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Media della spesa corrente e spesa sociale nelle città metropolitane e composizione della

SEZIONE III – LA CIRCOLARITA’ DELLA RICERCA: ANNOTAZIONI E

Grafico 6. Media della spesa corrente e spesa sociale nelle città metropolitane e composizione della

Fonte: Cittalia, 2012

Tabella 5. Composizione percentuale della spesa sociale dei comuni metropolitani suddivisa tra risorse proprie e trasferimenti statali, regionali, 2009-2011

Fonte: Cittalia, 2012

Le conseguenze del decentramento non sono solo di tipo economico-finanziario, ma riguardano anche altre questioni, tra cui il ruolo che lo Stato, in collaborazione con le regioni, deciderà di avere in merito alla definizione di diritti sociali uniformi in tutto il territorio nazionale. Se il decentramento perdurasse – o addirittura venisse rafforzato

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dando maggiore potere regolativo alle regioni, come alcuni auspicano – in un quadro di persistente mancanza di diritti sociali uguali per tutti, si rischierebbe di assistere ad una crescita insostenibile degli squilibri territoriali.

2.5 Il concetto polisemico di governance

Dagli inizi degli anni novanta, all’interno della policy community della riforma amministrativa, incominciano a svilupparsi nuovi modelli organizzativi che cercano di superare alcuni dei limiti connessi alla diffusione dei principi del NPM (Girotti, 2007). In particolare, si mette in discussione l’interesse unidirezionale verso la massimizzazione della dimensione dell’efficienza e la lettura esclusivamente ingegneristica dei processi organizzativi. Riprendono, quindi, vitalità approcci e teorie che sottolineano la specificità dell’azione pubblica; che ridonano centralità alla dimensione dell’efficacia15, accanto a

quella dell’efficienza; che rivalutano le capacità degli attori di cooperare, e non solo di competere, di stipulare accordi vincolanti, di promuovere comportamenti collaborativi; che guardano ai problemi del policy making e non solo agli aspetti tecnico-gestionali delle organizzazioni. Riguardo quest’ultimo aspetto, va precisato che, se in un primo momento (durante gli anni ‘80) il processo di apertura delle attività pubbliche ad attori non statali si è concretizzato per lo più nell’ottica del contracting-out, ossia della produzione e fornitura di servizi per conto dello Stato, a partire dagli anni novanta tale apertura si è verificata anche nell’ambito dei processi decisionali (cfr. cap. 2), ad indicare un differente approccio gradualmente diffusosi nel policy making.

Come sostiene Bulsei (2003), in tale contesto la coerenza e l’efficacia dell’azione pubblica non dipendono dalla sola attività politico-amministrativa, ma anche e soprattutto dal coordinamento orizzontale e verticale tra più attori istituzionali e sociali e dalla loro capacità di condividere obiettivi e cooperare per raggiungerli. Questo modello prende il nome di governance, termine nato nella scienza della politica internazionale, per rappresentare un sistema mondiale di relazioni inter e trans nazionali sempre meno fondate su solidi presupposti di diritto internazionale (Perulli, 2009; Mayntz, 1999). Il concetto di governance unifica i temi del globale e del locale, mettendo in luce una crescente interdipendenza tra poli e nodi costituiti da città e da regioni, che riacquistano un ruolo centrale nella globalizzazione (Le Galès, 2002). La governance è dunque il sistema di reti (networks), che connette gli attori sulla scena mondiale ed esprime la ricerca di forme di governo non fondate sulla sovranità di tipo statale, ma sul consenso e sul coinvolgimento di soggetti portatori di interessi, che vengono riformulati e ricostruiti nei diversi contesti locali.

15 Per efficacia si intende il confronto tra ciò che si è effettivamente realizzato (servizio erogato) e quanto si

sarebbe dovuto realizzare sulla base di un piano o un programma (obiettivi). Nello stesso tempo, essa fa riferimento al rapporto tra i servizi erogati e gli effetti prodotti da questi sulla collettività. Il concetto di efficacia qui definito si differenzia dal significato che esso assume in ambito giuridico, dove indica la conformità di un atto ai principi stabiliti dalla legge. Si tratta dunque di un controllo di legittimità formale (D’Amico, 2004).

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Le origini della governance vanno collocate nella vicenda storica della crisi del modello taylor-fordista all’interno delle imprese e del modello burocratico nelle amministrazioni pubbliche (cfr. cap. 1), forme di regolazione sociale non più adeguate a gestire la complessità dei fenomeni sociali e politici contemporanei. Ma vanno collocate anche all’interno della vicenda che porta alla moltiplicazione dei livelli di governo, da un lato, e alla diffusione del NPM, dall’altro. Infatti, il nuovo concetto in esame mutua dal paradigma manageriale alcuni tratti distintivi, come il coinvolgimento degli stakeholders, la negoziazione, il coordinamento di interessi diversi, l’applicazione dei principi di efficienza, coerenza e trasparenza (D’Amico, 2004).

