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10. I CARATTERI FISICI E PSICOLOGICI PURAMENTE EUROPEI DEGLI ITALIANI NON DEVONO ESSERE ALTERATI IN NESSUN MODO.

3.2 L’impero reagisce scrivendo: la letteratura italiana della migrazione.

Cara Italia ti scrivo così mi distraggo un po’, così hanno pensato 22 giovani donne che hanno partecipato al concorso Scritture circolari: il racconto del quotidiano attraverso i luoghi191. La gara letteraria era riservata a donne migranti in Italia e con una giuria di scrittori stranieri e italiani chiamati a scegliere i testi più validi. Questa avventura iniziata a Bologna nell’aprile del 2006, è una tra le ultime nate di un fenomeno che sta ormai contagiando gli scaffali delle librerie italiane, si fanno concorsi, riviste, pagine letterarie ad hoc per qualcosa che è stato etichettato dai media e dall’accademia come letteratura italiana della migrazione. Come definirla questa letteratura? Chi è dentro? Chi è parzialmente fuori? Se dovessimo girare la risposta alle 22 giovani donne del concorso Scritture circolari probabilmente non avremmo una risposta esauriente ad una domanda posta in questi termini. Megi, Fatima, Alketa, Miwakom Majlinda potrebbero semplicemente rispondere come Gloria Anzaldúa faceva per la propria scrittura, cioè che:

dalle dita, mie piume, inchiostro nero e rosso cola sulla pagina. Escribo con la tinta de mi sangre. Scrivo in rosso […] Ogni giorno, combatto il silenzio e il rosso. Ogni giorno, mi prendo la gola e spremo192.

Per Gloria il dolore è una rana che esce fuori dalle fessure del cervello. È quello che deve raccontare, il suo malessere. Ma a volte non ha la forza e vede pezzi di sé sparsi per tutti i suoi dintorni. Ma quel lavoro di spremitura, lavoro di dolore e scavo, è necessario per se stessa e per gli altri. Alla fine la Anzaldúa dirà che:

sento come se stessi creando il mio stesso viso, il mio cuore-un concetto nahuatl. La mia anima si fa atto creativo193.

Magi, Fatima, Alketa, ecc. non sono scrittrici professioniste, ma anche loro avevano rospi da espellere, rospi che spuntavano paurosi dagli interstizi della ragione. Queste lame conficcate nel petto hanno portato così delle giovani donne a ritagliarsi

191 http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/index.php?id=6&sezione=1&idnews=0-42 192 Anzaldúa G., Terre di confine/La Frontera, Palomar, Bari, 2000, p.113.

un momento della giornata per la scrittura. Prendendo una penna in mano o battendo freneticamente sulla tastiera di un computer si rigeneravano ad una nuova vita. Ora i loro testi semplici, ma taglienti sono stati raccolti in una antologia a cura dell’ideatrice del concorso, Patrizia Finucci Gallo, con il titolo Io non mordo, ve lo giuro. Storie di donne immigrate in Italia194. Nel Bel Paese le antologie di questo tenore sono aumentate. Abbiamo così grappoli nella sabbia, pecore nere, italiani per vocazione, impronte, amori bicolori. Titoli forti, ma anche provocatori. Parole scritte nel sangue che vogliono sottolineare l’umanità di un mondo che per molti versi è stato considerato invisibile, un po’ superfluo o se vogliamo usare una bella intuizione di Zygmunt Bauman vite di scarto195. Nessuno vuole essere uno scarto in questa società, ognuno vorrebbe essere protagonista della propria vita, della propria essenza, ma la società globalizzata in cui ci è toccato vivere spesso rema dalla parte opposta. L’80% del mondo vive con meno delle risorse consumate dal 20% ricco. Ma poi se indaghiamo è in quel ’80% che si trovano tutte le risorse dal petrolio alla bauxite. Non torniamo su temi già trattati in precedenza. Ma questo squilibrio economico- sociale si traduce anche in uno squilibrio della rappresentazione. Nell’epoca del progresso e dello sviluppo avranno il posto in palcoscenico solo coloro che questo sviluppo e progresso fanno già parte. Però questo gruppo è minoritario, non rappresentativo di quella massa che dal cosiddetto sviluppo è fuori196.

194 Finucci Gallo P. (a cura di), Io non mordo, ve lo giuro. Storie di donne immigrate in Italia, Perdisia,

Bologna, 2006.

