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Buchi Emecheta ha trasposto nel suo romanzo-testimonianza Cittadina di seconda classe le sue disavventure di nera africana in terra britannica. La Nigeria che è in lei, già piena di contraddizioni, si scontra con un immaginario bianco (in questo caso inglese) che la lascia letteralmente senza fiato. Adah, la protagonista della vicenda, è una donna tenace, forte, mai sottomessa. Una Ibo nigeriana che combatte su più fronti. Combatte per la sua emancipazione di donna, per la sua emancipazione di nera, per la sua emancipazione di essere umano. Nata povera, nata nera, sa che il mondo le deve qualcosa e non permette all’avvilimento di vincerla totalmente. Il testo è corredato da episodi forti che, di volta in volta, Adah deve affrontare, ma la sua filosofia di donna Ibo l’aiuta a uscirne rinvigorita, ogni volta più forte. Adah emigra con il giovane e scapestrato marito nella Londra degli anni ‘70.

L’impatto con la metropoli, il razzismo e le contraddizioni sociali è durissimo. Il matrimonio cade a pezzi, la cura dei figli ricade sulle sue spalle di donna, il lavoro e la casa sono mete quasi irraggiungibili. Ma Adah riuscirà ad emergere, a togliersi di dosso il fango della storia e a non perdere la memoria del suo travaglio. Per questo nasce questo Cittadina di seconda classe, anche come obolo dovuto alla memoria. Una delle scene più forti del romanzo della Emecheta si trova nella prima parte, nel paragrafo intitolato emblematicamente “Non si affitta a gente di colore”. In questo capitolo Adah racconta della difficoltà per lei nera di trovare un “buco” abitativo decente dove poter stare con la sua famiglia numerosa. Le case alla gente nera non vengono affittate e lei è molto scoraggiata. Così tanto scoraggiata che si adegua all’immagine di brutta, sporca e cattiva che la società dà di lei e della gente del suo colore. Adah mentalmente, inconsciamente quasi, si adegua alle ripugnanze che la società prova per lei:

La sua caccia alla casa era resa più difficile dal fatto di essere nera: nera, con due figli piccoli e incinta del terzo. Cominciava ad imparare che il colore della sua pelle era qualcosa di cui avrebbe dovuto vergognarsi. Non se ne era mai resa conto a casa, in Nigeria, anche quando era in mezzo ai bianchi. […] Ma ora Adah cominciava a capirlo, così non perse tempo a cercare un alloggio in un quartiere pulito, piacevole. Lei, che qualche mese prima avrebbe accettato solo il meglio, era stata condizionata adesso ad aspettarsi solo cose inferiori. Ora stava imparando a sospettare di tutto ciò che era bello e puro. Quelle cose

erano per i bianchi, non per i negri49.

Dopo vane ricerche e peripezie, Adah e il marito Francis, trovano su una bacheca di Queen’s Crescent un cartello blu con la scritta affittasi, senza l’aggiunta: non si affitta a gente di colore. Adah non credeva ai suoi occhi. La casa non era lontana da dove stava lei con la famiglia. Prima di avventurarsi a Hawley street, dove era ubicato l’appartamento da affittare, Adah da buona donna Ibo accorta decise di telefonare prima alla signora affituaria. Ma qui incorre di nuovo la paura dello stigma. Adah non fa una telefonata solamente, ma opera su di sè una trasformazione radicale:

Lavorava e viveva a Londra da quasi sei mesi, e così cominciava a distinguere gli accenti. Sapeva che qualunque bianco avrebbe riconosciuto la voce di una donna africana al telefono. Così, per nasconderlo, si schiacciò le narici, larghe come un tunnel, come se avesse voluto evitare di sentire un cattivo odore. Andò in bagno ed esercitò ripetutamente la propria voce e fu soddisfatta del risultato. La padrona di casa non l’avrebbe decisamente presa per una donna di Birmingham o di Londra, ma l’avrebbe potuta tranquillamente prendere per un’irlandese, una scozzese o un’italiana che parla inglese. Almeno, era tutta gente bianca, quella. Era comunque una cosa stupida da farsi, perché la padrona di casa avrebbe prima o poi scoperto la verità- Contava semplicemente sulla compassione umana50.

