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Capitolo II – Intellettuali allo specchio: (auto)rappresentazion

2.3 Il grido d'angoscia dell'intellettuale: la crisi dell'impegno nel cinema di Nann

2.3.8 I finali: un'apertura alla speranza?

Eccezion fatta – e si tratta, lo diciamo fin d'ora, di eccezioni significative – per Palombella rossa e Habemus Papam, tutti i film del macrotesto morettiano presentano una conclusione della vicenda narrata tendenzialmente positiva; non si tratta chiaramente di un lieto fine vero e proprio, ma di un finale dal sapore dolceamaro che sembra aprire alla speranza.

Abbiamo già visto come Sogni d'oro, pur presentando in chiusura la metamorfosi mostruosa del protagonista, presenti pochi minuti prima della fine una prova di apprezzamento dei film di Apicella da parte del pubblico di massa; anche i due film precedenti, l'Autarchico ed Ecce Bombo, si concludevano rispettivamente con un tentativo di riconciliazione col pubblico e con il gesto di umana solidarietà dimostrato da Apicella a Olga. Persino nei primi due capitoli di quella che abbiamo definito 'trilogia del crollo dei valori' – e che, come detto, rappresenta forse la fase disillusa dell'opera morettiana – il finale positivo è

inaspettatamente presente e proprio perché inserito in contesti profondamente malinconici sembra risaltare di più.

Nel finale di Bianca, il lungometraggio più tragico insieme a La stanza del figlio, non fosse altro che per la prepotente presenza della morte tra le forze motrici del plot, Apicella sceglie di confessare la responsabilità dei delitti al commissario interpretato da Roberto Vezzosi sia per proteggere l'amico Siro, ingiustamente sospettato, ma anche e soprattutto perché nel corso della narrazione si è creato un legame empatico con l'investigatore; può sembrare poca cosa a fronte della drammaticità della trama, ma in un film che vuole narrare l'inevitabile dissoluzione dei rapporti interpersonali questo barlume di riconciliazione simpatetica ha, ci sembra, un valore da non sottovalutare.

La messa è finita segue ancora questa impostazione e la rafforza: pur mancando molti dei suoi obiettivi – la riconciliazione tra i genitori, resa impossibile dalla morte; quella del suo gruppo di amici, come mostra la sorte dell'ex terrorista Andrea – Don Giulio riesce a celebrare un ultimo, simbolico matrimonio e appare fiducioso riguardo alla nuova vita da missionario che lo aspetta in Patagonia.

La primissima eccezione è costituita, vi abbiamo già fatto cenno, da Palombella rossa: la partita di pallanuoto e la partita del marxismo con la Storia si è conclusa con un risultato inequivocabilmente negativo per il dirigente comunista Apicella; cercare una nota di conforto nella riconquista della memoria risulterebbe, a nostro avviso, forzato. In compenso, se si vuole guardare alla produzione più 'politica' dell'autore, possiamo dire che tanto le vicende narrate ne Il caimano quanto quelle di Aprile si concludono con esiti di segno positivo; rispettivamente: la realizzazione del film e la nascita di Pietro avvenuta in simultanea con la vittoria dell'Ulivo.

Per concludere questa rapida rassegna: se in Caro diario c'è consonanza tra i toni allegri dei tre episodi e i rispettivi finali, il drammatico La stanza del

figlio rivela, al momento della conclusione, un'anima ottimista che difficilmente ci sarebbe potuti aspettare date le premesse presentate nel film. Il discorso opposto può essere applicato ad Habemus Papam, che pur trattando un tema di per sé pesante procede per quasi tutta la narrazione con toni da commedia tendenti all'assurdo tipicamente morettiano; lo spettatore non può quindi non rimanere spiazzato dinanzi alla desolante e desolata rinuncia al papato che chiude il film.

Il marchio della fabbrica morettiana, quindi, è la presenza di un finale amaro ma sostanzialmente lieto: nonostante le crisi, le peripezie, le terribili delusioni, le disavventure dell'impegno, l'intellettuale secondo Nanni Moretti sembra trovare ogni volta un nuovo motivo di speranza, un motivo per andare avanti, dritto lungo la sua strada. Le due eccezioni, Palombella rossa e Habemus Papam, sono interpretabili non come un segnale di rinuncia, ma semplicemente come un'accettazione amara, appunto, del fatto che le cose non sempre seguono la strada sperata e agognata: in entrambi i casi l'unhappy ending è determinato dall'affermarsi un processo storico su cui l'intellettuale ha uno spazio d'azione piuttosto limitato.

L'uomo di cultura impegnato, suggerisce Moretti, deve anche saper ammettere la sconfitta ma non per questo deve arrendersi: forse, ricordando Calvino, un mandato teso a cambiare radicalmente la società può diventare un peso eccessivo da tenere sulle spalle; ciò non vuol dire, però, che la società non possa comunque essere compresa e, in virtù di questa maggiore conoscenza delle forze che la regolano, affrontata più serenamente.

La riflessione sull'intellettuale presente nell'opera di Moretti, quindi, emerge una figura fortemente convinta della necessità della sua presenza all'interno della società; perché quest'esistenza appaia legittima, però, è necessario compiere un faticoso percorso autocritico teso in prima istanza a confermare alcune delle caratteristiche che abbiamo evidenziato nella parte iniziale del nostro

lavoro, ma soprattutto a sconfessare i dogmi – su tutti lo statuto di outsider e lo snobismo – che costituiscono il maggiore impedimento all'agognato tentativo di dialogo con la massa.

La principale accusa che Moretti rivolge accusa alla sua generazione è di conseguenza l'aver rinunciato a compiere davvero la riscrittura dei valori tanto ricercata negli anni delle proteste studentesche. La fantasia che secondo gli slogan sessantottini avrebbe dovuto contaminare il potere è stata rapidamente assimilata dal sistema: non è un caso se le parole rivolte a D'Alema, con un passato da leader del Movimento, sono rimaste il J'accuse più celebre del regista; alla critica politica se ne accompagna però fin dall'inizio una a quella intellettuale, che già negli anni anni d'esordio di Nanni Moretti si rinchiudeva autarchicamente nei circoli e, come avremo modo di osservare meglio nel prossimo capitolo, nei salotti, rinunciando a impostare un dialogo costruttivo ed educativo con la massa.

Abdicando così, di fatto, al ruolo di guida della società, non rassegnandosi al suo ruolo di padre, l'intellettuale ha lasciato la massa-figlio priva di un'educazione che le consentisse di gestire i suoi desideri, come accenna sempre il regista romano ne La sconfitta.177 Questo si è tradotto conseguentemente nella

declinazione aberrante dei valori che si era tentato di affermare come vedremo nel prossimo capitolo, dedicato alla rappresentazione del radical-chic.

Capitolo III – Da Tom Wolfe al salotto romano: costruzione del