195 Bauman Z., Vite di scarto, Laterza, Bari-Roma, 2005.

196 Nella Grecia classica non si pensava che il progresso potesse essere applicato alla società della polis. Per quasi tutti i filosofi della Grecia antica l’idea di un continuo e incessante miglioramento del

vivere umano era peggio di un paradosso, qualcosa di non applicabile alla società e di fatto impossibile da ottenere. L’umano per i greci era fortemente legato al suo essere naturale e alle sue tappe. Si attraversavano l’età. La nascita, la crescita, il fulgore, il decadimento e la scomparsa. L’idea forte di progresso come la conosciamo oggi è frutto del pensiero positivista soprattutto di Comte.

Ordine e Progresso era il motto dei positivisti, motto che è stato ripreso da molti paesi del Sud del

mondo con conseguenze nefaste. Basti pensare che il grido positivista oggi è impresso in caratteri cubitali nella bandiera del Brasile. Il termine sviluppo come lo intendiamo oggi ha una data di nascita precisa. Il 20 Gennaio 1949. In questa data l’allora presidente degli Stati Uniti, Harry Truman parlò di missione da parte dei paesi sviluppati verso quelli sottosviluppati. L’aiuto era un dovere che doveva vedere gli Stati Uniti muoversi compatti verso quei paesi del Sud del mondo che ruotavano intorno al cosiddetto faro capitalista, opposto invece a quelli di chiara influenza sovietica. Questo aiuto di cui parla Truman in questa fase è il sigillo teorico di due piani che gli Stati Uniti stavano avviando in

Toni Morrison, la grande scrittrice premio nobel afroamericana,, in una sua intervista radiofonica disse che quando si vedeva rispecchiata nei personaggi neri del cinema di Hollywood si sentiva brutta197. In Toni Morrison c’è una forte resistenza a rispecchiarsi nei personaggi stereotipati e goffi della tradizione del primo cinema americano. I neri erano solo caricature di se stesse, sgraziate, goffe, brutte come appunto aveva detto la Morrison. La stessa resistenza però è assente nei più. Basti pensare al personaggio di Bigger in Native son di Richard Wright. Bigger va al cinema e nel vedere le immagini di una Africa ancestrale, donne e uomini nudi che si lanciano in una danza sfrenata, quasi non ci fa caso. È troppo abituato allo stereotipo su di se che non ha nessuna reazione. Un misto di rassegnazione e menefreghismo. Un po’ come l’attrice Hattie Mc Daniel contenta di aver vinto l’oscar per Mummy in Via col vento, rassegnata nell’essere subalterna, ma contenta come la scimietta dell’ambulante di ottenere un’arachide. Nella striscia a fumetti The Boondocks198,

Europa. Il piano Morgenthau e il piano di sovvenzioni (e non di prestiti) piano Marshall. In precedenza, proprio alla vigilia del termine del secondo conflitto mondiale, nel Giugno del 1944 a Bretton Woods si misero le basi per l’ecatombe dello sottosviluppo che oggi è sotto gli occhi di tutti. In questa ridente cittadina del New Hampshire si riunirono delegati di 45 paesi-. La motivazione era di evitare al mondo i tracolli economici del 1929. In quella sede si sancì la nascita di tutta una serie di vincoli finanziari internazionali che presero la forma di organismi ben precisi. L’FMI ossia il fondo mondiale internazionale, la Banca mondiale e il GATT ossia il General Agreement on tariffs and

trade, un accordo internazionale su tasse e commercio. Questo fu l’inizio di quella partitura nefasta

che fece diventare New York e Londra come centri economici per eccellenza, prevedeva inoltre un sistema monetario ancorato fortemente al dollaro e un sistema di cambi fissi fra il dollaro e le altre monete. Questa era una chiara manovra di accerchiamento delle forze capitaliste che vide nei più deboli vittime sacrificali. Cfr. Gallino L., Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Bari-Roma 2000; Shiva V., Terra madre: sopravvivere allo sviluppo, UTET, Torino 2002.

