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10. I CARATTERI FISICI E PSICOLOGICI PURAMENTE EUROPEI DEGLI ITALIANI NON DEVONO ESSERE ALTERATI IN NESSUN MODO.

3.1 I figli della migrazione: tra maschere, silenzi e lotte politiche

Ne carne, ne pesce, ma uovo156. In una frase la italo-etiope Lucia Ghebreghiorges, ex collaboratrice di Left e membro attivo della rete G2, ha condensato il dilemma di essere figli di migranti qui in Italia oggi. La rete G2 secondegenerazioni, di cui la Ghebreghiorges fa parte, è nata nel 2005 grazie all’unione spontanea di alcuni figli e figlie di immigrati/rifugiati, nati in Italia o arrivati da minorenni. Si tratta di una rete di cittadini, originari di Africa, Asia, Europa e America Latina, che hanno pensato di unire le forze per lavorare su due punti fondamentali: i diritti negati alle seconde generazioni senza cittadinanza italiana e la costruzione di una identità plurima, meticcia, favorevole ad un incontro di civiltà157. La rete ha natali romani, ma dalla capitale il dialogo è in costante movimento verso altre realtà italiane cittadine e non. Da Milano a Palermo il network è in continua espansione. Nel 2006, per rendere la comunicazione tra i membri più dinamica, si è pensato ad una serie di iniziative che hanno portato alla costruzione di un blog al cui interno i membri potevano iscriversi ad un forum di discussione. Oltre a questo, nello stesso anno, sono stati realizzati due video e un fotoromanzo. Strumenti collettivi che servivano per sensibilizzare la società italiana sulle problematiche che vivono quotidianamente le seconde generazioni. La rete G2 ha partecipato, tra il 2006 e il 2007, agli incontri convocati dal Ministro dell’Interno e dal Ministro della Solidarietà Sociale sulle linee di riforma del Testo Unico sull’immigrazione ed è stata ricevuta in commissione Affari costituzionali della Camera per esprimere un parete sulla riforma della legge sulla cittadinanza. Collabora attivamente con l’Assessorato alle politiche giovanili del Comune di Roma e con il Centro interculturale della provincia di Mantova. Il successo della rete è stato totale. Sia come impatto sui media, ma soprattutto come punto di aggregazione per giovani confusi in cerca di conforto legislativo e morale. I contatti giornalieri al Forum sono sempre più numerosi e gli incontri pubblici si stanno moltiplicando rapidamente. Dopo lo storico gemellaggio con Associna, la rete delle seconde generazioni cinesi in Italia, la rete cerca oggi di miscelare le energie con altri gruppi sul territorio italiano impegnati nelle stesse battaglie. È storia recente il Forum 2007 tenuto negli spazi della scuola Di Donato a Piazza Vittorio che ha visto riunirsi per la

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http://www.secondegenerazioni.it/

157

Le persone che gravitano intorno hanno dai 17 ai 36 anni, originari di paesi diversi quali: Filippine, Perù, Chile, Senegal, Sri Lanka, Albania, Egito, Marocco, Libia, Argentina, Romania, Iran, Capoverde, Somalia, Cina, Etiopia, Brasile, Ecuador e altri.

prima volta membri di G2 di tutta la penisola.

Il successo della rete G2 mostra una Italia che è cambiata, non più solo terra di prima immigrazione, ma anche di stabilità, ricongiungimenti famigliari, nascite, crescite, scuola, identità plurime. La voglia di questi ragazzi di parlare, unirsi, combattere per un ideale comune è senza ombra di dubbio un segnale positivo. Ma allo stesso tempo si potrebbe affermare paradossalmente che il successo di una rete come G2 è anche frutto di un insuccesso o di una preoccupazione. La rete G2 nasce da una preoccupazione quindi, per dirlo meglio da una serie di preoccupazioni.

Prima di approfondire la natura di queste preoccupazioni andrebbe fatto un passo indietro per definire con chiarezza a cosa si riferisce quando si parla di seconde generazioni in Italia (in questo caso la nostra attenzione sarà focalizzata sulla penisola, anche se non saranno esclusi riferimenti ampli ad altre realtà europee). Tracciando l’identikit dei figli dei migranti sostiene Sayad:

Essi sono una sorta di ibridi che non condividono del tutto quelle proprietà che definiscono idealmente l’immigrato integrale […] né condividono interamente le caratteristiche oggettive e soprattutto soggettive dei nazionali: sono degli “immigrati” che non sono emigrati da alcun luogo158.

