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L’uso della forza armata in Responsibility to Protect: critica delle tesi che sostengono la formazione di una nuova consuetudine

Capitolo Terzo: L’uso della forza in Responsibility to Protect La tutela dei diritti fondamentali dell’uomo e la (nuova)

3.3 L’uso della forza armata in Responsibility to Protect: critica delle tesi che sostengono la formazione di una nuova consuetudine

Dopo aver analizzato la nozione elaborata dalla Commissione Internazionale, occorre soffermarsi sull’accezione principale della R2P, quale eccezione al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali. Al riguardo, si può già parlare di una norma di diritto internazionale consuetudinario? A ben vedere, la questione non è di poco conto, poiché una simile qualificazione attribuirebbe agli Stati della comunità internazionale la possibilità di procedere in Responsibility to Protect (e quindi la facoltà dell’uso della forza) ogni qualvolta siano constatate le condizioni descritte sopra. Occorre perciò analizzare l’opinio iuris e la diuturnitas che l’istituto ha avuto, nel corso del tempo, in seno alla comunità internazionale131. Come già ricordato, in primo luogo, emerge la Risoluzione dell’Assemblea Generale del 2005 nel World Summit Outcome, con approvazione diffusa dei Capi di Stato e di Governo. Quest’ultima riafferma il ruolo primario del Consiglio di Sicurezza e, in subordine, dell’Assemblea Generale nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, nel rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario132. La nuova eccezione al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali comincia a riscuotere, così, buon consenso all’interno della comunità internazionale ed i leader

131 Sul punto già C. Stahn, ‘Responsibility to Protect: Political Rhetoric or Emerging Legal Norm?’ American Journal of International Law, Washington,

2007, p 99 e ss. 132

Si legge, nella Risoluzione del 16 settembre 2005: “We reaffirm the solemn

commitment of our States to fulfil their obligations to promote universal respect for and the observance and protection of all human rights and fundamental freedoms for all in accordance with the Charter, the Universal Declaration of Human Rights and other instruments relating to human rights and international law. The universal nature of these rights and freedoms is beyond question”. Si

vedano i paragrafi 138 e 139 che riaffermano the Responsibility to protect in seno alla comunità internazionale dell’ONU.

dei Paesi membri delle Nazioni Unite si impegnano “ad accettare la responsabilità di proteggere e ad agire in maniera conforme”133. È del

2009 invece il Report del Segretario Generale sull’implementazione della Responsibility to protect, riformulato poi nel 2014 e nel 2017134. Si invitano tutti gli Stati ed i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza a seguire i principi e la dottrina della R2P, ammettendo l’uso della forza armata in caso di circostanze eccezionali che dimostrino gravi violazioni di diritti umani fondamentali, del diritto internazionale umanitario, pulizia etnica o episodi di genocidio. Nel corso degli anni, diverse sono state le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che hanno richiamato la protezione dei civili, utilizzando la terminologia della R2P, specialmente dei bambini e delle donne nelle aree di conflitto (da un esame approfondito sono molteplici quelle adottate per la Libia, per il Sudan, per la Repubblica Centrafricana, per la Siria e per la Somalia)135. Si tratta di misure però inserite all’interno dei tradizionali mandati delle operazioni di peacekeeping che vedono un coinvolgimento energico delle truppe stanziate sul territorio136. Primo caso dell’uso della forza in responsabilità di proteggere, seppur ancora autorizzato ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, è quello individuato dalla risoluzione n. 1706

133 Risoluzione del 16 settembre 2005 –World Summit Outcome, paragrafi 138 e

139.

134 Report del Segretario Generale, Fulfilling our collective responsibility:

international assistance and the responsibility to protect, dell’ 11 luglio 2014,

Report del Segretario Generale del 10 agosto 2017. 135

Tra le tante, si vedano sulla protezione dei bambini: la n. 1261 del 30 agosto 1999, la n. 1379 del 20 novembre 2011 la n. 1460 del 30 gennaio 2003, la n. del 26 Luglio 2005, la n. 1820 del 19 giugno 2008; sulla sicurezza delle donne: la n. 1325 del 31 Ottobre 2000, la n. 1820 del 19 ottobre 2008, la n. 1888 del 30 settembre 2009.

