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Finanziamento corrente lordo nominale e reale in % della spesa sanitaria, anni 2001-

SEZIONE III – LA CIRCOLARITA’ DELLA RICERCA: ANNOTAZIONI E

Grafico 5. Finanziamento corrente lordo nominale e reale in % della spesa sanitaria, anni 2001-

Fonte: elaborazione CREA Sanità (Consorzio per la ricerca economica applicata in sanità) dell’Università di Roma “Tor Vergata” su dati del Ministero della Salute e della Corte dei Conti.

Pertanto, il periodo congiunturale che stiamo vivendo rende il dibattito su tali questioni quanto mai attuale e “induce ancor più urgentemente ad interrogarsi sull’interezza delle politiche sociali, ovvero sul proprio concretizzarsi in reale fatto legislativo, politico, amministrativo” (Merler et al., 2012,p. 57). Una necessità che risulta ancor più indispensabile se si pensa al fatto che “l’emergere del welfare mix ha costituito, sotto il profilo della regolazione del sistema di produzione dei servizi, un coagulo di contraddizioni”6 (Fazzi, 1997, p. 82), non pienamente risolto nemmeno dai più recenti tentativi di riforma, i quali in sostanza si sono rivelati poco efficaci.

Nelle pagine che seguiranno entreremo più nel merito di alcuni principi cardine che hanno caratterizzato fino ad oggi la riforma del tradizionale modello di welfare e vedremo in che modo essi sono stati concretamente attuati nel nostro Paese. Tali principi

6 Una delle critiche maggiori al welfare mix è relativa al fatto che il principio di regolazione del sistema è

ancora rappresentato dal modello di mediazione politica (D’Amico, 2004). Ciò porta a concepire il no profit come subalterno al soggetto pubblico, una visione che non trova più rispondenza “nell’operare concreto di organizzazioni chiamate a sostituire l’intervento pubblico in termini sia di continuità che di professionalità delle prestazioni piuttosto che a svolgere una funzione di tipo meramente aggiuntivo-compensativo” (Fazzi, 1997, p. 84; Donati, 1996).

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rappresentano le parole chiave di questo lavoro di ricerca, quindi possiamo considerarli dei veri e propri “concetti sensibilizzanti”. Affronteremo le varie questioni in gioco attraverso paragrafi distinti e separati, una suddivisione utile esclusivamente ai fini espositivi, che non segue alcun ordine logico o cronologico, né è indicativa di una separazione concettuale tra paradigmi che in realtà sono profondamente ed inestricabilmente collegati tra loro.

2.3 Il paradigma manageriale e l’evoluzione del concetto di “pubblico”

A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, in gran parte del mondo sviluppato si sono affermati nuovi equilibri politici di stampo conservatore, che hanno progressivamente imposto un radicale mutamento di rotta nella gestione della cosa pubblica secondo principi di ispirazione neoliberarista. Si pensi, ad esempio, ai governi Reagan e Thatcher in USA e in Inghilterra o alle direttive emanate in quegli anni dall’UE.

La svolta neoliberista, incarnata dal movimento di opinione e pratiche conosciuto come New Public Management (NPM)7, ha sottoposto gli Stati nazionali all’approvazione, in un quadro sostanzialmente bipartisan, di progetti di de-regolazione dei mercati e politiche di tagli e rientro del debito pubblico. Quello manageriale è stato per lungo tempo un paradigma egemone nell’ispirare i processi di riforma amministrativa dei paesi occidentali (Capano, 2002), configurandosi al contempo come conseguenza e come input di una fase di sviluppo capitalistico basato sulla globalizzazione della produzione e dei mercati e su una imponente innovazione tecnologica. Un simile contesto ha sottoposto a forti tensioni competitive tutti i sistemi economici nazionali, facendo emergere come ostacolo e come fattore improduttivo il ruolo dello Stato sociale e, più in generale, l’intervento pubblico nell’economia. In un periodo storico in cui il mercato godeva di rinnovata legittimazione, la managerializzazione si è imposta contemporaneamente come ideologia, come politica pubblica e come sistema di misure organizzative (Battistelli, 2002). Alla crisi di legittimità che dagli anni ’80 ha investito la classe politica di formazione “tradizionale”, esposta a una sensibile perdita di peso e di centralità del proprio ruolo nel processo decisionale pubblico (Girotti, 2007), il paradigma manageriale ha contrapposto una retorica apolitica ispirata agli obiettivi di economia ed efficienza (Olsen, 1972), realizzando, con la fine del XX secolo, una vera e propria depoliticizzazione dei rapporti sociali e delle funzioni istituzionali (Battistelli, 2002).