La definizione del concetto di governance, che non ha un termine corrispondente nella lingua italiana, ha subito cambiamenti ed integrazioni all’interno del mondo politico e accademico e tuttora non ha una definizione condivisa, anche se i diversi studiosi (esperti di relazioni internazionali, politologi, economisti) si sono inizialmente trovati d’accordo nell’utilizzarlo per marcare una distinzione con il concetto di government. Quest’ultimo indica lo strumento che viene usato per governare, ossia gli assetti istituzionali, gli apparati amministrativi legalmente preposti a questa funzione; mentre il termine opposto di governance definisce il processo attraverso cui collettivamente risolviamo i nostri problemi (OECD, 2001). In ambito politico16, una definizione efficace della nozione in

esame è quella fornita da Mayntz (1999, p. 3), secondo cui si tratta di “un nuovo stile di governo, distinto dal modello del controllo gerarchico e caratterizzato da un maggior grado di cooperazione e dall’interazione tra lo stato e attori non-statuali all’interno di reti decisionali miste pubblico/private”. Sempre nella teoria politica, governance è sinonimo di guida (steering; Steuerung) (Mayntz, 1999) e sta ad indicare la trasformazione dell’autorità pubblica lungo un asse che va dal controllo dirigistico (rowing) (Bifulco e de Leonardis, 2005) al coordinamento strategico di risorse ed interessi differenti.

Risulta importante soffermarsi per un momento sul concetto di “strategia”, che nell’agire sociale indica un insieme di attori che si orientano reciprocamente e misurano le proprie “mosse” cercando di prevedere quelle altrui, con la consapevolezza dell’imprevedibilità degli esiti dell’azione umana. Trasposto all’agire politico, tutto ciò implica la difficoltà di guida rispetto a rischi esterni, ma soprattutto ai rischi interni (il conflitto tra i membri) e comporta l’utilizzo costruttivo del conflitto e del negoziato nell’interazione tra gli attori (Perulli, 2006).

Secondo Le Galès (1998), la governance si caratterizza per essere un processo di costruzione collettiva delle decisioni finalizzato a conseguire fini espliciti; analogamente, Segatori (2002) afferma che si tratta di un “processo di elaborazione, di determinazione, di realizzazione e di implementazione di azioni di policies, condotto secondo criteri di concertazione e di partenariato tra soggetti pubblici e soggetti privati o del terzo settore”.

16 Ricordiamo che il termine governance ha un suo utilizzo anche nell’ambito delle aziende. Si pensi

all’espressione corporate governance, che significa appunto governo d’impresa o societario. Infatti, il concetto in questione usato in economia è altro da quello di cui si occupa la scienza politica ed è ancora altro se riferito alla pubblica amministrazione. Pur essendoci un nucleo comune di significato, l’espressione è comunque influenzata dal contesto di riferimento.

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Tale processo presuppone due diverse forme o strumenti di coordinamento tra gli attori sociali coinvolti: uno di tipo orizzontale e l’altro di tipo verticale (Lynn, 2003). Il coordinamento orizzontale si sviluppa attraverso uno stile di lavoro ispirato alla collaborazione tra soggetti istituzionali (amministratori e funzionari) di pari livello, impegnati su diversi ambiti di competenza (si pensi ad esempio all’integrazione tra sociale e sanitario e, in generale, tra differenti politiche di welfare) o operanti in differenti aree territoriali, che per la loro attiguità richiedono una cooperazione su scala interlocale (Formstat, 2003). Nelle strategie di coordinamento orizzontale rientrano anche le relazioni tra le autorità pubbliche e gli attori locali privati, come operatori economici e rappresentanti di forme organizzative della società civile. Infine, il coordinamento verticale si realizza tra autorità che esercitano i propri poteri su scale territoriali di diversa ampiezza (nel caso italiano tra comuni, province, regione, stato, UE), anche con modalità che non seguono una linea gerarchica e che permettano “salti di livello” (Formstat, 2003).

