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I jiten, invece, erano segnati tra i caratteri e svolgevano varie funzioni: indicavano i joshi, i jōdoshi, le declinazioni dei verbi, o una parte della lettura kun; precisavano la lettura (es. se in kun o in on); marcavano i nomi propri di persona, luoghi, opere; eccetera.

Giappone con i kunten per facilitarne la lettura. Dopo aver segnato i kunten nel testo, si procedeva con la sua decodifica attraverso il kundoku. In seguito, durante il X secolo, s’incominciò a riscrivere il testo originale (sotenbon, 珵鑚) secondo il kundoku, una pratica nota come iten ( 珵). I testi riscritti sono detti itenbon e si diffusero in modo capillare giungendo all'apice della loro diffusione nel XII secolo, quando la quasi totalità dei kuntenbon era di questo tipo.

All'inizio i kuntenbon presentavano delle note sul contenuto scritte in kanji secondo l'ordine cinese con l'inserimento di segni fonografici (di dimensioni ridotte a destra dei kanji) per rappresentare le particelle funzionali della lingua autoctona. In seguito, durante il periodo Heian i kuntenbon si svilupparono e la pratica del kanbun kundoku si formalizzò.

Nel periodo Heian, il kanbun kundoku era praticato principalmente da due gruppi di persone distinti: dai monaci buddisti e dagli studiosi laici (soprattutto confuciani). Questi due gruppi inserivano i segni in modo differente: i monaci buddisti usavano gli okototen (e come già visto, ogni scuola aveva il proprio schema di riferimento), mentre gli studiosi laici (detti hakushike, 睚朸) sfruttavano i kaeriten, i kana e in minima parte anche qualche okototen. Inoltre, all'interno delle scuole buddiste c'era un'ulteriore divisione tra vecchie scuole e quelle nuove amidiste: le prime usavano solo il metodo classico degli

okototen, mentre le seconde preferirono kana e kaeriten. Durante il periodo Kamakura, gli okototen

iniziarono il loro declino, anche se in alcune scuole neoconfuciane rimasero fino alle porte del periodo Meiji.

Lo sviluppo dei kunten durante il periodo Heian è piuttosto corposo e si tende a dividerlo in tre fasi. In una prima fase (fino alla metà del per. Heian), i segni inseriti nel testo cinese erano semplici appunti in kanji di allievi di scuole buddiste. Non seguivano regole definite, quindi le annotazioni erano libere, subivano continue sperimentazioni e, cosa importante, chi le scriveva usava un linguaggio a egli contemporaneo. Molti vocaboli appuntati, infatti, sono termini arcaici e non di facile interpretazione. Inoltre, i kunten erano poco visibili. In una seconda fase (Heian medio, dalla seconda metà compresa fino al periodo Insei), ai kanji iniziarono a essere affiancati altri sistemi: i man'yōgana e gli okototen. I

man'yōgana, durante il medio periodo Heian, si uniformarono e visto il loro largo uso furono impiegati

anche come kunten per segnare la lettura dei caratteri (furigana, 蔆槻隣). In seguito, i man'yōgana furono sostituiti da hiragana e katakana, e infine fu usato unicamente il katakana. La tendenza generale era quella di utilizzare sempre meno man'yōgana, in favore di katakana e okototen. Durante questa fase, i kunten divennero più visibili con colori che risaltavano sulla carta (es. rosso vermiglio) e si incominciò a segnare i kana a destra del carattere, mentre i kaeriten alla sua sinistra. Nella terza e ultima fase (periodo Insei, ovvero il tardo periodo Heian) nacque l'esigenza sia delle scuole buddiste e sia dei letterati di uniformare il kundoku fissando delle regole per migliorare la fruibilità dei testi. Ormai il kanbun kundoku era diventato una pratica molto conosciuta e ampiamente usata, e aveva influenzato non poco la lingua autoctona. Infatti, questo sistema usava la lingua corrente, che era ovviamente più naturale e vicina per i giapponesi. Le parole erano lette spesso in kun, piuttosto che in on. Questo faceva sì che il testo scritto avesse una doppia codifica linguistica: se si consideravano le glosse, allora era letto in lingua autoctona, se s’ignoravano, era letto in kanbun. Questa sua doppia valenza non è da

