‘biologica’, io credo che questa volontà debba essere rispettata ed accolta con quel- la pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico».

O, ancora, potremmo ascoltare il racconto che il padre di Eluana Englaro, una ragazza che a causa di un incidente d’auto ha vissuto in stato vegetativo diciassette anni, ha fatto della sua e della propria sto- ria: qui una storia individuale, quella di sua figlia, diventa storia co- munitaria, per il tramite dei racconti che di essa vengono fatti dalla fa- miglia stessa o dagli amici, ossia dalla comunità di questa giovane don- na (cfr. Englaro - Nave 2008).

Nelle narrazioni – osserva Bruner – si dà sempre per acquisita la presenza dell’ascoltatore, perciò se da un lato un racconto serve a de- finire un’identità e a sancirne l’autonomia morale, d’altra parte la re- lazione con le altre persone, che l’atto narrativo implica, e l’impegno che implicitamente ne deriva, rappresentano un aspetto altrettanto es- senziale. La ricerca di un equilibrio tra l’autonomia e l’impegno è de- finita da Bruner come il tratto caratteristico della condizione umana, pur restando questa conciliazione molto complessa. La costruzione del- l’identità, anche morale, non sembra perciò poter prescindere dalla ca- pacità di narrare, che attinge sempre alle diverse forme culturali nelle quali siamo cresciuti e nelle quali viviamo immersi: talvolta le dimen- sioni dialettiche della cultura si riflettono nelle storie, nei racconti e nelle identità personali.