Le parole del sociologo algerino nate nel e per il contesto francese dipingono perfettamente anche l’odierna situazione italiana. Nel Bel paese in materia di seconde generazioni regna una confusione strutturale. Metodologicamente infatti manca una reale distinzione tra stranieri, nativi e nativi stranieri.

Questo dipende molto anche dalla modalità di accesso alla cittadinanza italiana. Non tutti i minori sono automaticamente italiani. I bambini nati da genitori stranieri, infatti, prendono la nazionalità dei loro genitori. Però se nati sul suolo italiano hanno la possibilità di richiedere la cittadinanza italiana entro un anno dal raggiungimento del diciottesimo anno d’età. Dovranno tuttavia dimostrare al momento della domanda la loro residenza continuativa in Italia. Il Consiglio dei Ministri ha approvato nella riunione del 4 agosto 2006, su proposta del Ministro dell´Interno, Giuliano Amato, un disegno di legge - in linea con la direttiva europea 2003/109/CE istitutiva del “permesso di soggiorno CE" - che aggiorna la normativa sulla cittadinanza modificando la legge n. 91 del 1992. Tale disegno di legge prevede una serie di

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Sayad A., La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina., Milano, 2002, p.382.

interventi che prendono in considerazione le varie situazioni che contraddistinguono la presenza degli stranieri nel paese e, in particolare, i nati nel territorio, i minori che si ricongiungono ai propri familiari in età infantile o adolescenziale, gli stranieri extracomunitari maggiorenni. Però in sostanza non sono ancora cambiate molto le cose, in Italia per quanto riguarda la cittadinanza regna incontrastato lo jus sanguinis, anche se più duttile rispetto a quello che tempo addietro era operante in Germania. La cittadinanza e il suo difficile ottenimento per i minori stranieri sono questioni dolorose nonché tortuose dal punto di vista burocratico e sociale. Si è stranieri anche se “emigrati da nessun luogo”159 quindi. Perché non tutti, pur condividendo il vissuto italiano (formazione scolastica, atmosfera culturale) hanno accesso alla cittadinanza. Ma questi minori stranieri sono seconde generazioni? E chi invece ha la cittadinanza, continua ad essere una seconda generazione? Chi rientra in questo termine? È possibile fare dei distinguo? In realtà è tutto molto più complicato. Seconde generazioni è un’espressione che ingloba più realtà: minori nati in Italia, minori giunti da soli (ed assistiti da relativi progetti educativi); minori ricongiunti; minori rifugiati; minori arrivati per adozione internazionale; figli di coppie miste.

Nonostante le differenze sostanziali (legislative soprattutto) ci sono però tratti comuni nei gruppi testé citati. Per esempio i figli dei migranti (o del migrante nel caso delle coppie miste) condividono l’essere sempre a cavallo tra più realtà, quello che Gloria Anzaldúa descriveva come “essere crocevia”160. La Anzaldúa definendo il suo stato di tejana, chicana, patlache (donna gay) aveva trovato proprio nella immagine simbolica del crocevia l’unica modalità per vivere ai confini, inteso sia come il confine reale della popolazione chicana, quello tra Stati Uniti e Messico cioè, sia come il confine simbolico delle sue appartenenze. L’unico modo per sopravvivere quindi era nel non avere confini, “vivere sin fronteras”161. Ma non è semplice accettare la propria pluralità. È la stessa Anzaldúa a denunciarlo. Dirà infatti che:

io, mestiza non faccio che uscire da una cultura ed entrare in un’altra, perché io sono in tutte le culture nello stesso tempo, alma entre dos mundos, tres, cuatro, me zumba la cabeza con lo contradictorio. Estoy norteada por todas las voces que me hablan simultáneamente162.

159

Ibid.

160

Anzaldúa G., Terre di confine/La Frontera, op.cit., p.256.

161

Ibid.

