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Spesa per interventi e servizi sociali dei Comuni singoli e associati per Regione Anno

SEZIONE III – LA CIRCOLARITA’ DELLA RICERCA: ANNOTAZIONI E

Grafico 1. Spesa per interventi e servizi sociali dei Comuni singoli e associati per Regione Anno

Fonte: nostra elaborazione dal sito Istat http://dati.istat.it/#, sezione “Assistenza e previdenza”.

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Dopo aver brevemente definito il quadro nel quale questo lavoro si muove, riprenderemo il tema della crisi dello Stato sociale, già accennato nel capitolo 1, per analizzare più nel dettaglio e secondo prospettive diverse le cause, gli effetti e le dimensioni che hanno caratterizzato, negli ultimi decenni del XX secolo, il riequilibrio dei sistemi di welfare europei.

2.2 L’onda lunga della riforma del welfare

Il dibattito sui processi di ridefinizione1 dei welfare states occidentali ha radici abbastanza lontane; potremmo dire che ormai è da quasi mezzo secolo che il mondo accademico e quello politico riflettono sui mutamenti dei sistemi di protezione sociale, che ancora oggi appaiono come processi dagli esiti incerti. Il dibattito in questione si colloca in un più ampio ripensamento del rapporto fra sovranità e cittadinanza, che trae origine dal riconoscimento di una crisi profonda dello Stato quale forma organizzativa superiore (cfr. cap.1). Una crisi che si è progressivamente manifestata a partire dagli anni Settanta e che ha visto il ridimensionamento della centralità dello Stato nella sua declinazione in termini di “Stato-provvidenza” (Rosanvallon, 1984), ovvero come monopolista nella definizione e nella “produzione” del benessere dei cittadini che in esso si riconoscono (Millon-Delsol, 2003). Dunque, un dibattito che non è mai stato confinato ad un piano strettamente “tecnico” circa la riforma di alcuni meccanismi di funzionamento degli apparati amministrativi, ma che racchiudeva, e racchiude, un problema politico di grandissima portata: verso quale modello di Stato tendere, se e come riformare2 il tradizionale sistema politico-amministrativo che nell’ultimo secolo ha assicurato a tutti le conquiste del cosiddetto Stato del benessere (D’Amico, 2004).

In linea generale, le trasformazioni che hanno originato la crisi del welfare in Europa vanno ricondotte ai cambiamenti del sistema fordista di produzione che aveva permesso nel Dopoguerra lo sviluppo delle teorie keynesiane e, dunque, delle politiche di protezione sociale (Jessop, 1999). Tuttavia, è necessario puntualizzare che le cause della destabilizzazione dello Stato sociale si manifestarono addirittura nel suo periodo di massima espansione, quando cominciò ad attenuarsi il carattere redistributivo delle politiche, che assunsero pian piano una natura essenzialmente distributiva. Il forte sviluppo economico di quegli anni permise di finanziare facilmente l’estensione delle prestazioni sociali a nuove categorie di soggetti, appartenenti alla classe media. L’aumento delle

1 Nel dibattito in questione i termini “ridefinizione”, “riconfigurazione”, “ricalibratura” (Ferrera, Hemerick,

Rhodes, 2001) sono stati contrapposti a quello di “retrenchment” (Clayton e Pontusson, 1998), ad indicare che i mutamenti del welfare non si configurano solo attraverso progressive riduzioni delle risorse economiche, bensì hanno le caratteristiche di un processo più ampio e complesso di riconfigurazione strutturale.

2 Il concetto di riforma ha un significato preciso ed implica non un cambiamento adattivo, bensì un processo

intenzionale, deliberato e programmato di costruzione di nuove strutture e nuove regole. Secondo North (1990), le condizioni favorevoli per l’avvio di un processo di modernizzazione istituzionale sono: uno stato di crisi, la presenza di una leadership e lo sviluppo di nuove alleanze che sostengano assetti innovativi contro la resistenza di vecchie coalizioni di interessi.

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entrate erariali e l’utilizzo del deficit spending condussero ben presto a quello che viene definito l’ “occultamento dei costi”, per cui “si sa chi riceve e quanto, ma non più chi paga” (Ferrera, 2006). L’affermazione e la crescita della classe media ha fatto il resto: la tipica frammentazione di questo gruppo sociale (da classe a categoria), infatti, ha permesso negli anni lo sviluppo e la fioritura di gruppi di interesse e coalizioni distributive, che hanno in parte modificato i fini e i valori su cui lo Stato sociale era stato edificato. Sarà poi l’avvento della crisi economica degli anni ’70, e l’arresto di una crescita che sembrava illimitata, a minare le fondamenta e rendere evidente l’insostenibilità di sistemi di welfare sempre più estesi ed inadeguati alle nuove problematiche sociali3 della post-modernità.