I pilastri fondamentali dei tentativi di riforma ispirati al NPM sono stati due: la privatizzazione e l’aziendalizzazione (D’Amico, 2004). Con il primo termine si deve intendere la politica di dismissione delle imprese pubbliche e delle partecipazioni statali nel più ampio quadro di una riduzione dell’intervento diretto nell’economia. Per aziendalizzazione, invece, dobbiamo intendere il processo di trasformazione di enti pubblici in aziende dal regime giuridico non privatistico, ma dotate di autonomia

7 Prende ufficialmente avvio con l’approvazione nel 1993 della legge statunitense Government Performance

and Result Act, finalizzata a rinnovare i metodi gestionali della pubblica amministrazione. Ad ogni modo, la diffusione del paradigma manageriale viene fatta risalire già al decennio precedente (anni ’80).

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amministrativa, contabile e finanziaria, con l’obiettivo di assicurare una gestione più agile ed efficiente dei servizi di interesse pubblico. Nell’affermazione del paradigma manageriale è stato decisivo l’inasprirsi della critica al modello burocratico e ai suoi effetti perversi (cfr. cap.1), nella convinzione che un’amministrazione pubblica troppo lenta e dispendiosa, lontana dalle esigenze dei cittadini e poco attenta alla qualità dei servizi, costituisse un ostacolo per la ripresa dello sviluppo socio-economico.

In sostanza, con il managerialismo si è diffusa l’idea di trasferire alla p.a. strumenti sperimentati nel settore privato, per incrementarne la produttività e il rendimento8 attraverso la combinazione tra i principi di legalità (tradizionalmente enfatizzati nelle amministrazioni pubbliche e, in particolare, in quelle italiane) e quelli di efficacia ed efficienza. Quest’ultimo concetto, sviluppato nell’ambito degli studi sulle organizzazioni produttive private concepite come “sistemi razionali”, rappresenta una delle parole chiave dell’approccio manageriale e va inteso come il rapporto tra il risultato dell’azione organizzativa e la quantità di risorse impiegate per ottenere quel dato risultato. In tal senso, l’efficienza aumenta al diminuire dell’ammontare dei mezzi utilizzati, a parità di risultato raggiunto. Essa, inoltre, applicata all’azione amministrativa, presuppone il principio della razionalità economica (c.d. economicità), in ossequio al bisogno di pareggiare i conti tra entrate e uscite e di evitare che il debito pubblico cresca oltre un certo limite.

C’è da aggiungere che, nel contesto del NPM, il valore guida dell’efficienza si arricchisce di nuovi contenuti facendo emergere la centralità di un altro principio, quello della qualità. Una qualità non, però, genericamente intesa, ma definita sulla base del gradimento dei cittadini, che usufruiscono dei servizi erogati, e sottoposta a misurazione. Da qui la diffusione nella cultura delle pubbliche amministrazioni di tematiche come il marketing dei servizi, la certificazione, la customer satisfaction, l’analisi e la ricerca delle best practices. E da qui anche la diffusione di un’attenzione verso i temi e le tecniche della valutazione. Inevitabile, allora, che i cittadini destinatari dell’azione amministrativa non siano considerati più solamente come utenti, ma come veri e propri clienti, una differenza semantica che rinvia ad un rapporto alla pari.