La voglia di trasformarsi in Adah diventa quasi ossessione quando più tardi dice:

Adah non gli disse [al marito] che si era tappata il naso mentre parlava con la donna, né gli disse di aver scelto le nove perché sarebbe stato buio e forse la donna non si sarebbe accorta in tempo che erano neri. Se almeno si fossero potuti dipingere la faccia, almeno fino a quando avessero pagato la prima

49 Emecheta B., Cittadina di seconda classe, Giunti, Firenze, 1987, p. 94. 50 Ivi, p. 98.

bolletta dell’affitto51.

Quello che cerca Adah è una invisibilità che possa aiutarla a sopravvivere. Per ottenere questa sua sopravvivenza arriva a pensare di autoannularsi come donna, come essere pensante. La soluzione che balena nella sua testa è quella di costruirsi una maschera (dipingere la faccia) e occultarsi (nel buio). Non dice il colore della vernice che avrebbe voluto usare per la sua faccia africana, ma la risposta è facilmente intuibile: bianco. Il colore nemico, il colore che la oppone al suo, il colore che la sta facendo soffrire. Più del nero è il bianco che Adah soffre, perché è quel colore dominante che la condanna alla marginalità. Ma è un colore che per i neri spesso indica una assenza, una paura, l’idea dello spettro. In molta letteratura afroamericana la mancanza di pigmentazione viene associata infatti alla morte, al non avere pelle, al non avere sangue nelle vene. Alice Walker nel suo The Third Life of Grange Copeland parlando dei bianchi l’autrice usa il termine Ghostliness, fantasmicità.

Una volta arrivata alla meta, ossia al quartiere dove si trova la casa in affitto, Adah tira un sospiro di sollievo. La casa è in una zona diroccata, quindi adatta ai “negri”, agli inferiori. Infatti, come dirà, “più il posto era insalubre, più probabilmente la padrona di casa avrebbe preso dei negri”52. La padrona di casa è una entità quasi magica per Adah. Ha delle aspettative su di lei, rappresenta quel mondo bianco, quel mondo “normale” in cui lei nera, “subnormale”, non è accettata. La padrona di casa diventa la chiave di volta per entrare finalmente nella vita vera. Invece già dalla descrizione si capisce che quella donna bianca è per Adah una delusione, un risultato bislacco dell’umanità: piccola testa, al posto dei capelli uno strofinaccio informe. E proprio per questo motivo che il rifiuto della donna ad affittare la casa a loro neri, fa più male ad Adah. Non sopporta l’idea di essere stata rifiutata da una donna così mediocre. Infatti nel testo viene detto che:

Adah non si era mia trovata di fronte ad un simile rifiuto. Non a quel modo così diretto. Un rifiuto da parte di quel rattrappito brandello di umanità, con quel corpo tremante e quel cespuglio in testa; un rifiuto da parte di quell’essere sciatto, sporco e scarmigliato che cercava di dire loro che erano inadatti a vivere in una casa mezzo dirrocata e probabilmente condannata, con

51 Ivi, p. 100. 52 Ivi, p.101.

quelle scale scricchiolanti, E solo perché erano neri?53

Caso simile racconta Wole Soyinka nella sua poesia Telephone Conversation54 del 1962:

The price seemed reasonable, location Indifferent. The landlady swore she lived

Off premises. Nothing remained

But self-confession. "Madam," I warned, "I hate a wasted journey--I am African." Silence. Silenced transmission of

Pressurized good-breeding. Voice, when it came,

Lipstick coated, long gold-rolled

Cigarette-holder pipped. Caught I was foully.

"HOW DARK?" . . . I had not misheard . . . "ARE YOU LIGHT

OR VERY DARK?" Button B, Button A.* Stench

Of rancid breath of public hide-and- speak.

Red booth. Red pillar box. Red double- tiered

Omnibus squelching tar. It was real! Shamed

By ill-mannered silence, surrender

Pushed dumbfounded to beg simplification.

Il prezzo sembrava ragionevole, l'ubicazione

Indifferente. La padrona giurò che abitava

Da un'altra parte. Nient'altro restava Che un'auto-confessione. "Signora" avvertii,

"Detesto i viaggi inutili - Sono africano". Silenzio. Silenzioso passaggio di Buona educazione pressurizzata. La voce, quando riemerse, smaltata di rossetto, sibilo di fumo nel lungo Bocchino placcato d'oro. C'ero cascato, da idiota. "lei è scuro... quanto?" Non avevo frainteso... "è poco o molto scuro?" Pulsante B. Pulsante A.