sottovalutare, anche perché si basa sul concetto che una lingua straniera possa essere resa in lingua autoctona con la semplice aggiunta di annotazioni e seguendo delle regole ben definite e limitate. I giapponesi sfruttarono questa pratica per un lungo periodo di tempo anche prossimo a noi. Infatti, durante il periodo Meiji, quando si trovarono a dover studiare lingue come l'olandese, i giapponesi impiegarono la stessa strategia che secoli prima avevano adottato con il kanbun, ottenendo l'orandago

kundoku (士鹿執私 ), il kundoku dell'olandese, e l'ōbun kundoku (), il kundoku dei caratteri europei. Con il passare degli anni, le tecniche di studio delle lingue straniere cambiarono optando per modelli di apprendimento più innovativi.

Durante il periodo Insei, il kundoku si formalizzò sia nella struttura sia nella lingua. Tutti i caratteri del testo erano resi in lingua autoctona, anche quelli che non avevano un riscontro con essa e che di solito erano tralasciati. Questa pratica prende il nome di chikuji ( 數), mentre i caratteri funzionali che di norma non erano letti erano detti okiji ( 済數). Le frasi erano più corte, meno complesse. Si usavano scarsamente le forme onorifiche, i joshi, i jodōshi e i wago (in favore dei kango). Alcuni vocaboli (es.

katana, 始 祉 試 , suna, 旨 試 , bekarazu, 持 始 鹿 枝 , shikaredomo, 斯 始 鴫 詩 示 , moshi, 示 斯 ) ed

espressioni furono creati ad hoc per fare il kundoku del testo in kanbun e questo influenzò molto la lingua autoctona. Infatti, questo è uno dei motivi per cui il kundoku rafforzò il senso di ibridazione della lingua autoctona e di quella cinese, creando una sorta di giapponese sinizzato. La presenza di kana all'interno di testi puramente in kanji, inoltre, rendeva obsoleta la divisione rigida che c'era tra questi due sistemi di scrittura che prevedeva i primi esclusivamente nel wabuntai, mentre i secondi nel

kanbuntai.

Nei periodi successivi, il kanbun kundoku si diffuse anche tra il popolo, probabilmente perché non richiedeva livelli di istruzione elevati (non tanto per scrivere i testi, ma per leggerli). Inoltre, come il passaggio da un'epoca all'altra cambiava le situazioni politiche, sociali e culturali, anche il kanbun

kundoku subì delle mutazioni nel tempo, sebbene il suo lessico rimase quello del primo periodo Heian

(e come già visto, alcuni termini sono usati tuttora nella lingua giapponese moderna).

Il Ryōha shigen fu scritto nel periodo Edo, rispondendo a esigenze contenutistiche ed espressive diverse. Anche a livello linguistico, oltre che politico, sociale e culturale (vedi Cap. 1 e 2), in questo periodo ci si trova davanti a un'evoluzione che comprende la fonetica (es. /ei/ divenne [e:]; scomparve l'opposizione di /o:/ in [o:] e [!:]), la morfologia (es. affermazione del -nai come ausiliare negativo, di -ta per il passato; definizione di cinque coniugazioni verbali), il linguaggio relazionale (es. uso dei suffissi -

sama e -san dopo i nomi, e del prefisso o- anche con il verbo nasaru e con gli aggettivi) e il lessico (es.

neologismi sino-giapponesi come chazuru, 剤傘, fare il tè). Avviene il passaggio di testimone dal dialetto del Kantō a quello di Edo, che con il tempo subì l'influenza di altre varianti linguistiche diventando una lingua ibrida (in questo caso, tra dialetti e non tra lingua autoctona e kanbun). Le opere del gesaku contribuirono alla diffusione capillare di questa lingua (Edogo, ﹀胥 ), mentre nei terakoya l'influenza dei kango restava ancora forte, anche se questi ultimi erano ormai corrotti dal popolo meno colto e quindi non avevano più la propria forma originale. Furono introdotti anche vocaboli dall'olandese (come già visto).