In definitiva, tra i fattori principali che hanno determinato la progressiva corrosione delle strutture pubbliche di welfare possiamo schematicamente ricordare:

1. la già citata crisi economica degli anni Settanta, a sua volta causata dal conflitto arabo-israeliano e dall’aumento del prezzo del petrolio;

2. il graduale passaggio da una società industriale (caratterizzata dal paradigma produttivo del fordismo) ad una postindustriale, i cui nuovi principi sono il decentramento produttivo e la flessibilità dei rapporti di lavoro;

3. l’aumento delle aspettative e delle richieste dei cittadini nei confronti dello Stato sociale, sempre più incapace di dare risposte efficaci ed appesantito da strutture amministrativo-burocratiche iper-sviluppate;

4. la crisi fiscale e l’insostenibilità della spesa pubblica;

5. il passaggio da strutture demografiche in relativo equilibrio a situazioni caratterizzate da profonde trasformazioni, legate all’invecchiamento della popolazione e ai sempre maggiori flussi migratori;

6. il passaggio dalla solidità dello Stato-nazione all’interdipendenza ed integrazione a livello sovranazionale. Le trasformazioni in atto in ambito europeo (si pensi al progetto della moneta e mercato unici), così come in ambito mondiale, hanno messo in forte difficoltà i singoli Stati che hanno progressivamente visto aumentare i vincoli esterni alla loro azione. Si pensi, in proposito, al Trattato di Maastricht (1992), che ha imposto severe misure di risanamento dei conti pubblici, soprattutto dove era assente una razionalizzazione amministrativa. Infine, è stata l’apertura del mercato globale a richiedere alle amministrazioni pubbliche, da un lato, maggiori capacità di progettazione accanto a nuovi attori, dall’altro, maggiori competenze di coordinamento e regia, che presupponevano una flessibilità amministrativa fino ad allora inedita per le burocrazie tradizionali (Girotti, 2007).

3 I bisogni di cui si era occupato lo Stato sociale negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale erano

assai diversi da quelli che si prefigurarono dagli anni Settanta in poi. Pensiamo all’assistenza agli orfani di guerra, al sottosviluppo nelle aree rurali, alla scolarizzazione. In altri termini, potremmo dire che con l’avvento di una società post-moderna si viene a creare una nuova questione sociale, le cui parole chiave sono: rischio, vulnerabilità, precarizzazione, esclusione sociale, désaffiliation (Castel, 1995), ad indicare una domanda sociale sempre più “sfrangiata” in situazioni di disagio molto composite e legate alle storie di vita individuali.

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A questi fattori se ne possono aggiungere altri: innanzitutto, la diminuita capacità della famiglia di prendersi carico dei bisogni dei propri membri; in secondo luogo, la frammentazione della domanda sociale non più collocabile in ampie categorie di rischio e che ha richiesto la definizione di risposte maggiormente individualizzate e personalizzate; infine, l’aspirazione, da parte dei beneficiari delle politiche pubbliche, a sentirsi soggetti attivi e non utenti passivi.

Venendo meno i presupposti multifattoriali su cui era stato fondato, il welfare perde progressivamente legittimazione e consenso, non solo sul piano della sostenibilità finanziaria e dell’efficienza, ma anche su quello dell’efficacia redistributiva delle sue politiche. Per spiegare meglio quanto stiamo sostenendo, possiamo riportare il concetto di “deficit di democrazia” elaborato da Fazzi (1998, p. 29), il quale in proposito afferma che ”la garanzia universalizzata dei diritti sociali, se da un lato ha ridotto le disuguaglianze formali nell’accesso alle risorse di tutela sociale, ha dall’altro espulso nei fatti, attraverso la delega allo Stato del monopolio degli interventi, ogni tipo di apporto partecipativo alla costruzione delle politiche […]. Lo Stato sociale risulta [così] schiacciato dall’obbligo statutario di appianare le differenze tra gruppi sociali e quanto viene astrattamente considerato come il benessere di un immaginario cittadino medio non è offerto, ma letteralmente imposto ai cittadini in un modo che risulta sostanzialmente incurante delle esigenze realmente espresse”.