197 http://www.luminarium.org/contemporary/tonimorrison/toni.htm 198http://www.boondockstv.com/

The Boondocks è una striscia a fumetti opera di Aaron McGruder, fumettista afro-

americano .Boondocks significa sobborgo, luogo sperduto, L'espressione è in uso negli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale, dopo che i marines americani hanno importato il vocabolo dalle isole Filippine. La striscia è apparsa per la prima volta nell'aprile 1999 sul Los Angeles Times. In Italia è stata pubblicata su Linus. La striscia racconta, attraverso lo sguardo disincantato di due bambini afro- americani, gli avvenimenti contemporanei statunitensi con una sana dose di ironia. Huey e Riley Freeman sono due ragazzini che, per seguire il nonno che è andato in pensione, si trasferiscono dalle

Aaron Mcgruder, inserisce il suo protagonista Huey Freeman, in una scena abbastanza emblematica in questo senso. C’è una signora bianca wasp di questo quartiere residenziale bene dove il nonno e i suoi due nipoti si sono appena trasferiti. Loro sono i primi neri (nel corso della storia se ne uniranno altri) del quartiere. Quasi degli alieni. La vecchietta wasp ha degli occhiali spessi, un udito poco pronto a captare le parole. Forse non ci sente, forse non ci vuole sentire. Sta di fatto che dice a Huey “Giovanotto sei così adorabile che vorrei quasi portarti a casa con me”. Huey con la sua zazzera afro, il suo nome di battaglia, la sua corazza di cinismo dice solo “immagino” per poi aggiungere “E magari dovrei starmene buono buono a casa tua come in quelle sitcom anni 80’. EH? Ti sembro forse Gary Coleman o Emmanuel Lewis? Dovrei parlare slang per farti divertire ed essere il tuo cicciotello nero? Bé, ecco l’unico nero che non si lascerà demascolinizzare. Non sono il tuo cucciolo di negro. Capito?”. La signora wasp a tutta questa profusione di orgoglio identitario risponde “Cosa stellina. Non ci sento più tanto bene…”. A questo punto uno sconsolato Huey se ne va e dice “non importa”. Ma in realtà sappiamo che gli importa moltissimo.

La situazione così ben descritta da Aaroon Mcgruder è tipica del dialogo tra subalterni e potere. Si deve gridare, si devono versare inchiostro, lacrime, sangue. Le immagini che il subalterno, l’uomo del sud del mondo, il nero, l’indiano, il meticcio, il migrante si portano sul groppone sono immagini difficili da estirpare. Si rischia di perdersi in questo gioco di rappresentazione. Si è il mostruoso Calibano, l’innocuo Venerdì del Robinson Crusoe e la primitività colorata dell’Aida di Verdi. Come ben ci ha fatto notare Said è sempre l’impero a parlare del noi e a imporre le sue sovrastrutture. Quando Huey Freeman dice di non essere Gary Coleman e di non essere un prodotto da sitcom rivendica un suo essere completo. Non è un pagliaccio. Gary Coleman un po’ si. Un pagliaccio globalizzato, infatti la serie Il mio amico Arnold (in originale Different Strokes, andata in onda dal 1976 al 1986) ha fatto ascolti record quasi ovunque.

strade tumultuose di Chicago alla tranquilla provincia di periferia, nella cittadina di Woodcrest. Huey è un ragazzino di dieci anni votato al radicalismo nero, attacca molto spesso diversi personaggi pubblici quali il presidente G. W. Bush e il rapper Puff Daddy. Il fratello Riley invece sogna di diventare un criminale ed è attirato dalla sottocultura violenta delle periferie delle grandi metropoli americane.La striscia è ricca di note e di sottotesto per dar modo di comprendere tutti i riferimenti (soprattutto alla realtà complessa degli afro-americani).