Il coordinamento tra attori e livelli diventa allora un perno fondamentale per la definizione ed implementazione delle politiche locali. In tal senso, si tratta di individuare, nelle scelte politico-amministrative, adeguati raccordi istituzionali che favoriscano un modello efficace di multilevel governance, inteso come l’incontro tra flussi di top-down e bottom-up (Bobbio, 2005a) all’interno di un sistema di continua negoziazione tra i governi coinvolti a diversi livelli istituzionali (Marks, 1993). Arriviamo così a concepire la governance politica come “buona amministrazione”, che pone sullo stesso piano di importanza gli aspetti politici, amministrativi ed economici (Rhodes, 1996); o ancora a concepirla come “buongoverno” che si basa sul riconoscimento allo Stato di legittimità ed autorità, democraticamente concesse, e sull’esistenza di una efficiente macchina burocratica, che abbia la competenza per progettare ed implementare politiche pubbliche (Leftwich, 1994).

Secondo l’approccio sociologico, la governance indica “modalità distinte di coordinamento delle azioni individuali, intese come forme primarie di costruzione dell’ordine sociale” (Mayntz, 1999, p. 4). In sostanza, i meccanismi attraverso cui si può creare ordine sociale sono: la gerarchia; il mercato – nell’ambito dell’economia dei costi di transazione è stato Williamson (1979) ad analizzare questi due elementi quali forme alternative di organizzazione economica – ; le comunità (Etzioni, 1993); le reti (Powell 1990);

La gerarchia, ovvero il rispetto delle regole formali fondate sull’autorità e sul potere dei vertici, presenta alcuni vantaggi, come la possibilità di controllare il comportamento dei singoli individui e di gestire compiti e mansioni strettamente correlate fra loro, tuttavia risulta spesso un meccanismo obsoleto, inefficace ed inefficiente.

Il mercato, orientato al perseguimento dell’interesse e della libertà personale, è considerato da alcuni il migliore meccanismo di allocazione delle risorse, poiché massimizza l’efficienza e la produttività grazie alla concorrenza e alla competizione. Tuttavia, anch’esso presenta degli svantaggi che derivano dai costi di transazione, dall’elevato potenziale di conflittualità e dal rischio di opportunismo.

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Il concetto di comunità è basato, invece, sul principio dell’autoregolazione dei gruppi all’interno della società, finalizzati alla costruzione di valori comuni e di una cultura della coesione sociale. “I sostenitori della governance comunitaria affermano che essa dovrebbe poter risolvere i propri problemi con un intervento minimo o nullo da parte dell’autorità pubblica” (Formstat, 2003, p. 9). Tuttavia, anche questa prospettiva ha dei forti limiti legati soprattutto ad una visione del consenso come diffuso e desiderabile e ad una sottovalutazione delle dinamiche conflittuali.

Infine, secondo il meccanismo basato sui networks, sono le reti che si consolidano tra una varietà di attori diversi attorno ad un problema specifico a migliorare la capacità dei mercati di includere criteri non esclusivamente economici e a permettere alle gerarchie di aumentare la partecipazione e la mobilitazione delle risorse. Proprio in quest’ottica, Rhodes (1996) concepisce la governance come una modalità di “auto-organizzazione di reti interorganizzative”, tra esse interdipendenti, in interazione continua, motivate dall’esigenza di scambiarsi risorse e negoziare propositi condivisi, e con un significativo grado di autonomia dallo Stato. Lo studioso, inoltre, descrive le interazioni dei networks come “giochi” basati sul riconoscimento di fiducia e credibilità reciproca e sull’accettazione di regole di comportamento negoziate da tutti i membri.

Alla luce di quanto detto sui meccanismi di costruzione dell’ordine sociale, è possibile modellizzare il concetto di governance sulla base dei principi cui si ispira nei vari contesti di applicazione. Le alternative al modello di government burocratico vengono ricercate entro due diverse declinazioni del concetto, all’interno delle quali il problema dell’integrazione e della cooperazione tra gli attori viene affrontato, da un lato, mettendo al centro gli interessi, dall’altro, la fiducia. Abbiamo, così, una governance market-oriented ed una network-oriented. Nel primo caso si ritiene che il principio della competizione abbia un’efficacia allocativa migliore rispetto alla gerarchia (Moini, 2012) e ciò conduce a forme di esternalizzazione delle funzioni pubbliche, per mezzo delle privatizzazioni e della creazione di mercati interni. Qui il consenso è il risultato della coincidenza fra gli interessi di attori utilitaristici, che basano le loro relazioni interistituzionali su partnership di tipo negoziale (contratto) (d’Albergo, 2002). Nel caso della governance network-oriented, invece, il consenso è dato dalla fiducia e dalla reciprocità tra gli individui, ottenuta attraverso la costruzione comune del senso dell’azione e la condivisione dei valori. In questo caso, la governance dovrebbe essere guidata dal principio dell’interdipendenza, ovvero ricorrere a forme di collaborazione interindividuale e intersistemica, sostenute da criteri di razionalità negoziale o riflessiva (Jessop, 1998) e da interazioni formalizzate (accordi). Lo Stato qui ricopre la funzione di networking, un’attività che implica la capacità di fissare le condizioni istituzionali per la cooperazione tra i diversi attori.