I presupposti per l’affermazione del paradigma manageriale derivano da un set di proposte, relativamente coerenti, che troveranno applicazione nelle politiche di riforma europee degli ultimi decenni (Osborne e Gaebler, 1995; Jones e Thompson, 1997; Meneguzzo, 1999). Questi, nello specifico, sono:

• la ridefinizione dei confini tra Stato e mercato, privatizzando ed esternalizzando la produzione dei servizi pubblici e la definizione delle politiche.

• Il ridimensionamento degli apparati burocratico-amministrativi (downsizing). • Il decentramento del livello istituzionale, con una delega delle funzioni statali a

livelli organizzativi inferiori (sussidiarietà verticale). Il decentramento è anche relativo alla dirigenza, in una logica di responsabilizzazione dei collaboratori e di

8 Il rendimento nelle istituzioni pubbliche consiste nella capacità di rispondere alle sfide poste dall’ambiente;

di fornire soluzioni a bisogni, domande o opportunità insoddisfatte; di dare risposte a problemi di rilevanza collettiva.

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avvicinamento dei centri di decisione ai destinatari (crescita della trasparenza e del controllo).

• La riduzione dei vincoli giuridici e delle regole operative, attraverso cui il settore pubblico svolge le sue funzioni e raggiunge i suoi obiettivi (deregulation). In altre parole, le norme, le regole e le procedure amministrative non devono compromettere il conseguimento delle finalità strategiche e operative.

• La trasformazione degli apparati da un modello organizzativo gerarchico/funzionale ad un modello divisionale (cfr. cap.1), con la finalità di depoliticizzare i processi di messa in opera dei programmi governativi.

• La separazione tra politica e amministrazione: alla dirigenza politica spettano compiti di indirizzo, regolazione e controllo; mentre alla dirigenza amministrativa compiti di gestione. Questa prospettiva comporta una mutua assunzione di responsabilità tra decisori politici e funzionari amministrativi (cfr. cap. 3). Viene, altresì, auspicata la creazione sia di organi per la progettazione, sperimentazione e valutazione di nuovi programmi politici, sia di agenzie esecutive, responsabili dell’attuazione di tali programmi. Si parla, in proposito, di decentramento organizzativo dei compiti di gestione: dagli apparati ministeriali, a guida politica, si passa ad autonome agenzie esecutive, affidate alla guida di manager responsabili dei risultati e del budget (agencification).

• L’adozione di parametri ed indicatori cui riferire le attività amministrative e quindi la valutazione delle performance e dei risultati, da diffondere attraverso un costante processo di accountability 9.

• L’introduzione nella pubblica amministrazione di metodi di contabilità analitica (controllo dei centri di costo) e di strumenti di controllo di gestione (monitoraggio del rendimento).

• La diffusione di strategie di direzione per obiettivi (management by objectives), una metodologia basata sulla definizione, da parte del manager, di obiettivi ben precisi da raggiungere in tempi predefiniti e da valutare successivamente in termini di risultati raggiunti. La legittimazione dell’amministrazione non promana più dal potere politico, ma dalla capacità di produrre risultati, dalla quantità e qualità degli outcomes.

• L’adozione di tecniche di benchmarking (assunzione di un modello di riferimento cui comparare l’attività aziendale).

9 Il termine accountability, che non ha un corrispondente esatto nella lingua italiana, viene definito da

Bovens (2007) come una relazione tra un attore ed un forum al quale l’attore ha l’obbligo di spiegare e dare conto della sua condotta; il forum può interrogarlo ed emettere un giudizio, e l’attore può essere soggetto a conseguenze. Si tratta, dunque, di una dimensione strategica che si riferisce all’assunzione di responsabilità verificabile attraverso un impegno a rendere conto delle attività svolte e dei risultati ottenuti. E’ interessante notare che questo criterio può funzionare anche come un potente fattore di distorsione e di selezione a priori del campo delle responsabilità (Bifulco e de Leonardis, 2005): l’amministrazione pubblica può, infatti, limitarsi a render conto di quanto si presta a essere computato solo in termini di output e di costi sostenuti (Freedland, 2001).