Spesso la descrizione equivale ad un silenzio ad una rappresentazione. Basti pensare agli algerini che muoiono nella peste di Camus. Lo scrittore pur essendo nato in terra algerina, è intriso di spirito coloniale, contano solo i pied-noir, le loro morti. Gli algerini quasi non hanno peso nella vicenda. Invisibili. La loro utilità è nel tenere in piedi i meccanismi della colonia, gli interessi dell’impero. Lo stesso esempio lo si potrebbe fare anche con il romanzo Mansfield Park di Jane Austen. L’autrice riscoperta recentemente dal cinema hollywoodiano come eroina per eccellenza del romanticismo posticcio, romantica non lo era poi molto. O per meglio dire era una donna di cui sappiamo veramente poco, ma dalle cui parole sono visibili il pragmatismo e l’estrema praticità del suo tempo. I matrimoni romantici della Jane Austen nazionale non sono mai quello che possono apparire ad una prima lettura, certo le ragazze sono belle e i giovani aitanti. Ma le mamme devono sistemare le figlie zitelle e senza rendita,. E come in Orgoglio e pregiudizio anche riscattare la casa paterna che rischia di andare a un nipote crudele. Quindi sono da unire rendite, capitali, più che cuori e serenate. Letta sotto quest’ottica Jane Austen, ma come lo sono anche Defoe, Conrad, ma anche il predecessore Calibano di Shakespeare sono persone che vivono nell’ottica del proprio tempo. E nel tempo della Austen era impossibile che mancasse la dimensione coloniale. Questo ce lo mostra con estrema chiarezza Edward Said nel saggio dedicato all’autrice inglese nel preziosissimo Cultura e imperialismo. In Mansflield Park la Austen tra le righe mostra al lettore (che condivide con il lettore una certa Weltanschauung) che la vicenda non ha ragione di essere senza la presenza sempre implicita delle colonie, di Antigua. Said dirà a proposito:

Torna utile che i possedimenti imperiali si trovano laggiù, anonimi e collettivi, quanto le masse escluse […] di lavoratori a tempo determinato, di impiegati part-time, di artigiani stagionali; la loro esistenza ha sempre una certa importanza, ma non i loro nomi e le loro identità; essi sono fonte di profitto senza essere mai completamente presenti […] Robinson Crusoe è virtualmente impensabile senza una missione coloniale che gli permetta bdi crearsi un nuovo mondo in luoghi lontani e selvaggi dell’Africa, del Pacifico e dell’Atlantico199.

199 Said E.W., Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente,

In Mansfield park la parola Antigua è nominata appena una dozzina di volte un niente se pensiamo che il romanzo della Austen è costituito da più di duecento pagine. Le vicende di Fanny, dei Bertram, dei Crawford però non avrebbero un senso senza quella parola Antigua. Da lì dipendono i lussi, il tenore di vita, la loro stessa esistenza. Nel romanzo questo è talmente chiaro che non ha bisogno di essere esplicitato. È scontata Antigua, come lo sono le Indie, i Carabi, l’Africa. Senza l’Inghilterra non sarebbe se stessa. Sono parti del suo impero, quindi parti di se. Said dice:

L’utile possedimento coloniale dei Bertram può essere visto come una prefigurazione della miniera di San Tomé di Charles Gould in Nostromo o della imperial and west african rubber company dei Wilcox in casa Howard di Forster, o di quei luoghi ricchi di tesori, distanti, ma assai redditizi, presenti in Grandi speranze, ne il grande mare dei Sargassi di Jean Rhys o in cuore di tenebra-tutti luoghi pieni di risorse da visitare, di cui parlare, da descrivere o da aprezzare per ragioni nazionali, per il benessere della madre patria200.

Fanny la protagonista del romanzo della Austen era approdata a Mansfield Park con le idee confuse su se stessa e sull’Europa. Non sapeva nemmeno bene mettere insieme i pezzi del puzzle Europa, figurarsi prefigurare Antigua. Ma il contatto con gli agi e i lussi la faranno partecipe del naturale senso di imperialità che è connaturato nel romanzo inglese del periodo dello scramble. Fanny non parlerà mai di Antigua e nessuno le spiegherà un granché su questa terra, a lei basta sapere che c’è, che ci siano i benefici portati dalla canna da zucchero, dagli schiavi, dai commerci, dalle rotte marittime. Con il tempo Fanny a questi agi non sa rinunciare. Abbastanza emblematico, ci mostra Said, quando la ragazza è costretta a tornare per poco dal padre. La povertà e la mancanza di una classe sociale in cui rispecchiarsi le diventano intollerabili. Tanto da notare che il problema non era lo spazio ristretto in cui si doveva trovare nuovamente a vivere per una parentesi, ma la confusione che regnava nella stanza e nella sua testa. Questo stato di confusione non è tollerabile ne per Fanny ne per la Gran Bretagna. Quindi le colonie sono tenute saldamente in mano, sfruttate, spogliate; perché non è tollerabile che ragazze come Fanny siano “confuse” o “frastornate”201. È la Gran Bretagna stessa che non vuol sentirsi confusa

