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A partire dalla modifica dell’art. 2103 c.c. realizzata con lo Statuto dei lavoratori i giuslavoristi si sono chiesti quale sia la fonte giuridica di produzione della modificazione delle mansioni oltre quelle individuate nel contratto25.

Il problema sorge in quanto l’articolo fa riferimento a tre tipi diversi di mansioni: quelle di assunzione, quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte e quelle superiori. Ma mentre le prime sono contrattuali, per quelle equivalenti e quelle superiori il legislatore non precisa se la fonte debba essere come prima della riforma unilaterale o diversamente da prima consensuale.

Si possono così distinguere due orientamenti contrapposti a riguardo: uno basato sul consenso, l’altro basato sulla unilateralità del mutamento. La prima tesi (sostenuta principalmente dopo l’emanazione della norma ma che nel corso del tempo è comunque restata minoritaria) ritiene che la novella statutaria abbia abolito del tutto lo jus variandi del datore di lavoro e richiesto di conseguenza il consenso del lavoratore per qualsiasi vicenda modificativa delle mansioni rispetto a quelle contrattuali. Tale tesi c.d. panconsensualistica ha il difetto di accentuare la rigidità dell’articolo e questo è il motivo principale per cui è condivisa solo da una parte minoritaria della dottrina.

La tesi in tempi recenti è stata sostenuta da Carlo Pisani26, in controtendenza alla maggior parte della dottrina. Questi sostiene che la tesi a favore del mantenimento dello jus variandi del datore di lavoro finisce col considerare essenziale il consenso affinché gli spostamenti si possano considerare legittimi come nel caso dello spostamento a

25 B

ROLLO, op. cit., p. 15 26

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mansioni superiori. In realtà non si può negare che la teoria consensualistica abbia alcuni punti di forza, il principale è che questa appare in sintonia con le regole generali del diritto privato di immodificabilità unilaterale del contratto, ma nonostante ciò resta non condivisa dalla maggior parte dei giuslavoristi che “allontanandosi” dal diritto comune cercano di dare coerenza alla materia collegandosi al principio di libertà di iniziativa economica dell’imprenditore. Inoltre considerare che gli spostamenti siano legittimi solo se è presente il consenso del lavoratore non cambia di molto la situazione di fatto di tutela del lavoratore sia perché fra lavoratore e datore di lavoro vi è una disparità sostanziale che fa sì che le vicende modificative conservino un contenuto unilaterale vista la situazione giuridica di subordinazione e di dipendenza economica del lavoratore ma anche perché una volta che si richiede il consenso del lavoratore diviene difficile limitarsi a considerare valido solo quello esplicito e non anche quello tacito o per comportamento concludente del lavoratore.27

Si ritiene poi che nel’attuale mondo del lavoro ritenere necessario il consenso del lavoratore non consenta al datore di lavoro di adattare l’organizzazione produttiva alle mutevoli esigenze dell’impresa, rischiando di andare contro le stesse esigenze di tutela del lavoratore. Possiamo dunque concludere affermando che non è necessario il consenso del lavoratore per realizzare una modifica nelle attribuzioni delle mansioni sia a tutela della necessaria flessibilità nell’ambito dei rapporti di lavoro sia perché se il legislatore avesse voluto introdurre un cambiamento così rivoluzionario lo avrebbe fatto esplicitamente.

Per ciò che riguarda lo jus variandi il nostro ordinamento ne prevede tre tipi: quello attribuito direttamente dalla legge ad una delle due parti del contratto, quello che può essere concesso ad una delle parti da una

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clausola del contratto e infine quello riguardante il potere di conformazione del datore di lavoro.

Ovviamente quello che riguarda la materia è quest’ultimo.

L’orientamento prevalente in dottrina, che sostiene l’esistenza dello jus

variandi del datore di lavoro nel momento in cui si realizza uno

spostamento a mansioni diverse da quelle previste contrattualmente si divide comunque sull’identificazione giuridica della variazione unilaterale di mansioni nel’ambito dell’equivalenza: per alcuni si tratterebbe infatti di un vero e proprio jus variandi,cioè di un potere eccezionale del creditore di mutare la prestazione convenuta28, per altri invece di potere direttivo, ovvero di un potere normale che non modifica la prestazione dedotta nel contratto, ma ne specifica soltanto il contenuto del debito.

Alla base di questa distinzione vi è una lettura del potere direttivo “in senso stretto”, che lo vede come potere del datore di lavoro di specificare i compiti lavorativi a cui è tenuto il lavoratore, mentre lo jus

variandi è visto come un potere distinto e speciale che permette di

imporre al lavoratore mansioni eccedenti quelle previste nel contratto di lavoro, tanto da poter dire che il secondo comincia dove finisce il primo29.

Di fatto comunque si può considerare lo jus variandi come una delle manifestazioni del potere direttivo, assorbendo cioè tale concetto nel più ampio genus potere direttivo, includendovi sia il tradizionale potere di conformazione e specificazione nei limiti contrattuali delle mansioni convenute, sia del potere modificativo nei limiti legali. Ciò è possibile in quanto sia il potere direttivo che lo jus variandi appartengono alla sfera degli effetti del contratto di lavoro subordinato individuati dal codice

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LISO, op. cit., p. 165

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civile e quindi lo jus variandi può essere fatto rientrare nel più ampio esercizio del potere direttivo del datore di lavoro.

La scelta del datore di lavoro di modificare le mansioni cui è adibito il dipendente (sia che sia attribuita dal suo potere di specificazione o sia che sia attribuita dal potere di modifica) pone comunque il lavoratore in una situazione di soggezione, in quanto in entrambe le ipotesi dal punto di vista giuridico non potrà fare nulla per evitare che la modificazione si produca. Emerge dunque come ci troviamo di fronte a un problema puramente dottrinale che non influisce sulla relazione fra datore di lavoro e lavoratore.

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CAPITOLO II: LA DISCIPLINA DELLE MANSIONI