• Non ci sono risultati.

Capitolo 2. Fonti, modelli e traduzioni

2.1 Fonti e modelli

2.1.1 Fonti e modelli in Italia

Il punto di riferimento indiscusso per la novellistica non solo in Italia, ma in tutta Europa è il Decameron. Franco Sacchetti, dedicandosi alla scrittura del suo Trecentonovelle alla fine del XIV secolo, manifesta chiaramente la necessità di misurarsi con Boccaccio: egli non utilizza, però, l’espediente della cornice, optando piuttosto per una raccolta antologica in cui le novelle sono associate l’una all’altra tramite semplici richiami interni a personaggi o a temi che vi compaiono. Quello che domina nel Trecentonovelle è, anzi, un processo cumulativo.

Nel Proemio, Sacchetti instaura un confronto diretto con il suo innegabile modello: dopo aver spiegato i primi due motivi che lo hanno indotto a realizzare la sua opera, ossia le sofferenze patite dagli uomini a causa di pestilenze, guerre e calamità e la consapevolezza che la gente è sempre desiderosa di «udire cose nuove, e spezialmente di quelle letture che sono agevoli a intendere, e

spezialmente quando danno conforto, per lo quale tra molti dolori si mescolino alcune risa […]»,1 l’autore chiama direttamente in causa Boccaccio:

[…] e riguardando in fine allo eccellente poeta fiorentino messer Giovanni Boccacci, il quale descrivendo il libro delle Cento Novelle per una materiale cosa, quanto al nobile suo ingegno <…>, quello è divulgato e richie<sto tanto> che in sino in Francia e in Inghilterra l’hanno ridotto alla loro lingua, e grand<…>so; io Franco Sacchetti fiorentino, come uomo discolo e grosso, mi proposi di scrivere la presente opera e raccogliere tutte quelle novelle le quali, e antiche e moderne, di diverse maniere sono state per li tempi e alcune ancora che io vidi e fui presente e certe di quelle che a me medesimo sono intervenute.2

Malgrado le evidenti lacune, questo Proemio offre un inequivocabile esempio di individuazione del proprio modello da parte dell’autore: si tratta del «libro delle Cento Novelle» di «messer Giovanni Boccacci», cui Sacchetti guarda sia per la materia trattata (eventi passati e presenti dal carattere estremamente vario), sia per la lingua impiegata (il volgare fiorentino). Il ricorso al classico topos modestiae, per cui lo scrittore si definisce «discolo e grosso», non sminuisce lo stretto legame spirituale che lega Sacchetti al maestro, sancito dalla comune fiorentinità. Se Boccaccio è definito «eccellente poeta fiorentino Giovanni Boccacci», Sacchetti si presenta come «io Franco Sacchetti fiorentino»: sembra tutt’altro che casuale che il costrutto chiastico leghi il medesimo aggettivo, «fiorentino», ai nomi dei due autori, mettendo in questo modo in risalto le radici condivise. Anche il titolo dell’opera risente dell’esempio boccacciano: se il Decameron è definito «Cento Novelle», l’opera di Sacchetti è invece il Trecentonovelle, etichetta che tradisce forse un implicito desiderio di superare il maestro. Altri elementi dell’opera sacchettiana suggeriscono in effetti una forma di sfida nei confronti della tipologia di raccolta novellistica offerta dal Decameron: il rifiuto della cornice e l’adozione di un semplice Proemio potrebbero far pensare ad un desiderio di tornare alla semplicità del narrare arcaico e pre-boccacciano, rappresentato dal Novellino, in

1 F.SACCHETTI, Il trecentonovelle, a cura di Valerio Marucci, Roma, Salerno Editrice, 1996,

Proemio, par. 1. D’ora in avanti si farà riferimento a questa edizione con l’abbreviazione Trecentonovelle.

cui i racconti si susseguivano l’uno all’altro senza alcun disegno strutturale precostituito.

Quello di Sacchetti, però, non è l’unico caso di un autore che guarda a Boccaccio come ad un punto di riferimento passibile di aggiornamenti. Questa tendenza, accresciutasi nel tempo, è stata incentivata nel corso del Cinquecento dal fatto che le Prose della volgar lingua (1525) di Pietro Bembo hanno consacrato il modello boccacciano come emblema della scrittura letteraria in prosa volgare.