200 Ivi, p.119. 201 Ivi, pp.87-136.

o frastornata. Antigua quindi è necessaria per evitare ogni confusione. Necessaria a qualsiasi prezzo e con qualsiasi mezzo. Quindi chi trae benefici dal benessere coloniale deve solo scegliere la strada del silenzio. Umanamente molte cose intollerabili diventano tollerabili. Said parla nel suo Cultura e imperialismo di paradosso della Austen, qualcosa che l’ha colpita nel profondo, come proveniente da quel mondo subalterno che viene impunemente scippato del suo sé e della sua dignità. La scena emblematica che fa gridare “paradosso” a Edward Said e una chiacchierata tra Sir Thomas e Fanny riferita da quest’ultima al cugino. Fanny spiega come avesse fatto una domanda a Sir Thomas sulla tratta degli schiavi. Non ci fu risposta da parte di Sir Thomas. Fanny informa il cugino dicendogli che “c’era un tale silenzio”202. Non si parlava di colonie. Di Sud del mondo. Di subalterni. Nominarli significa dare loro dignità. O peggio legittimità. Per molti nominare equivale a dare voce alle proprie paure.

Se questo valeva per Camus nella Peste vale in un certo senso per il regista Ridley Scott nel film Black hawk Down. Il film narra di una operazione di peacekeeping in Somalia, un episodio che di pace aveva poco e di guerra invece molto. Lo scontro tra i marines americani e miliziani somali di Aidid aveva lasciato sul tappeto sabbioso di Mogadiscio moltissimi morti, centinaia di somali e diciotto americani, con un morto anche di metallo, il famigerato elicottero Black hawk che si frantumò miseramente con il suo carico umano. Una battaglia cruenta. I giornali all’epoca parlarono di vittoria morale somala. In realtà nelle guerre, specie quelle fratricide come la somala, nessuno è mai vincitore. Però dopo quella disfatta gli americani lasciarono la Somalia al suo destino e la missione Restore hope che era teoricamente cominciata sotto buoni auspici (forse) fallì miseramente inondata di sangue caldo e innocente. Fu un insuccesso. Il film di Ridley Scott, fedele a molta tradizione del cinema americano di guerra, da Patton generale d’acciaio a Dove osano le aquile, fa vedere un gruppo di giovani ragazzi “bamboccioni” immersi in qualcosa di più grande di loro, una guerra che nessuno dovrebbe combattere. Ma Ridley Scott è lontano dai toni di denuncia del Brian de Palma di Redacted, anzi Scott non fa denuncia, parla infatti di missione di pace. Quello che tuttavia ai fini del nostro discorso colpisce del film Black Hawk Down è l’assenza completa dei combattenti somali. Sono solo ombre senza storia, senza volto, senza sangue. Ombre che potrebbero essere già morte e di cui lo spettatore si disinteressa quasi subito Come gli algerini di Camus anche i somali non sono protagonisti della loro

tragedia203. È il senso di colpa o meglio quella vecchia inclinazione al saccheggio che ha relegato Antigua, l’Africa, i Caraibi, ma anche la vicina Irlanda nel silenzio. Questo silenzio non è destinato a durare.

Il terzo mondo prende la parola e ri-racconta la sua storia.

Cito nuovamente l’eroe delle strisce black Huey Freeman. Huey deve andare a scuola. Fa l’inventario di quello che si vuole portare (non quello che si deve portare. C’è una differenza sostanziale). “Allora vediamo se ho preso tutto per la scuola” e comincia ad elencare “The isis papers della dott.ssa Welsing, l’autobiografia di Angela Davies, I dannati della terra, Behold a pale horse….”, ma ha un dubbio, “ho come l’impressione di aver dimenticato qualcosa”. In effetti ha dimenticato il grande volume di storia World history, volume in cui probabilmente lui e la storia afroamericana (per non parlare di quella africana) non ci sono. Huey alla fine liquida la dimenticanza con un “vabbé probabilmente non è importante”. Di fatto i testi che Huey ha messo nella sua cartellina da scolaro per lui sono molto più importanti. Raccontano qualcosa di lui che nel grande testo di storia non c’è. Non è un caso che si porta dietro Fanon o the Isis paper che è un caposaldo della cultura black più estremista, testo che parla dell’annichilimento culturale dei neri. In un’altra striscia Huey torna in questa sua ansia di autorappresentarsi nel luogo del potere intellettuale

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