Puzza

Di fiato rancido di pubblico nascondiglio- per-parlare.

Cabina rossa. Buca da lettere rossa. Autobus rosso a due piani, schiacciacatrame. Era vero! Vergognoso

53 Ivi, p.103.

Considerate she was, varying the emphasis--

"ARE YOU DARK? OR VERY LIGHT?" Revelation came.

"You mean--like plain or milk chocolate?"

Her assent was clinical, crushing in its light

Impersonality. Rapidly, wave-length adjusted,

I chose. "West African sepia"--and as afterthought,

"Down in my passport." Silence for spectroscopic

Flight of fancy, till truthfulness clanged her accent

Hard on the mouthpiece. "WHAT'S THAT?" conceding

"DON'T KNOW WHAT THAT IS." "Like brunette."

"THAT'S DARK, ISN'T IT?" "Not altogether.

Facially, I am brunette, but, madam, you should see

The rest of me. Palm of my hand, soles of my feet

Are a peroxide blond. Friction, caused-- Foolishly, madam--by sitting down, has turned

My bottom raven black--One moment, madam!"--sensing

Her receiver rearing on the thunderclap

Di un silenzio ineducato, la resa Portò l'imbarazzo ad implorare un chiarimento.

Mi venne incontro, variando la sintassi - è molto scuro? o più sul chiaro? Lo aveva detto. "Lei intende dire - qualcosa come cioccolata fondente oppure al latte?" Assentì in tono clinico, schiacciante, nel suo fare vagamente Impersonale. Rapido, sulla stessa lunghezza d'onda, Faccio la mia scelta. "Seppia west- africana" - poi aggiungendo "Come sta scritto sul passaporto". Silenzio, per uno spettroscopico Volo di fantasia, finché la sincerità ne fa risuonare la voce, Secca, sulla cornetta. "e come sarebbe?", accondiscende

"non so cosa sia". "Dà un po' sul castano" "allora è scuro, no?" "Non del tutto” In faccia, tendo al castano, però, signora, dovrebbe

vedere le altri parti di me. Il palmo della mano e le piante dei piedi Tendono al biondo ossigenato. L'attrito, provocato,

- Sfortunatamente, signora - dal troppo star seduto mi ha reso Il didietro color nero corvino - Un momento, signora! -

About my ears--"Madam," I pleaded, "wouldn't you rather

See for yourself?"

Dissi sentendo Il ricevitore impennarsi a quella inattesa saetta

Con un riverbero che mi fece vibrare le orecchie

-"Signora",implorai

"Non preferirebbe, forse, Controllare di persona?

“Detesto i viaggi inutili- sono africano”, dice Soyinka. Il poeta nella sua poesia gioca sui colori, su come cambia l’epidermide nera a seconda della regione del corpo in cui è ubicata. Si passa dal biondo ossigenato del palmo delle mani fino arrivare al nero corvino del didietro colpevole di essere nascosto alla vista dei più. La supplica finale è carica di ironia che è anche autoironia. Quando Soyinka dice “c’ero cascato da idiota” significa che ancora quel immaginario su di lui ha una carica dirompente. Soyinka quindi si fa prendere dal gioco sempre umiliante di definire il suo colore e quasi si perde. C’ero cascato…c’ero cascato….un po’ come succede anche a Adah che ad un certo punto ha il desiderio di dipingersi la faccia e tenersela dipinta fino alla prima bolletta. Il desiderio di sbiancamento della pelle in Adah, segna una perdita interiore. Non solo perché si desidera essere altro da sè, ma perché si desidera essere qualcosa che è indistinto, un fantasma. Pitturare la faccia non significa diventare bianco, ma annullarsi. È una voglia di perfezione che non è solo epidermica, ma che sottolinea i rapporti di potere sbilanciati tra chi detiene la forza economica e chi no. Quindi potremmo leggere la dicotomia bianco-nero anche (e soprattutto) da questo punto di vista55.

Per capire bene questa dicotomia che rende subalterni, è utile in questa fase capire che tipologia di immagini sono state usate per descrivere e marginalizare il nero. Una carrellata cronologica che ci porta ad attraversare trasversalmente i tempi, i mondi e le rappresentazioni.