Si introduce in questo modo uno dei principi fondamentali su cui, a partire dagli anni ’80, si baseranno i processi di ristrutturazione del welfare, ossia la consapevolezza che lo Stato non è l’unica fonte di benessere; anche se il suo intervento è cresciuto costantemente a partire dalla fine del XIX secolo, esso non ha sostituito altre istituzioni centrali come la famiglia, il mondo del no-profit, il mercato. Ben presto in Europa si afferma l’idea che alla produzione dei beni pubblici debba concorrere questa pluralità di attori in una logica di corresponsabilità e partnership. Si promuove, dunque, il passaggio da un modello basato sull’intervento pubblico diretto ad un sistema misto, definibile per l’appunto welfare mix, fondato sulla diffusione di forme di collaborazione pubblico-privato e sull’affermazione del concetto di prosumers (Donati e Folgheraiter, 1999), ossia di cittadini che sono nello stesso tempo produttori, distributori e consumatori di beni e servizi sociali.

Anche al fine di contenere la spesa pubblica, inizia a diffondersi la pratica del “contracting out”, ossia dell’affidamento dei servizi all’esterno4. Con questa strategia si vuole, altresì, incentivare il miglioramento delle prestazioni, mettendo in concorrenza tra loro i fornitori esterni non e for profit. Per quanto riguarda lo specifico ambito dei servizi

4 Per contracting out si intende propriamente “una selezione pubblica che porta alla individuazione di un

soggetto al quale viene affidato il compito di produrre ed erogare una serie di interventi, previsti nel bando di gara scritto dall’ente locale” (Burgalassi e Melchiorre, 2014, p.78). L’esternalizzazione può essere, altresì, effettuata utilizzando la procedura dell’accreditamento, attraverso “l’identificazione di una platea di produttori certificati che competono tra loro su un (quasi)mercato alimentato dalla scelta dei cittadini a cui l’ente locale ha riconosciuto il titolo di accesso ad un servizio” (ivi, p.79).

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sociali, i nuovi5 attori coinvolti nella produzione di interventi e prestazioni appartengono per lo più a quell’insieme di organizzazioni che, indicando in modo trasparente i propri obiettivi non di profitto, operano sul piano della soddisfazione dei bisogni di tutela della collettività (Barbetta, 1996). Si tratta cioè di quello che viene comunemente definito “terzo settore”: una nebulosa, cresciuta nel corso degli ultimi decenni, di enti e organismi di volontariato, ma anche di “associazioni che presentano un ordinamento ambiguo, oscillante tra una caratterizzazione privata e una pubblica” (Ranci, 1999, p. 184). Non a caso la terminologia “terzo settore” indica proprio un’area collocata tra Stato e mercato. Il suo sviluppo ha finito per rappresentare il dato paradigmatico della crisi del welfare state, ma anche il punto di partenza di tutta la discussione circa la riforma dello stesso (D’Amico, 2004). In particolare, si è ritenuto che il connubio tra Stato e terzo settore potesse costituire una strategia per aggirare la rigidità burocratica e amministrativa, garantendo comunque servizi universali, ma nello stesso tempo più flessibili e individualizzati. Inoltre, l’impiego del settore no profit è stato considerato come una soluzione utile a favorire un aumento delle responsabilità individuali e comunitarie nella produzione dei servizi sociali. Ad ogni modo, la cosiddetta privatizzazione del welfare non è stata “affidata” solo ad organizzazioni del settore no profit, ma anche a quelle provenienti dal mercato (si pensi alla sanità); è stata, altresì, praticata su un arco di settori molto ampio, che va dal campo pensionistico a quello abitativo (Ranci, 1999).

Oltre all’introduzione di processi di esternalizzazione delle prestazioni sociali, gli antidoti predisposti hanno fatto riferimento a vari motivi ispiratori: il risanamento finanziario, operato attraverso i tagli; il ridimensionamento dei programmi; la sostituzione dei politici con i manager, ritenuti capaci di un’efficiente gestione delle risorse pubbliche; l’applicazione dei principi di decentramento amministrativo; il coinvolgimento di cittadini e utenti nella definizione di politiche e programmi e nella costruzione, progettazione e valutazione dei servizi; la diffusione di modelli sistemici e di rete, tendenti ad inquadrare i problemi in un’ottica globale e a definire risposte integrate attraverso una strategia operativa di coordinamento e condivisione di obiettivi e risorse. In tale prospettiva, al soggetto pubblico viene richiesto un forte spostamento di attenzione: da una concezione formale a una sostanziale; dai modelli che innovano le architetture ai processi che ne consentono la trasformazione (Girotti, 2007); dalla costruzione di macchine razionali di governo alla reinvenzione di capacità di governo al servizio della comunità (Osborne e Gaebler, 1995); dalle strutture amministrative alla pratica attività dell’amministrare in contesti caratterizzati da un elevato dinamismo e da crescente complessità sociale (Bifulco, 1997).