Così, nell’avvertenza Al lettore, in apertura delle sue Giornate delle novelle dei novizi, Pietro Fortini non esita a riconoscere subito il termine di paragone della sua opera:

Umanissimo lettore, son certo che non prima averai compreso la materia di che

tratta questo nostro primo libro, che infatto m’acuserai grandemente di troppa

temerarità; conciosiaché il Boccaccio, uno de li occhi della toscana lengua, e molti

altri doppo esso a preso, abbino con ingegno mirabile e ornatissimo stile i piacevoli e novelleschi ragionamenti produtti in luce.3

Ancora una volta Boccaccio viene addotto come modello per chi si cimenta nella redazione di novelle, sia per quanto riguarda la materia trattata, sia per lo stile impiegato. Nonostante il nome qui proposto sia quello del Certaldese, poco oltre Fortini cita apertamente altre due opere, accanto al Decameron, che costituiscono un termine di paragone per il suo novelliere. Mentre spiega che anche le sue novelle avranno probabilmente dei malevoli detrattori, osserva che ci sarà di certo qualche donna che, in nome di una morigeratezza tutta di facciata, lo criticherà con le seguenti parole:

Guarda questo perdegiorno, non deveva avere altre faccende. Che tristo sia lui! Ci mancavano ora queste novellacce agiunte al Centonovelle, al Novellino e al Settanta

3 P.FORTINI, Le giornate delle novelle dei novizi, a cura di Adriana Mauriello, Roma, Salerno

Editrice, 1988, Al lettore, par. 1; corsivi miei. D’ora in avanti si farà riferimento a questa edizione con l’abbreviazione Giornate delle novelle.

che sonno tanto nere che, per una sol bocata a ciascheduna, a fatica parranno mosse di colore.4

Il Centonovelle è naturalmente il Decameron, il Novellino è la raccolta di Masuccio Salernitano, mentre il Settanta è il titolo con cui venivano talvolta designate le Porretane di Sabadino degli Arienti.5 Nonostante fossero state scritte molte altre raccolte di novelle, alcune delle quali (come quella di Straparola, Firenzuola e Bandello) avevano riscosso una notevole fortuna, Fortini individua in particolare nelle opere di Boccaccio, Masuccio e Sabadino quelle più vicine alla propria. Come nel caso delle Giornate, infatti, sia il Decameron sia le Porretane presentano delle vivaci brigate di novellatori, che, pur non disdegnando la narrazione di raccolti maliziosi, non abbandonano mai il principio della condotta onesta come base portante delle loro relazioni. Il Novellino di Masuccio è, invece, in apparenza difficilmente associabile ad un novelliere come quello di Fortini, vista la diversità strutturale tra le due raccolte. Eppure una spiegazione dell’implicito gemellaggio istituito da Fortini tra la sua opera e quella del Salernitano va forse cercata nella frase che egli mette in bocca alle sue ipotetiche detrattrici: esse lo criticherebbero per le sue «novellacce», quindi per dei racconti immorali o, quantomeno, poco adatti alla lettura da parte di donne oneste. Dal canto suo, Masuccio aveva composto moltissime novelle incentrate su relazioni clandestine o extraconiugali, cosicché è proprio un’analogia in merito ai temi trattati a corroborare il legame con Fortini. È bene, però, osservare che nelle Giornate fortiniane non si riscontra minimamente il medesimo moralismo, che si palesa invece nel Novellino (in particolare in chiusura dei singoli racconti, nella sezione intitolata «Masuccio»). Anche Adriana Mauriello, pur sottolineando l’originalità di Fortini nella realizzazione dell’architettura del suo novelliere, nota: In realtà, sia pure indirettamente, l’autore senese manifesta subito l’intenzione di inserirsi nel solco già tracciato da Boccaccio, Masuccio e Sabadino degli Arienti […]. E del resto scrostando la spessa patina di oscenità che ne ha costituito a lungo l’unica cifra connotativa, le novelle fortiniane costruite talvolta per una beffa o un

4 Giornate delle novelle, Al lettore, par. 5; corsivi miei. 5 Cfr. Giornate delle novelle, Al lettore, par. 5n.

motto arguto ma più spesso sull’immancabile triangolo adulterino, ripropongono i motivi topici di una certa narrativa comico-realistica.6