Alcuni studiosi (Stoker, 1998; Mayntz, 1999; Jessop, 1997) ci mettono in guardia da un uso troppo enfatico e semplificato della governance, innanzitutto perché essa può assumere le caratteristiche di un processo retorico piuttosto che sostanziale; in secondo luogo, perché entrambi i suoi modelli possono evidenziare problemi di legittimità e accountability17;

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infine, perché nella realtà continuano a coesistere processi di regolazione basati sulla gerarchia, sul mercato e sulle dinamiche di rete. Il coordinamento degli attori può, peraltro, essere ostacolato dai tradizionali assetti relazionali (rigida separazione delle competenze, dipendenza dei livelli periferici rispetto a quelli centrali) e da una asimmetrica distribuzione di risorse tra i soggetti in campo (Bobbio, 2000)

In successivi e più recenti sviluppi del concetto, la soluzione ai problemi di legittimità è individuata nelle forme della participatory e/o collaborative governance (Moini, 2012), che mirano a favorire l’inclusione e la partecipazione dei cittadini comuni (i destinatari di politiche e programmi) nelle scelte pubbliche, al fine di promuovere una loro effettiva influenza sulle politiche che li riguardano direttamente (Fung e Wright, 2001). Si tratta, quindi, di un modello che fa riferimento ad una razionalità tipicamente deliberativa18,

anch’esso non immune da rischi ed ambiguità, connessi alla possibilità di incorrere in stalli decisionali, all’elevato costo di transazione della partecipazione; al buon funzionamento solo su scala ridotta e non su ampie dimensioni; e al pericolo di accrescere i differenziali di sviluppo tra aree che hanno maggiori risorse comunitarie e quelle che ne hanno meno (d’Albergo, 2002). Infine, le forme di participatory e/o collaborative governance non sono immuni da rischi legati ad un possibile uso strumentale (Le Galès, 2002) e simbolico, finalizzato a neutralizzare le rivendicazioni dei cittadini (Moini, 2012) e potenzialmente diretto al controllo sociale.

In tal senso, è fondamentale, come ci ricorda Mayntz (1999), riconnettere la teoria della democrazia a quella della governance. Infatti, focalizzando l’attenzione sulla cooperazione orizzontale e sui policy networks è emerso come queste modalità di produzione di decisioni fossero problematiche sotto il profilo della responsabilità democratica. Gli attori privati all’interno delle reti di policy sono tipicamente privi di legittimazione democratica e l’enfasi che una teoria della governance conferisce ai concetti di cooperazione orizzontale e autoregolazione sociale potrebbe condurre inavvertitamente a una rivitalizzazione di modelli corporativi e neo-corporativi (Mayntz, 1999).Anche qui, come si è avuto modo di ricordare in altri contesti di analisi, assume un ruolo centrale il soggetto pubblico e la sua capacità/volontà di costruire un quadro istituzionale entro cui legittimare e far emergere processi di autoregolazione sociale. In questi casi, gli amministratori smettono i panni dell’autorità e rivestono quelli di soggetti “capacitatori” o facilitatori di dinamiche di inclusione nelle cerchie decisionali.

amministrazioni e terzo settore (Bifulco, 2006).

18 Nelle prime due forme di governance prevalgono i principi di negoziazione e concertazione, intesi come

incontro tra due o più interessi definiti e strutturati, che si avvicinano ad un compromesso. Nella partecipatory/collaborative governance, invece, prevale il concetto di deliberazione, ovvero un processo di argomentazione cui partecipano punti di vista diversi, che attraverso il dialogo si modificano e si ridefiniscono sulla base di argomenti che ciascun attore pubblicamente sostiene (Elster, 1998). Su questo punto cfr. cap. 3

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2.6 Il principio di sussidiarietà

I concetti descritti nei paragrafi precedenti trovano fondamento in un principio normativo, che guida l’azione dell’autorità pubblica secondo valori completamente diversi da quelli dominanti nella fase di evoluzione e consolidamento dello Stato moderno. Stiamo parlando del principio di sussidiarietà, oggi considerato come il presupposto essenziale per la “possibilità di dispiegamento della governance, poiché sancisce la legittimità della partecipazione alle decisioni di governo da parte di soggetti diversi da quelli storicamente insigniti di questo potere” (Sabbatini, 2005, p.420). In altri termini, si potrebbe affermare che la governance è lo strumento politico della sussidiarietà, quindi l’applicativo nell’arena politica dei criteri di partecipazione e co-responsabilità (ibidem). In linea generale, la sussidiarietà è un principio ordinatore della società (Del Debbio, 2007), un criterio di ripartizione delle funzioni tra diversi livelli di governo (sussidiarietà verticale) e tra cittadini e stato (sussidiarietà orizzontale), in direzione di un rafforzamento degli enti territoriali di prossimità e dell’agire privato dei cittadini.