Come hanno proposto La Spina e Majone (2000), lo Stato si trasforma da gestore a regolatore. Mentre il primo modello, che è quello del welfare state, era stato edificato

5 Come sottolineato da Esping-Andersen (1990), la presenza di attori non statali non rappresenta un

fenomeno nuovo nello sviluppo del welfare. In proposito, anche Paci (1989) ha evidenziato che il sociale italiano è stato storicamente caratterizzato da un dualismo pubblico-privato. La novità introdotta con il welfare mix consiste nella definizione da parte del soggetto pubblico di forme di responsabilità e di regolazione.

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sull’idea di porre rimedio ai fallimenti del mercato; il secondo si fonda sulla scoperta dei fallimenti dello Stato (D’Amico, 2004). Differenziandosi nettamente dal “guardiano notturno ottocentesco”, lo Stato regolatore odierno interviene per lo più tramite una funzione di definizione-garanzia delle “regole del gioco” – anche con l’ausilio di agenzie indipendenti (La Spina e Majone, 2000) – in un contesto dove pubblico, privato, terzo settore e cittadini organizzati partecipano con pari dignità al processo di elaborazione ed implementazione delle politiche pubbliche. Risulta così necessaria una cultura amministrativa che riconosca autonomia istituzionale e specificità funzionali ai diversi soggetti, e che pratichi un’attività regolativa di tipo “più indiretto e incentivante che prescrittivo e vincolante” (Pennacchi, 1994).

In definitiva, possiamo sintetizzare affermando che la ricalibratura del welfare si è concretizzata lungo quattro direttrici, che hanno condizionato in modo comune l’agenda istituzionale e di governo dei diversi Stati industrializzati:

1. maggiore responsabilizzazione dell’individuo, chiamato egli stesso a mobilitarsi in risposta al proprio bisogno (Borghi e Van Berkel, 2005);

2. introduzione nelle agenzie pubbliche di procedure e tecniche di gestione privatistica;

3. decentramento delle responsabilità finanziarie e programmatorie dell’autorità pubblica a vantaggio delle amministrazioni locali;

4. apertura ad attori “non statali” (profit e non profit) delle responsabilità di gestione dei servizi, con conseguente separazione tra funzioni di finanziamento (in capo all’autorità pubblica) e funzioni di erogazione (fornitura diretta da parte dei privati). In tempi più maturi, tale apertura è stata promossa anche nei processi decisionali che riguardano l’elaborazione di politiche e programmi sociali (Ascoli e Ranci, 2003).

Secondo alcuni studiosi (Clayton e Pontusson, 1998; Williams e Mooney, 2010; Pierson, 1999), durante i tre lustri che dagli anni ‘80 ad oggi hanno visto l’implementazione di riforme dello Stato sociale è prevalso maggiormente il tema dei costi, mentre quello dell’efficacia, della qualità, dell’equilibrio dei rapporti tra centro e periferia e tra attori pubblici e privati è rimasto in secondo piano. Sono state poche le riforme a carattere strutturale, mentre i tagli alla spesa pubblica, tema centrale nel dibattito politico, in realtà sono stati operati solo dove erano minori le resistenze socio-politiche, al fine di evitare una perdita di consenso da parte degli elettori (blame avoidance).

Le ragioni che hanno portato alla messa in discussione dei modelli di welfare states tradizionali hanno visto negli ultimissimi anni una progressiva radicalizzazione. Infatti, da un lato, i nuovi rischi sociali hanno conosciuto un peggioramento, quantitativo e qualitativo, che si manifesta con l’aumento dei fenomeni di povertà, con la precarizzazione progressiva e costante dei percorsi lavorativi e, in generale, dei percorsi di vita, con i crescenti tassi di disoccupazione, con l’inasprirsi dei fenomeni di esclusione sociale. Dall’altro lato, il problema dei costi è diventato, con la recente crisi economica del 2008, sempre più assillante per i governi occidentali, che si trovano a dover fare i conti con stringenti vincoli di bilancio e contenimento della spesa pubblica e a realizzare drastici

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tagli alle risorse destinate a finanziare i sistemi di welfare. Le tabelle e le figure che seguono ci mostrano questo trend di sviluppo negativo del finanziamento della spesa sociale italiana a fronte di un aumento della disoccupazione e del rischio di povertà.