162

La mestiza quindi soffre, fisicamente, psicologicamente del suo essere doppia, tripla. In lei è presente una irrequietudine che non la lascia mai respirare. Straniera a tutti, ma allo stesso tempo estranea a nessuno. Dirà di sè la mestiza di essere un gesto:

soy un amasamiento, sono l’atto di impastare, di unire e di mettere insieme, da cui ha preso forma una creatura che appartiene sia al buio, sia alla luce, ma anche una creatura che mette in discussione la definizione di luce e buio e ne cambia il significato163.

La mestiza da essere invisibile, rifiutata da tutti, capro espiatorio di ogni colpa, diventa invece un processo destinato a durare nel tempo, come il mais che prodotto da un incrocio è progettato per durare sotto ogni genere di condizioni. La mestiza sa che lei e tutti quelli come lei lotteranno, ma resteranno perché il processo volente o nolente è irreversibile164. Infatti i figli dei migranti segnano con la loro presenza proprio questa durata, questa stabilità. Il processo migratorio da provvisorio si fa progetto di vita. L’immigrato non è più solo, si fa una famiglia o la chiama dal paese d’origine. Avere figli quindi fa parte di un movimento di stabilità. I figli dei migranti non possono essere schematizzati tutti in una casella comune, le storie, i passati, le prospettive di ognuno di loro sono differenti, quello che possiamo fare in questa fase è solo delineare delle linee generali di condotta che possono applicarsi via via alle differenti situazioni. Rispetto ai/al genitori/e migranti/e il figlio è un assoluto alieno. Qualcosa di totalmente altro rispetto a tutto quello che sta intorno al mondo del migrante. Anche gli abitanti del paese d’approdo sono più prevedibili di suo figlio o sua figlia. Il migrante in questo caso ha più punti in comune con un concittadino mai mosso dal paese rispetto al frutto dei suoi lombi (o del suo ventre). In realtà all’interno delle famiglie immigrate i normali conflitti generazionali possono esasperarsi, soprattutto nel periodo adolescenziale. Tra genitori e figli si frappone un muro di incomprensione. L’immigrato si trova ad affrontare questi individui nati da lui con cui non condivide la memoria, il passato, gli odori, i sapori e i giovani dal canto loro devono cercare di far capire ai padri, alle madri la loro voglia di futuro, di cambiamento. Di fatto con i figli il migrante si rende conto che non è possibile un reale ritorno, perché i figli non hanno avuto mai di fatto una reale partenza. Certo ci

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Ivi, p.124.

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sono le “vacanze” nel paese natale o anche la decisione di trasferirsi per sempre nel vecchio paese, nonostante questo ritorno fisico, non ci sarà un ritorno reale165. Resteremo aveva fatto gridare Gloria Anzaldúa alla sua mestiza e di fatto è così, i figli dei migranti restano nei tessuti brumosi del territorio e nei cuori, il cambiamento dettato dalla loro presenza è irreversibile.

In ambito famigliare il figlio è in perenne rivolta. Le armi che usa per questa sua rivolta sono a mano a mano le più disparate. Alcune ragazze mettono gonne striminzite ed escono ogni sera con un ragazzo diverso, altre invece seguono il solco della tradizione come le mussulmane che mettono il velo. A volte seguire la tradizione pedissequamente è una scelta che i genitori faticano a digerire. “Ti ho dato tutto, perché metterti in mostra così?” pensano. In realtà il velo, per fare un esempio preciso tra i tanti, è uno strumento di lotta. Lo aveva ben intuito Fanon nel suo Anno V della rivoluzione algerina. In quel testo mirabile Fanon sosteneva che

All’offensiva colonialista nei confronti del velo, il colonizzato oppone il culto del velo166.

Le donne algerine volevano essere “svelate” dal potere coloniale che vedeva nella donna lo strumento per scardinare dalle fondamenta la società algerina e ogni velleità libertaria. Le donne algerine coperte dalle loro mantelle bianche conoscono le mira del potere, sanno che il colono le vuole possedere, squarciare, stuprare. Non a caso le fantasie sessuali dei colonizzatori erano sempre precedute da immagini di donne a cui si lacerava il velo e poi successivamente la vagina, una doppia deflorazione. Proprio per questo la tradizione (questa in una prima fase della lotta algerina) diventa strumento di lotta. Il panorama è identico anche oggi, nella stessa Francia metropolitana, molte donne delle tormentate banlieue parigine indossano il velo come segno di lotta e affermazione di identità. Non coercizione, ma scelta resistente, culto per riprendere le parole di Fanon. Poi non va dimenticato che il velo (nel caso preso in esame) ha anche un uso difensivo. Se le donne algerine erano in costante odor di stupro, per riprendere una nota definizione di Sartre riguardante le donne ebree nei campi di concentramento167, lo sono anche le giovani ragazze delle

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Memmi M., Ritratto del decolonizzato. Immagini di una condizione, Raffaello Cortina, Milano, 2006, pp.106-124.