Fortini, in questo modo, fa dichiaratamente propri altri significativi modelli novellistici oltre al Decameron, un atteggiamento che si riscontra anche in Scipione Bargagli. Questi, nei suoi Trattenimenti, allude più o meno scopertamente agli scrittori di novelle che maggiormente lo hanno influenzato. Così, quando nel preambolo della Prima parte della sua raccolta, rappresentato della dedica a Fulvia Spannocchi de’ Sergardi, deve giustificare la lunga e dolorosa descrizione dell’assedio di Siena, durante il quale sono ambientate le vicende narrate nella cornice, Bargagli menziona l’esempio di altri autori che hanno dato inizio alle loro opere di intrattenimento con tragici incipit simili al suo. Pur non nominando apertmamente i modelli addotti a sostegno della sua scelta, le indicazioni che dà sul loro conto sono tanto dettagliate da non lasciare adito a dubbi in merito alla loro identificazione. Le due autorità, infatti, sono così presentate:

Né ancora veggo che, per farmene guardare, m’abbia prestato aiuto o modo alcuna riprensione che altri di somma e famosa autorità non hanno avuto intero poter di schifare, avendo già essi posto in fronte delle lor piacevolissime scritture le malinconose memorie delle crude pestilenze mandate sopra i mortali. Né meno da ciò mi hanno saputo ritrarre l’accuse, le quali poi altri autori ancora di non oscuro grido, non sentendo o di esse forse non curando, non hanno parimente potuto sfuggire, essendosi per questi in opere di simile giocondi subbietti, fatti udire i fieri e dannosi romori delle mirabili città prese per forza e saccheggiate da barbari nimici, davanti all’armonia che essi principalmente v’intendevano di formare co’ sollazzevoli detti loro. Anzi più tosto, per non andar facendo punto contra il vero, questi tali essempi m’hanno recato alquanto più di fidanza di potermi senza troppo pericolo difender sotto il loro saldo scudo appo coloro da’ quali per avventura venissero già mai questi nostri giuochi veduti.7

6 A.MAURIELLO, Introduzione, in Pietro Fortini, Le giornate delle novelle dei novizi, a cura di

Adriana Mauriello, Roma, Salerno Editrice, 1988, pp. IX-XXXVI: p. XXI.

7 S.BARGAGLI, I trattenimenti, a cura di Laura Riccò, Roma, Salerno Editrice, 1989, Preambulo I,

Il «saldo scudo» dietro il quale Bargagli si vuole difendere è rappresentato in primis da colui che ha introdotto le sue «piacevolissime scritture» con «crude pestilenze mandate sopra i mortali»: il richiamo è, indubbiamente, al Decameron di Boccaccio. Il secondo «scudo» è costituito da un altro fortunato autore la cui opera era stata pubblicata circa vent’anni prima dei Trattenimenti: con l’espressione «città prese per forza e saccheggiate da barbari nimici» Bargagli non può che alludere agli Ecatommiti di Giraldi Cinzio, in cui la brigata di novellatori fugge dalla Roma messa a ferro e fuoco dai Lanzichenecchi di Carlo V, durante il Sacco del 1527.

Da un lato, Bargagli ha presentato i punti di riferimento per il suo «orrido cominciamento» tramite delle perifrasi, il cui significato per un lettore dell’epoca non doveva essere comunque di difficile decifrazione, vista la notorietà dei referenti; dall’altro, non manca in seguito di nominare più esplicitamente i suoi modelli.

Quando, infatti, deve giustificare il motivo per cui le vere identità dei giovani della sua brigata vengono mascherate tramite l’uso di pseudonimi, adduce direttamente come antecedenti il Decameron e gli Asolani di Pietro Bembo,8

cosicché «i binari letterari sui quali si muovono i Trattenimenti riconoscono nel Boccaccio e nel Bembo i loro capostipiti».9 Ad essi va, però, aggiunto un altro nome, quello di Petrarca: nel preambolo alla Terza Parte, infatti, nel tentativo di difendersi dalle accuse mossegli dai detrattori, Bargagli cita Petrarca e Boccaccio come autori-modello in volgare «di giocondi componimenti e lieti», sebbene affermi che molti altri scrittori si sono cimentati con successo in materie simili.10 È evidente, quindi, che egli tenta di legittimare le sue scelte con il ricorso a nomi prestigiosi della tradizione letteraria italiana. Così nota Laura Riccò:

Il rigido monotematismo delle veglie senesi […] si coniuga ad una lettura in chiave di “ragionamento d’amore” del Decameron, testo sacro che […] viene additato

8 «Senza che a tali rispetti o cagioni s’aggiunga da me l’esempio de’ due primieri autori di sì fatte

materie della lingua nostra, a’ quali fu avviso di spiegare sotto finte voci i nomi delle donne e de gli uomini che condussero insieme a ragionare in simili loro trattati, l’uno, dico, nel suo Decamerone, ne gli Asolani suoi l’altro» (Trattenimenti, Parte I, par. 85).