136 Non senza critiche: diversi membri Nato sono infatti riluttanti ad affidare

all’ONU queste operazioni, a causa della indeterminatezza del mandato. Sul punto: Diplomatische Akademie Wien, The UN Security Council and The

Responsibility to Protect, Policy, Process and Practice, n.1, International Peace

del 2006 sul Sudan. In particolare, nella decisione del Consiglio di Sicurezza si fa riferimento alle operazioni in Darfur ed alla grave crisi umanitaria della regione137. Per porre fine alle gravi violazioni dei diritti umani fondamentali ed al genocidio perpetrato nei confronti della popolazione locale, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite decise di esercitare la propria responsabilità ai sensi del capitolo VII della Carta. La risoluzione n. 1706 del 2006 è quindi un’ulteriore conferma del mutato atteggiamento della comunità internazionale nei confronti della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, alla cui base – si è visto – si declina una nuova idea di sovranità quale esercizio responsabile di governo. Nel testo della decisione, il Consiglio di Sicurezza, condannando fermamente le violazioni di diritto internazionale umanitario, autorizza il personale della missione UNMIS ad usare tutti i mezzi necessari: 1) in caso di legittima difesa e per salvaguardare le strutture e gli equipaggiamenti della missione; 2) per assicurare l’implementazione dell’accordo di pace siglato tra le fazioni belligeranti; 3) per la protezione dei cittadini sotto minaccia di violenza fisica e 4) per prevenire nuovi attacchi e nuove violazioni di diritti umani nei confronti della popolazione locale138. Nel caso di specie,

137 Il conflitto in Darfur del 2003 tra le forze ribelli e l’esercito governativo, con

l’appoggio dei Janjawid, generò la morte di più di 400mila persone. Si trattò di un vero e proprio genocidio nei confronti della popolazione della regione, accusata di aver sostenuto i movimenti di liberazione nazionale del Paese. L’intervento delle Nazioni Unite risultò fondamentale, vista la grave crisi umanitaria del Sudan, per porre fine alle ostilità e salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini. Sul punto, A. Cassese, Il sogno dei diritti umani, Feltrinelli, Milano, 2008.

138 Il testo originale della risoluzione n. 1706 del 2006, p. 6 è il seguente: “The Security Council, acting under Chapter VII of the Charter of the United Nations, decides that UNMIS is authorized to use all necessary means, in the areas of deployment of its forces and as it deems within its capabilities: to protect United Nations personnel, facilities, installations and equipment, to ensure the security and freedom of movement of United Nations personnel, humanitarian workers, assessment and evaluation commission personnel, to prevent disruption of the implementation of the Darfur Peace Agreement by armed groups, without prejudice to the responsibility of the Government of the Sudan, to protect

quindi, l’uso della forza, seppur sempre ancorato all’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, è giustificato attraverso gli argomenti tipici della responsabilità di proteggere, a tutela dei diritti umani fondamentali e per porre fine alla “large scale of loss life and ethnic cleansing e alle gross and systematic violations of human rights”. La risoluzione sul Darfur sembra perciò confermare la meritevolezza della nuova clausola di giustificazione, condividendone l’impostazione e le motivazioni e diffondendo una prima diuturnitas e opinio iuris 139 . L’opera di consolidamento della Responsibility to Protect quale nuova eccezione al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali si è interrotta, però, a partire dal 2011 con l’abuso che si è fatto dell’istituto in Libia. Al riguardo occorre richiamare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n. 1970 e 1973 del 2011 che fanno un esplicito riferimento alla Responsibility to Protect. Nel paragrafo 4 della Risoluzione n. 1973, il Consiglio: “Authorizes Member States that have notified the Secretary-General, acting nationally or through regional organizations or arrangements, and acting in cooperation with the Secretary-General, to take all necessary measures to protect civilians and civilian populated areas under threat of attack in the Libyan Arab Jamahiriya, including Benghazi, while excluding a foreign occupation force of any form on any part of Libyan territory, and requests the Member States concerned to inform the Secretary-General immediately of the measures they take pursuant to the authorization conferred by this paragraph, which shall be immediately reported to the civilians under threat of physical violence; in order to support early and effective implementation of the Darfur Peace Agreement, to prevent attacks and threats against civilians”.

139 Sulle posizioni della dottrina in materia, che spaziano dall’accoglimento

fervido al rigido rifiuto della responsabilità di proteggere, C. Focarelli, La

dottrina della Responsabilità di Proteggere e l’intervento umanitario, in Riv. dir.