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• L’attenzione verso le risorse umane: la persona non è più intesa come ingranaggio di una macchina, bensì come una risorsa dell’organizzazione da considerare in tutte le sue dimensioni fisiche e psichiche. Da qui un’attenzione al clima organizzativo, agli stili della leadership, in una logica di incentivazione della produttività e di riconoscimento del merito.

Anche se caratterizzato da questi elementi costanti, il paradigma manageriale verrà declinato in ogni singolo Paese a seconda delle sue specificità strutturali e culturali, legate alle caratteristiche dell’arena amministrativa e ai contenuti del paradigma dominante nel settore amministrativo di riferimento.

Per quel che riguarda i servizi socio-sanitari, la tendenza alla riduzione della fornitura pubblica diretta può in generale seguire due modelli principali (Ascoli e Ranci, 2003). Da una parte, può essere finalizzata ad aumentare la domanda privata di servizi, con l’obiettivo di bloccare l’espansione pubblica e di accrescere la libertà di scelta dei cittadini (modello guidato dalla domanda). Dall’altra parte, può avere l’obiettivo di privatizzare gran parte delle funzioni di gestione dei servizi e potenziare l’acquisto, ad opera dei soggetti pubblici, di prestazioni fornite dai privati nell’ambito di rapporti di tipo contrattuale10 (modello guidato dall’offerta). In quest’ultimo caso, lo Stato mantiene gran parte delle responsabilità finanziarie, attivando meccanismi concorrenziali nelle procedure di trasferimento delle risorse al privato, e mantiene anche la titolarità delle funzioni di regolamentazione e di vigilanza. C’è da dire, però, che quando l’erogazione di servizi e prestazioni è affidata a fornitori privati, la relazione tra il soggetto pubblico ed i cittadini perde rilievo e diventa indiretta (Bifulco e Vitale, 2005). Ciò di cui risponde l’attore pubblico finanziatore risulta essere solo l’equilibrio del rapporto tra domanda e offerta e la rispondenza delle prestazioni erogate dai fornitori a standard minimi prefissati. Perciò, non risponde dei contenuti dell’offerta, e a loro volta i destinatari hanno un controllo limitato sui beni e sui servizi che ricevono (Ascoli e Ranci, 2003; Vitale, 2005; Crouch et al., 2001).

Nell’ambito dei servizi sociali, non solo si ha a che fare con oggetti immateriali (Olivetti Manoukian, 1998) di pubblica utilità, ma anche con beni relazionali (Donati e Solci, 2011) i quali hanno come destinatari individui con problematiche e fragilità. Per questo, la valorizzazione delle virtù della competizione – tra cui l’efficienza, la diversificazione di beni e servizi, la libertà di scelta del consumatore – richiede una maggiore attenzione alla regolazione pubblica delle transazioni, che si concretizza contrastando eventuali barriere di accesso al mercato evitando il rischio di situazioni di tipo collusivo, rimediando alle asimmetrie informative che affliggono il rapporto di

10 Troviamo in questo quadro una varietà di dispositivi contrattuali, tra cui: appalti e convenzioni tra

amministrazioni e fornitori riguardo a servizi e prestazioni, oppure contratti basati sull’offerta competitiva tra fornitori autorizzati, i quali costituiscono il sistema rispetto al quale i cittadini possono esercitare la loro libertà di scelta. Un esempio di questo sono i vouchers socio-sanitari introdotti nel 2000 in Italia. Un’altra tipologia di contratti sono quelli che si inscrivono nella cornice della partnership fra diversi attori, pubblici e privati e riguardano sia la fornitura di beni e servizi, sia programmi e progetti inerenti problemi complessi (Bifulco, Vitale, 2005).

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scambio tra fornitore e utente, definendo e verificando gli standard di performance (Bifulco e Vitale, 2005).