Il kanbun kundoku del periodo Edo, quindi, non poteva essere uguale a quello delle epoche passate. Vediamo alcuni aspetti salienti.

I kunten moderni sono divisi in kaeriten, okurigana, e kutōten, le cui funzioni sono già state spiegate in precedenza. Si ricorda che i kaeriten sono segnati a sinistra dei caratteri, mentre gli okurigana a destra. I kaeriten sono di vari tipi e dettano le regole del riordino della frase. Tra di essi troviamo:

¥ reten, 鴫 珵 , che inverte l'ordine di due parole sequenziali (prende il nome dalla sua somiglianza con il re, 鴫, del katakana);

¥ ichiten, 瀧珵, e niten, 忠珵, (primo e secondo) che indicano l'ordine in cui vanno lette la parole non sequenziali; a volte possono essere seguiti numericamente da santen, 濯珵, e

shiten, 嗔珵, (terzo e quarto), anche se molto rari;

¥ a santen e shiten, si preferisce usare jōten, 琢珵, e geten, 託珵, (sopra e sotto) con la medesima funzione; talvolta si trova anche chūten, 嘆珵, (dentro, in mezzo) che si pone, nell'ordine di lettura, in una posizione intermedia tra jōten e geten;

¥ con la stessa funzione di jōten, chūten e geten, si possono trovare, anche se in casi molto rari, le combinazioni kō otsu hei ten, 弛脱珵, e ten chi jin ten, 徃坿朝珵;

¥ un altro kunten è una combinazione in verticale tra ichi e re, 瀧鴫珵, o jō e re, 琢鴫珵, e indica che i caratteri vanno prima invertiti e poi ordinati;

¥ un trattino verticale tra due caratteri indica che questi vanno letti come un'unica parola (di solito titoli di opere, nomi propri di persone, luoghi, ecc.).

Le regole del riordino prevedono che si parta leggendo i caratteri senza kunten, fatta eccezione per quelli con il reten che subiscono un'immediata inversione, fino a quando si trova l'ichiten. Dal carattere con l'ichiten in poi si seguono i kunten (es. ichiten, niten, jōten, chūten, geten). Si finisce leggendo gli eventuali caratteri senza kunten rimanenti. Bisogna fare attenzione però a vari altri elementi che potrebbero modificare l'ordine e il senso della frase. Prima di tutto, si deve controllare se c'è il trattino di legamento tra due o più caratteri e se sono presenti dei kutōten. Infatti, la virgola spezza la frase: la proposizione A va letta per prima secondo il proprio ordine, e poi si passa alla proposizione B. Altri elementi ai quali fare particolare attenzione sono i già citati okiji, che seguono altre regole e non sempre sono da leggere, e i saidoku moji (冨 貭數). Questi caratteri vengono letti due volte, ovvero la loro resa in lingua autoctona richiede una doppia lettura.

Vediamo un esempio pratico tratto dal Ryōha shigen (vedi fig. 17, p. 72). Sulla destra ci sono i

katakana che oltre a indicare l'okurigana (賜腰旨腰賜腰叱), sono stati impiegati anche per segnare il furigana di due kanji (斯辞腰孜詞). Sulla sinistra possiamo notare sia la coppia ichi e ni ten (l'ichiten è

dopo 宙, mentre il niten dopo 琉), sia tre tratti verticali (tra 顚 e , e 錄, 断 e 宙). Bisogna, però, fare attenzione a 断 che in questo caso ha valore di specificazione e quindi si rende in 賜 (no) che è legato proprio al kanji che lo precede. Riassumendo, prima si leggono 顚 , poi si passa a 錄, si salta 断

(che in realtà è reso con l'okurigana dopo il kanji che lo precede), si prosegue con 宙 e si torna indietro a 琉.