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Fanon F., Scritti Politici-L’anno V della rivoluzione algerina, Derive Approdi, Roma, 2007, pp.39- 61.

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banlieue. Il velo cela da sguardi inopportuni, protegge dal colonizzatore, ma come ha ben spiegato Samira Bellil168 è stato efficace contro la pratica dei tournantes, le violenze sessuali perpetrate da gruppi di coetanei ad una o più ragazze insieme, piaga che ha colpito molte adolescenti delle cité.

Per fare invece un esempio letterario la mente ci corre subito al protagonista del racconto di Hanif Kureishi Mio figlio è un fanatico169. Un padre tassista pakistano che non capisce perché suo figlio cresciuto nella libertà voglia diventare un fondamentalista islamico.

Il figlio, quindi, è in continua lotta con il modello genitoriale, il mondo dei genitori è qualcosa che non capisce o che forse capisce troppo bene, ma non vuole condividere. John Fante, scrittore italo-americano di seconda generazione, ha descritto con cognizione di causa questa condizione, in quasi tutta la sua produzione letteraria da Aspetta Primavera, Bandini a La Confraternita del Chianti. Protagonista di tante sue storie un padre rozzamente dolce che non riesce ad interagire con il territorio che si è scelto come casa e anche quando ci prova gli esiti sono esilaranti. L’ironia regna sovrana nella prosa di Fante, ma è un’ironia agrodolce che spesso colpisce allo stomaco il lettore. In un suo racconto L’Odissea di un Wop appare uno dei tanti padri fantiani che restano indelebili nella memoria:

Sono nervoso quando porto a casa qualche amico: quel posto ha un’aria troppo italiana. Qua c’è appeso un ritratto di Vittorio Emanuele, e più sopra c’è una foto del Duomo di Milano, e vicino ce n’è una di san Pietro, poi sulla credenza c’è una caraffa di foggia medievale, piena sempre fino all’orlo di un vino rosso rubino. Tutte queste cose sono cimeli di famiglia di mio padre e, chiunque venga a casa nostra, a lui piace piazzarsi là sotto e vantarsi.

Così, comincio a rinfacciarglielo. Gli dico di smetterla di fare il Wop e di diventare americano una buona volta. E lui prende la coramella del rasoio e me le suona di santa ragione, incalzandomi di stanza in stanza fino a fuori. Mi rifugio nel ripostiglio e mi tiro giù i pantaloni e tendo il collo per controllare i lividi del sedere. Un Wop, ecco che cos’è mio padre! Non esiste un solo padre americano che picchi suo figlio in questo modo. Bè, per questa strada non

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Caldiron G., Banlieue. Vita e rivolta nelle periferie della metropoli, Manifestolibri, 2005, p.109.

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Il racconto si trova in Kureishi H., Love in a blu time, Bompiani, Milano, 1996. Udayan Prasad ha tratto dal racconto un film (1997).

andrà molto lontano; un giorno o l’altro gliela faccio pagare170.

Nello stesso racconto Fante fa un ritratto nitido anche della nonna:

Mia nonna è una Wop senza speranza. È una piccola contadina tracagnotta che va in giro con le braccia incrociate sulla pancia, una vecchia sempliciotta appassionata di bambini. Entra in camera mia e cerca di parlare coi miei amici. Parla inglese con un pessimo accento, con questo incessante rotolio di vocali. Quando, con quel suo fare semplice, con quei vecchi occhi sorridenti, si mette davanti a uno dei miei amici e dice: “ Ti piace a te di andare alla scola delle monache?”, il cuore mi si ribella. Mannaggia! Che disgrazia: ormai lo sanno tutti, che sono italiano171.