L’innesto di culture privatistiche nella pubblica amministrazione ha avuto per certi versi un impatto positivo. I punti di forza del modello possono essere rintracciati nella definizione di precise attribuzioni di competenze per i manager e i politici, nella responsabilità del dirigente rispetto all’impiego delle risorse, nell’attenzione verso il concetto di qualità e nell’orientamento verso gli obiettivi strategici e i risultati concreti. Tuttavia, diverse sono le criticità che le indicazioni manageriali portano con sé: per citarne alcune, possiamo pensare alla frammentazione istituzionale e al debole controllo politico esercitato sull’azione amministrativa, al rischio che il primato conferito al concetto di efficienza conduca ad una visione prevalentemente contabile e finanziaria dell’azione pubblica, alle possibili derive dirigiste e tecnocratiche, alla definizione di esternalizzazioni incongrue (Bertin e Fazzi, 2010). Rispetto a quest’ultimo tema, c’è da dire, inoltre, che i potenziali fornitori possono influenzare i soggetti pubblici decisori, condizionandone la neutralità; possono aggregarsi tra loro, assumendo comportamenti di tipo collusivo, al fine di indurre il decisore a sostenere i propri progetti o i propri interessi (Bifulco, 2006). Il soggetto pubblico potrebbe, altresì, avere difficoltà nella valutazione dei privati per un’incompletezza di informazioni derivante dalla stessa natura relazionale delle prestazioni sociali, difficilmente valutabili con parametri oggettivi, che tendono a far prevalere le procedure e le valutazioni standardizzate, a discapito della complessità (Fargion, 2009). Infine, dal punto di vista dei destinatari delle politiche sociali, le esternalizzazioni (in particolare nel modello guidato dalla domanda) possono favorire, come abbiamo appena visto, l’enfasi sulla libertà di scelta del consumatore al punto da escludere e marginalizzare chi non ha gli strumenti e le possibilità adeguate per effettuare le proprie scelte.

Nella realtà concreta, le relazioni pubblico-privato assumono molteplici configurazioni e possiamo ritrovare forme di condivisione e di co-responsabilità su obiettivi e interessi collettivi, ma anche forme di riduzione marcata delle funzioni pubbliche di indirizzo e scelta politica. Nel momento in cui viene meno il monopolio statale nella produzione di beni e servizi per la collettività (e nelle decisioni relative), risulta necessario ridefinire la nozione di “pubblico”, non più identificabile nell’equazione tipica del welfare state tradizionale in cui il concetto in esame era uguale a quello di stato (de Leonardis, 1997). Sullo sfondo del progetto neo-liberista di “ritiro dello Stato” e di trasformazione del suo ruolo regolativo, si generano così inevitabili preoccupazioni sul come continuare a difendere e tutelare ciò che è comune, concetto non più riconducibile alla natura degli attori in gioco. Dobbiamo allora spostare l’attenzione alle interazioni, ai processi; ciò che è pubblico quindi non è dato, ma prende forma da processi nei quali un regime di azione diventa, se lo diventa, pubblico (AA.VV., 2006). Per dirla con le parole di Daniel Cefaï (2002, p. 70) “pubblico” sta ad indicare una forma di vita collettiva che “emerge attorno ad un problema nel momento stesso in cui lo costituisce. Degli attori individuali, organizzativi e istituzionali, si impegnano in uno sforzo collettivo di definizione della situazione percepita come problematica. Essi esprimono, discutono e giudicano opinioni; individuano problemi; entrano in dispute, polemiche e controversie; configurano giochi di conflitto,

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realizzano compromessi”. Ciò che è pubblico, dunque, ha una consistenza cognitiva poiché prende forma attraverso un’elaborazione a più voci, in cui sono in gioco forme di conoscenza, discussione e comunicazione e da cui emerge una definizione condivisa (Bifulco e de Leonardis, 2005). Nel tempo assumeranno anche una consistenza normativa, sia nel senso che sono materia di regolazioni, sia nel senso che contengono un riferimento di valore, incarnando il concetto di “ben-essere” per la collettività (ibidem). Alcuni studiosi (Gianformaggio, 1995; Bifulco e de Leonardis, 2005) hanno provato ad identificare gli aspetti che qualificano la nozione di pubblico, distinguendola da ciò che è privato. Tra gli elementi qualificanti troviamo: la visibilità pubblica, la validità universalistica, il riconoscimento di beni in comune e il principio di terzietà istituzionale.