L’Africa è vista, ancora oggi (soprattutto oggi), come un continente vuoto, arido,

55 Per il confronto tra Soyinka e Buchi Emecheta Cfr. Santarone D., La mediazione letteraria. Percorsi interculturali su testi di Dante, Tasso, Moravia, Fortini, Arbasino, Defoe, Tournier, Coetzee, Emecheta, Saro-Wiwa, Palumbo, Palermo, 2005, pp.168-169.

senza futuro. L’Africa in realtà è sempre stata ricca. C’era e c’è caffè, petrolio, bauxite, arachidi, diamanti, cacao. “Ma non sembra giovargli” sostiene Marco Boccitto, redattore de Il Manifesto “Ci vorrebbe anche un minimo di correttezza nei rapporti che si snodano tra la terra, il contadino e la barretta di cioccolato. Il prezzo lo decide chi compra”56. E le rappresentazioni del continente e dei suoi abitanti neri spesso sono stati decisi da chi compra appunto. Sempre periferia, mai centro, sempre citata, mai orante. L’Africa, infatti, per moltissimo tempo è stata raccontata da altri, non ha avuto la parola, o peggio la sua parola è stata negata, derisa, obliata. Le informazioni che abbiamo avuto da questo continente sono spesso le parole passate attraverso le storie e gli occhi di altri popoli. Quindi sappiamo dell’Africa dai mercanti arabi, dagli schiavisti, dai colonizzatori. E l’Africa per moltissimo tempo ha accettato questa visione parziale di sè e della sua interiorità. È recente il cammino del continente e dei suoi abitanti verso una conoscenza reale di quello che si è stati. L’Africa si è ritrovata di recente e solo dopo un travaglio doloroso che l’ha portata a riscoprire la sua identità a tutto tondo. Sono serviti personalità come Ngũgĩ wa Thiong’o, Sankara, Nkrumah, Ki-Zerbo, Anta Diop, Cabral, Senghor, Cesaire, Fanon o anche oltreoceano Malcolm X, Marcus Garvey, le parole di ferro e fuoco di Toni Morrison o quelle di note di Bob Marley. La colonna vertebrale prima spezzata è stata (e per versi si sta ancora) ricostruita (si sta ricostruendo) vertebra per vertebra. Si era, finalmente, protagonisti della propria storia e questo, a dirla con le parole di Ngũgĩ wa Thiong’o, era un vero atto sovversivo.

Prima l’idea di Africa era quella dei geografi romani che non tentavano nemmeno di descriverla, troppo lontana, un po’ scomoda per le loro legioni, quindi si pensò bene di liquidare la faccenda vergando d’oro nelle mappe la scritta Hic sunt leones. Sotto il litorale del Mediterraneo quindi leoni, paura, mistero. Ma anche ammirazione. Plinio il Vecchio sosteneva infatti che ex Africa sempre aliquid Novi, che dall’Africa si apprende sempre qualcosa. Ma il pensiero di Plinio non ebbe molto seguito. Anche se, ad onor del vero, una immagine positiva del nero circolava. Nel tardo medioevo per esempio circolava il mito del prete Gianni. Nella leggenda si parla di un monarca non europeo che si unì alla lotta dei cristiani di Occidente contro l’Islam. All’inizio il prete Gianni fu identificato con l’India, alcuni lo considerarono tartaro, ma la vulgata più diffusa lo voleva etiope e discendente di quel Gaspare, re mago che venne ad onorare Gesù Cristo nella umile culla di Betlemme. La leggenda del prete Gianni ha una sua valenza storica. Nasce in un periodo in cui i cristiani d’occidente vedevano l’Etiopia come unico argine all’espansione islamica. Poi

l’idillio tra Etiopia e papato finì a causa del rifiuto delle massime autorità della chiesa copta d’Etiopia di inchinarsi al Papa nel corso di una conferenza ecumenica di Firenze57.