Il cuore mi si ribella, dice Fante. Il cuore di tanti si ribella in effetti. Per rimanere in ambito italo-americano, è utile anche citare Louise de Salvo, autrice di romanzi come Vertigo e Crazy in the kitchen, professoressa di scrittura creativa presso lo hunter College. Descrivendo il suo atteggiamento davanti alla nonna (figura emblematica, cordone ombelicale diretto verso un Italia obliata) dice:

Mia nonna era un dono di Dio, mandata a proteggermi in una casa piena di rabbia e di dolore. Ma era anche qualcuno di cui mi vergognavo e che prendevo in giro insieme ai miei amici, perché gli amici non mi prendessero in giro a causa sua. Come se nel ripudiarla avessi potuto depurarmi da ciò che avevo di italiano e diventare quello che allora ritenevo importante. Un’americana, qualunque cosa questo significasse172.

Ma per chi cresceva nei quartieri residenziali del New Jersey (dove ci trasferimmo dopo la morte di mio nonno) negli anni cinquanta, essere americano non comprendeva avere una nonna così. Così in pubblico la sbeffeggiavo, la disprezzavo. In privato correvo da lei, le poggiavo la testa in

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Fante J., L’odissea di un Wop in Durante F.(a cura di), Figli di due mondi, Avagliano, Cava dei Tirreni, 2002, p.47.

171

Ibid.

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grembo e, in segreto, le chiedevo perdono.

La famiglia rappresenta l’anello di congiunzione tra l’individuo e la società circostante. La mediazione dell’elemento famigliare è fondamentale nella genesi del rapporto tra individuo e società. Fornisce i modelli collettivi che forgeranno la personalità del bambino. È chiaro che la migrazione è una frattura del movimento rassicurante che traghetta il bambino verso il suo essere uomo. I conflitti nascono spesso sulla progettazione del futuro. Quale futuro? Dove? Con chi? In questo casi temi come il matrimonio, il ritorno in patria, la scelta o meno di seguire le tradizioni diventano questioni di grande imbarazzo tra genitori e figli. Infatti a volte la recriminazione nasce da un mancato dialogo, da una mancata messa in luce delle volontà di ciascuno. Spesso il genitore migrante abdica al suo ruolo di decisore e lascia speranzoso a terzi il compito di dare direttive sensate al figlio. Il genitore perso in una lotta costante di sopravvivenza e riequilibrio del proprio se delega alle istituzioni il compito di “crescere” il figlio. Questo non significa che il genitore migrante sia un cattivo genitore, anzi cerca di fare il meglio per il figlio, mettendolo in mani migliori della sua. Per esempio la scuola è considerata il luogo di riscatto per eccellenza. Attraverso la riuscita scolastica del figlio il genitore spera di poter recuperare una parte di dignità perduta nei meandri di un viaggio tortuoso e labirintico. È forte in molti genitori un senso di fallimento nata oltre che dal perpetuarsi di conflitti famigliari, anche dall’angoscia di perdere i propri valori. Spesso l’insuccesso scolastico del figlio è vissuta come una colpa collettiva di difficile espiazione.

In realtà non tutte le famiglie sono uguali, non tutti i figli sono ribelli e soprattutto non tutti i genitori migranti vivono situazioni di frustrazione e rivalsa. Si tratta naturalmente di schematizzazioni. Possiamo dire che molto dipende dal tipo di coppia genitoriale, dal loro reddito, dal grado di istruzione, dalla situazione storico- sociale di provenienza, dalle modalità di arrivo nel paese di origine. Questo ultimo punto è fondamentale per capire le dinamiche famigliari.

Il figlio dell’immigrato è […] un uomo nuovo in questa Europa ancora in via di formazione e lui stesso non sa chi è e che cosa spera di diventare173.

Spesso la società lo etichetta a priori come problema. Il figlio del migrante

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trova davanti a se una società ostile che lo vuole incasellare e vivisezionare. Nicolas Sarkozy, quando ancora era Ministro degli Interni, aveva definito i figli delle banlieue “racaille”, feccia174. “Non ne potete più di questa feccia? Non preoccupatevi, ce ne sbarazzeremo presto”. Scenario del discorso Argenteuil, dipartimento della Seine Sant Denis. Quella parola “racaille” fu accompagna anche da ampli gesti della mano dall’allora ministro Sarkozy, quasi a voler indicare i ragazzi black e beur come membri di quella “racaille” che tanto permeava il suo discorso. Sarkozy non era

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