9 L.RICCÒ, Introduzione e Nota biografica, in Scipione Bargagli, I trattenimenti, a cura di Laura

Riccò, Roma, Salerno Editrice, 1989, pp. XIII-LXXXIV: p. XLV.

insieme al canzoniere petrarchesco come exemplum stilistico all’interno di tutta la vasta gamma dei “giocondi componimenti e lieti” […]. La triade che in tal modo si costituisce (Boccaccio, Bembo, Petrarca) presiede idealmente a queste “adunanze di donne e d’uomini gentili” che per altro vengono definite, nel Preambulo della seconda parte, “amorose academie” e “corti amorose” […].11

Nonostante le modifiche apportate al modello, negli esempi finora citati Boccaccio veniva guardato con ammirazione quasi incondizionata. Meritano, però, una certa attenzione anche quei casi in cui egli costituisce un antecedente che, pur riconosciuto, risulta piuttosto ingombrante e, per questo, non sempre accolto senza remore. Nelle Sei giornate di Sebastiano Erizzo il nome di Boccaccio è ricorrente: qui, però, la libertà e la licenziosità, tanto care alla tradizione novellistica, vengono sacrificate in favore della ricerca di un corretto tenore di vita, in linea con i nuovi precetti moralistici imposti dalla Chiesa tridentina. A questo proposito, è interessante notare come il nome di Boccaccio venga proposto a livello paratestuale non dall’autore, ma dal suo editore, Lodovico Dolce, che firma la lettera di dedica a Federico Gonzaga. In essa si legge:

Di qui l’autore delle presenti Giornate, il quale è il magnifico messer Sebastiano Erizzo, nobile viniziano, […] per iscrivere alcuna cosa giovevole e degna delle sue fatiche, si mise a comporre i presenti morali avenimenti (ché così esso li chiama, per

essere ellino differenti dalle novelle, le quali tra le cose gravi contengono eziandio delle giuocose e più atte a corrompere che a ben disciplinare gli animi di chi legge):

i quali avenimenti sono per iscelta di parole, per purità di eleganza, per leggiadria di stilo e per ogni lor parte dignissimi di somma lode, sì come di pellegrino ingegno che, serbando e felicemente immitando la proprietà della lingua e le bellissime forme

usate dal Boccaccio, ha saputo di cotai cibi nudrirsi e convertirli in carne e in proprio

sangue, servendosi appresso gentilmente di molti modi affigurati di scrivere che adornano le carte di Cicerone e di altri eccellentissimi scrittori latini.12

11 RICCÒ, Introduzione e Nota biografica, cit., p. XLV.

12 S.ERIZZO, Le sei giornate, a cura di Renzo Bragantini, Roma, Salerno Editrice, 1977, Dedica a

Federico Gonzaga, par. b; corsivi miei. D’ora in avanti si farà riferimento a questa edizione con l’abbreviazione Sei giornate.

Se, da una lato, Dolce enfatizza il legame tra Erizzo e Boccaccio in merito allo stile adottato (e difficilmente si poteva fare altrimenti dopo le imposizioni di Bembo), dall’altro, sottolinea con forza la distinzione tra i «morali avenimenti» erizziani e le novelle boccacciane, che spesso e volentieri, trattando di eventi sia seri sia faceti, sono poco istruttive, se non addirittura fonte di corruzione. Il magistero di Boccaccio è ancora riconosciuto, ma con le debite modifiche e limitazioni.

Mentre nel caso di Erizzo è l’editore a pronunciarsi sui modelli cui l’opera guarda, per allontanarsene almeno in parte, non mancano altri esempi di autori che evitano di esprimersi direttamente sui propri modelli, conferendo, però, ai novellatori l’incarico di esporsi su tali questioni. Un primo esempio è costituito da Agnolo Firenzuola, che non chiama mai esplicitamente in causa Boccaccio in prima persona: nell’Introduzione alla Giornata I dei suoi Ragionamenti, infatti, i riferimenti sono solo indiretti e, per di più, volti a misconoscere il modello decameroniano. Qui leggiamo:

Né seguiterò già in questo colui il quale con sì lagrimevole principio condusse le innamorate giovani alle sue novelle, parendomi cosa poco conveniente il voler per mezo delle miserie guidare altrui ad alcun sollazo; e perciò, lasciando per or le lagrime da l’un de’ lati, entriamo per più piacevole calle nel nostro viaggio.13

È possibile riconoscere in questo passo dei Ragionamenti alcune somiglianze con la dichiarazione sopra riportata di Scipione Bargagli,14 nonostante il messaggio

dei due paratesti sia diametralmente opposto. Bargagli può aver verosimilmente tratto ispirazione proprio da Firenzuola, riprendendo la medesima strategia del richiamo indiretto ma inequivocabile alla fonte, ma ribaltandone il significato: al contrario di quanto proposto da Firenzuola, in Bargagli non si ha più il rifiuto del modello, ma una sua piena accettazione, volta a giustificare e a corroborare le scelte narrative e stilistiche dell’autore.