C’erano altri neri venerati nell’iconografia medievale in quanto esempio positivo. Il fratellastro moro di Parsifal Feirefiz, San Gregorio il Moro e naturalmente il re mago Gaspare già citato. Ma è interessante il culto di San Maurizio. L’iconografia generalmente lo voleva all’inizio bianco, ma poi si “riprese” il suo colorito nero. In alcuni distretti (soprattutto in Germania) l’iconografia vuole S.Maurizio nero. San Maurizio fu capo della legione tebana sotto Massimiliano, ad Aguana - oggi St.Maurice - nel Vallese tra gli anni 275 e 305, e per la sua fede cristiana soffrì il martirio. Le immagini quindi non sono del tutto negative. La differenza è nel modo di considerare il nero, questa si deteriora e insieme ad essa l’immagine dell’intero continente, con il diventare il nero merce di scambio e compravendita, in una parola schiavo. Ma prima dell’Occidente c’è stato il mondo arabo-islamico. Ed è qui che si fanno chiare le politiche di sfruttamento umano schiavista. Certo anche nel mondo islamico non mancavano immagini positive del nero, basti ricordare il famoso Bilāl, ex schiavo etiope divenuto poi uno dei più fedeli sadiq, compagni, del Profeta Mohamed nonché primo muezzin del nucleo iniziale di fedeli alla religione nascente. Tra chi ha combattuto per la religione e ha fatto il ğihād si contano numerosi neri. Però ciò non toglie che il nero nella società araba era lo schiavo. Anche lo stesso Bilāl era un ex schiavo. La schiavitù esisteva come istituzione anche in epoca preislamica, ma è solo a partire dall’avvento della religione islamica e della relativa espansione che la manodopera ebbe una forte impennata di richieste. La nuova religione, nata in Higiaz, coprì gran parte dei territori allora conosciuti. Ad Oriente si arrivò fino all’India e a qualche propaggine della Cina e ad Occidente fino alla Spagna, era fondata in parte anche sulla schiavitù. Molti schiavi erano usati nella milizia e altri per i lavori nei campi o nell’ambito domestico. C’era in realtà una contraddizione in termini. L’Islam in quanto religione rivelata era contro la coercizione degli esseri umani. Questo concetto trova fondamento sia nel Corano, sia negli hadith 58 . Nel Corano si sottolinea

57 Pieterse J.N., White on black: images of Africa and blacks in western popular culture, New Haven

press, New Haven, 1992, pp.24-25.

58 Questo termine indica i detti, le azioni e le disposizioni del Profeta Mohamed (a.s.), la trasmissione

dei quali si riconduce ai suoi compagni. In senso più ampio ne fanno parte anche i racconti sugli stessi compagni del Profeta e sui primi musulmani della generazione successiva. A partire dal secondo secolo e mezzo dopo la morte del Profeta fu gradualmente riconosciuto come seconda fonte più

l’universalismo della religione, un credo che interessa una comunità islamica, una umma fatta di vari popoli e tribù. A determinare un vissuto quindi non era il colore della pelle, ma la religione, il criterio, quindi, non era epidermico ma basato sul timor di Dio. Però l’Islam era nato in un contesto geografico e politico ben preciso. Certo forse erano stati superati gli eccessi del periodo preislamico, ma ciò non toglie che nero richiamava alla memoria un corpo sociale ben preciso. Il nero era lo schiavo, lo stesso Profeta ne aveva molti al suo servizio. Però dall’Islam fu formalmente abrogata. La parola formalmente qui è necessaria per capire invece come la discriminazione sui neri nel mondo arabo-islamico abbia sofferto di un certo immobilismo. Le notizie che abbiamo sul periodo preislamico sono scarse e imprecise.

Come spesso accade la voce che rimane ascoltata nel corso dei secoli è quella dei dominatori e non quella dei dominati, quest’ultima viene soffocata, repressa, cancellata. Il dominato, il subalterno, non trova posto negli annali, nella storiografia ufficiale, nei monumenti, nei ricordi leciti. Questa è la base di quella che è stata definita la relazione coloniale. Questo tipo di relazione presuppone una diversità insormontabile in cui il colonialista non si augura che il colonizzato gli assomigli in pratiche, tradizioni, costumi, parole. La diversità culturale, nonché fisica, viene ad essere quell’anello essenziale per giustificare il sopruso, il dominio59. Dopotutto “lo facciamo per il loro bene”, un burden, un fardello che il colonizzatore è contento di avere, perché questo fa parte delle pratiche di dominio. La schiavitù era una pratica

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