Il termine sussidiarietà, nella sua accezione attuale, compare solo nella seconda metà del XIX secolo. A dire il vero, però, l’idea della sussidiarietà nasce dalla cultura aristotelica e cristiana; infatti, fin dall’antica Grecia, esprime un determinato modo di concepire la politica (Millon-Delsol, 2003). Come ben sappiamo, Aristotele considera l’uomo “un animale sociale” e, di conseguenza, intende la città e la società civile non come associazioni utilitaristiche, ma come fonti di accrescimento dell’essere. Si tratta di una concezione della società totalmente opposta rispetto a quella su cui, secondo Donati (2007), è nato lo Stato moderno di tipo hobbesiano, fondato su una visione negativa ed egoistica dell’uomo, ben rappresentata dall’espressione homo homini lupus. In tale contesto, ci spiega il nostro autore nei suoi numerosi saggi (1982, 2000), gli individui si sono trovati a stipulare un contratto utilitaristico per delegare il potere a un’autorità superiore, il Leviatano, al quale conferire il monopolio della forza (e di altri poteri) come unica soluzione per garantire le libertà individuali, la pace sociale ed il benessere collettivo. Il Leviatano ai tempi di Hobbes era rappresentato dal Monarca assoluto, successivamente si è trasformato nella Repubblica e nello Stato sociale che ben conosciamo (Donati, 2007).

Tornando alle fasi di sviluppo del principio di sussidiarietà, se è vero che esso si rafforza nella società medievale, tipicamente organizzata in gruppi attivi ed autonomi (le corporazioni, le città, le “universitates”), in realtà è solo con la dottrina sociale della Chiesa che si sviluppa come un vero pilastro filosofico ed antropologico, inteso sia negativamente (come non-ingerenza dell’autorità) sia positivamente (come ingerenza necessaria quando la libertà umana non è sufficiente a garantire la dignità) (Millon-Delsol, 2003). Un primo richiamo di questo principio nella dottrina sociale si trova all’interno della Rerum Novarum (1891) di Leone XIII; successivamente, nell’Enciclica Quadragesimo Anno del 1931, Papa Pio XI insiste sul concetto (Feliciani, 2007) affermando che “non si possono togliere ai privati, per trasferirli alla comunità, i compiti che sono in grado di adempiere di propria iniziativa […], è al tempo stesso un grave turbamento dell’ordine sociale sottrarre

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ai gruppi d’ordine inferiore, per affidarli a una collettività più vasta e di rango più elevato, le funzioni che possono assolvere da sé” (p.572).

In tempi più recenti, il concetto di sussidiarietà è stato recuperato con l’avvio del processo di integrazione europea; troviamo una sua prima introduzione nel Trattato di Maastricht del 1992, dove viene presentato come principio base per la ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri. Qui si configura in termini dinamici, consentendo di ampliare le competenze dell’UE laddove necessario e, all’inverso, di restringerle quando non indispensabile.

A livello politico, la sussidiarietà trova la sua espressione più significativa nell’organizzazione federale19. Tuttavia, non va considerato come un semplice strumento burocratico di devoluzione delle competenze, dal momento che ha delle implicazioni sul piano valoriale e richiede, altresì, alcune condizioni antropologiche e filosofiche, derivanti da una ben precisa idea della società, delle persone e dei cittadini (Sirimarco e Ivaldi, 2011). Secondo l’interpretazione della filosofa politica Millon-Delsol (2003), il principio in esame si inscrive in una filosofia personalista che pone al centro il valore indiscutibile della dignità della persona e che considera l’uomo come unico responsabile del proprio destino, capace di farsene carico per mezzo della sua azione. I presupposti sono quelli di una concezione ottimistica, basata sull’idea che gli attori sociali hanno una propria volontà di autonomia e di iniziativa e fondata sulla fiducia nella loro capacità di prendersi cura dell’interesse generale. Ne consegue che il cittadino dello Stato moderno, il quale ha il dovere di partecipare al bene comune solo pagando le tasse ed esercitando il diritto di voto, non è pienamente protagonista attivo della società, rimanendo piuttosto “allo stadio di