Il ruolo di supplenza delle carenze e delle contraddizioni svolto dagli attori privati nell’area pubblica non può autorizzare ipotesi di deresponsabilizzazione delle istituzioni rispetto a compiti di indirizzo e controllo (D’Amico, 2004). Né tanto meno può autorizzare facili ottimismi circa la capacità del privato sociale di coniugare qualità ed efficienza meglio di quanto sappiano fare stato e mercato (Ranci, 1999). È necessaria così una forte azione del soggetto pubblico, che non soltanto si occupi di meccanismi classici come la redistribuzione del reddito e l’accesso al mercato dei beni, ma che sappia guidare la molteplicità degli attori in gioco all’interno di veri e propri networks organizzativi. È importante, infine, che il tutto avvenga in un quadro di rafforzamento delle condizioni generali di democrazia, rispetto alle quali il ruolo dello Stato stesso non può non essere decisivo. E non di una democrazia solo formale, fondata sull’esistenza di regole, ma di una democrazia sostanziale, fondata sull’esistenza di condizioni di base che rendono effettiva e reale la partecipazione di tutti (Sen, 1982).

2.4 Le ragioni e gli esiti del decentramento amministrativo

Come abbiamo visto nel capitolo 1, la nascita e lo sviluppo dello Stato moderno rappresentano un processo di centralizzazione politica, che ha permesso ai Paesi industriali dell’occidente la realizzazione della crescita economica, dell’integrazione sociale e di un certo grado di modernizzazione. La formazione dell’amministrazione pubblica centrale dello Stato è correlata a condizioni storiche specifiche (Mayntz, 1982), profondamente mutate con l’avvento del postfordismo. Potremmo dire che in seguito al compimento del processo centralizzatore dello Stato-nazione, si è manifestata la tendenza contrapposta a mantenere, o meglio a riconquistare, spazi decisionali autonomi, attraverso forme di decentramento politico, inteso come la delega di potere decisionale legale ai livelli inferiori di una struttura amministrativa gerarchizzata. Il decentramento amministrativo, invece, consiste nella delega non di potere decisionale, ma dell’esecuzione di compiti prestabiliti. Per comprendere l’importanza del fenomeno in esame, basti pensare al fatto che processi di innovazione e sviluppo trovano sempre più il proprio spazio di riferimento in dimensioni locali, piuttosto che nazionali, e quindi al riconoscimento che stanno ottenendo un po’ ovunque istanze di governo territoriale con l’adozione di nuovi statuti di decentramento e autonomia amministrativa (Rhodes, 1994).

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In realtà, le tensioni cui è sottoposto lo Stato contemporaneo sono duplici: accanto all’affermazione della dimensione locale, vi è quella di processi transnazionali frutto di fenomeni quali la globalizzazione economica e l’integrazione europea11. Pensiamo all’incidenza crescente – esercitata sia attraverso direttive e vincoli, sia con rapporti, suggerimenti e ratings – di autorità ed organismi come il FMI e la Commissione europea e al ruolo progressivamente più forte delle imprese multinazionali fuori dal controllo della regolazione statale. Sempre meno gli Stati riescono a controllare le proprie economie, come se queste fossero soggette a “dinamiche autocentriche” (Jessop, 1994); contestualmente, interventi e misure manageriali fanno registrare un arretramento della regolazione statuale in favore di meccanismi di mercato, con il risultato di un indebolimento della capacità (e legittimità) dell’amministrazione pubblica centrale di esercitare un governo pieno e riconosciuto delle dinamiche socioeconomiche (Le Galès, 2002). Nonostante ciò, è bene fare una precisazione molto importante, che vale come