13 A. FIRENZUOLA, Le novelle, a cura di Eugenio Ragni, Roma, Salerno Editrice, 1971,

Introduzione I, par. 2. D’ora in avanti si farà riferimento a questa edizione con l’abbreviazione Ragionamenti.

Se nei paratesti Firenzuola allude indirettamente al nome di Boccaccio, è all’interno della cornice che i richiami al modello si fanno espliciti, grazie ai discorsi dei membri della brigata. Così, nel momento in cui la compagnia dei giovani deve decidere come trascorrere il proprio tempo, dopo essersi ritrovata in un ameno praticello nella campagna fiorentina, la futura regina, Gostanza Amaretta, propone di imitare quanto fatto dai novellatori della brigata decameroniana:

Ora mi soviene, bellissime donne, e voi, leggiadri giovani, qual fusse la cagione che movesse quella bella compagnia che, secondo che pone il Boccaccio, assai lieta si passò novellando il pestifero accidente che affliggeva allor questo paese sì aspramente; ora me ne sovien, dico, perché queste fontane, queste erbe, questi fiori, tutto questo paese par che ne invitino a fare il simigliante; e però, quando e’ vi paresse seguire in questa parte il mio consiglio, io vi diviserei di maniera la vita nostra quei pochi dì che noi facciam pensier dimorar quassù, che noi la

trapasserem<m>o non con minor sollazzo che si facessero coloro.15

Da un lato, quindi, la brigata si prefigge come modello comportamentale quello della compagnia del Decameron, dall’altro, è evidente che la tipologia di cornice che Firenzuola intende realizzare si configura come una ripresa cosciente di quella realizzata da Boccaccio, con l’eccezione del «pestifero accidente»: gli incontri dei giovani sono ambientati, infatti, in un luogo ameno e quasi fuori dal tempo. D’altro canto, va fatta anche una precisazione in merito alla dichiarazione finale di Gostanza Amaretta: quel «noi la [scil. la nostra vita] trapasserem<m>o non con minor sollazzo che si facessero coloro» sembra porsi in rapporto agonistico con quanto compiuto dai giovani della brigata boccacciana, che apparentemente doveva essere imitata in maniera pacifica («fare il simigliante»). Pare che Gostanza Amaretta non suggerisca ai compagni di limitarsi ad imitare la brigata boccacciana, ma li sproni piuttosto a fare di meglio, a copiare e a migliorare: la litote «non con minor sollazzo» sembra proprio indicare una tale presa di posizione. Il recupero del modello decameroniano è innegabile, ma Firenzuola pare non volersi fermare lì: una prova di ciò è data dal suo tentativo di arricchire

la raccolta, dando più spazio ai componimenti poetici recitati dalla brigata e, soprattutto, alle discussioni tra i giovani dedicate ai temi più svariati.

Una prova della scelta orientata ad una duttile imitazione del modello boccacciano da parte di Firenzuola può trovare una prova indiretta nelle discussioni in cui si cimenta la brigata in merito alla versificazione, allo stile e alla lingua da adottare nel fare poesia. Il giovane Selvaggio si fa qui promotore dell’innovazione, attaccando implicitamente le imposizioni bembiane, che imponevano di seguire fedelmente i grandi modelli del passato, in primis Petrarca: «Dimmi, Bianca, per tuo fé: sei tu anche tu di quelle che nel riprendere le cose altrui non adduci altra ragione se non: “E’ non l’usa il Petrarca”?».16

Fioretta ribadisce il concetto poche righe dopo, quando fa ricorso al principio classico della “convenienza”, ossia dell’adeguamento della forma al contenuto:

Questo vi confesserò io bene: che nello scrivere o prosa o versi, dove fa di bisogno avere una grande avvertenza di scegliere quelle parole e quei modi di parlare che sieno accomodati alle composizioni, alle persone, alle clausule e alla materia della quale si parla, e or prendere i gravi ora i leggeri, testé i bassi poco di poi gli alti,