Security Council”. Con la missione Nato Unified Protector sono, perciò, seguiti interventi militari - aerei e navali - a protezione dei civili. È stata inoltre istituita una no fly zone con approvazione del Consiglio di Sicurezza per intimare la fine del conflitto. La risoluzione n. 1973 del 2011 ha però evidenziato diverse criticità in materia. Sebbene il Consiglio di Sicurezza abbia cercato di confermare la dottrina della Responsibility to Protect, richiamandola all’interno della risoluzione e riconoscendo la propria responsabilità nella tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, il dispositivo della decisione è risultato poco chiaro e contraddittorio, alimentando i dubbi sulla meritevolezza della responsabilità di proteggere. Il testo della risoluzione è, infatti, abbastanza vago, non riuscendo ad individuare con precisione gli obiettivi da salvaguardare, i mezzi da impiegare e la durata del mandato dell’operazione. Non si capisce, inoltre, a chi spetti il compito di guidare e supervisionare la missione, controllando che le attività svolte dai membri della comunità internazionale contro lo Stato libico siano coerenti con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Alla luce di queste difficoltà interpretative, nonostante il Consiglio di Sicurezza abbia promosso l’adozione di misure coercitive comportanti l’uso della forza per la tutela di diritti umani fondamentali (facendo rientrare tale nuovo fine nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale) 140 ,

140 È forse questo il punto più rilevante della risoluzione n. 1973 del 2011 sulla

Libia. Si può dire per la prima volta, l’adozione di misure coercitive comportanti l’uso della forza, ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, da parte del Consiglio di Sicurezza ha riguardato un fine non tradizionalmente rientrante nel “mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”. Per la prima volta, cioè, il Consiglio di Sicurezza, in deroga ai casi per i quali può autorizzare o delegare l’uso della forza, ha riconosciuto che la tutela dei diritti umani fondamentali è di vitale importanza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e pertanto può, quando necessario, comportare anche l’uso della forza armata ad opera della comunità internazionale. Questa nuova interpretazione – si è visto – si basa su una rinnovata idea di sovranità, quale

l’applicazione della responsabilità di proteggere ha subito un profondo ridimensionamento. Le criticità sollevate, infatti, hanno messo in evidenza la pericolosità dell’istituto (rectius: di un suo abuso), portando maggiore diffidenza in seno alla comunità internazionale. Di fatto, il mandato della R2P in Libia è stato strumentalizzato e si è trasformato nel sostegno alle forze ribelli che combattevano contro il regime di Gheddafi. Né la situazione è migliorata dopo la caduta del dittatore e tutt’ora il Paese è spaccato in due141. In sostanza, la missione si è rivelata fallimentare,

incontrando numerose critiche alla R2P da parte della comunità internazionale, confermate, l’anno successivo, dal veto di Russia e Cina contro la bozza di risoluzione per la protezione dei civili in Siria, vittime del regime del Presidente Assad. Alcuni membri delle Nazioni Unite continuano a dimostrare scetticismo verso la tipizzazione di nuove eccezioni al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali, timorosi di una restrizione eccessiva del suo contenuto. Nonostante l’evidente meritevolezza della Responsibility to Protect, a tutela dei diritti umani fondamentali, i pericoli di strumentalizzazione dell’istituto tendono a frenare il pieno riconoscimento della scriminante da parte della comunità internazionale142. I recenti bombardamenti missilistici nei confronti della

esercizio di governo responsabile da parte degli Stati nei confronti dei propri cittadini.

141

Si fa riferimento al governo democraticamente eletto di Tobruch e a quello di Tripoli sotto la guida del Generale Haftar.

142 Secondo E. Cannizzaro, Responsabilità di proteggere e intervento delle Nazioni Unite in Libia, in Riv. dir. int., 3, 2011, p. 824: “Dal punto di vista

politico, l’esperienza dell’attuazione della risoluzione 1973 indurrà gli Stati a guardare con maggiore cautela al coinvolgimento delle Nazioni Unite nelle crisi umanitarie e costituirà verosimilmente un disincentivo ad autorizzare l’uso della forza in situazioni di questo tipo. Più in generale essa potrebbe avere l’effetto paradossale di ostacolare la tendenza a ricondurre la dottrina della responsabilità di proteggere nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite e, quindi, ad assicurare una forma istituzionale di reazione nei confronti di gravi violazioni dei diritti fondamentali”. Cannizzaro aderisce all’interpretazione che fa della responsabilità di proteggere un meccanismo vincolante per gli Stati membri del Consiglio di

Siria, accusata di far uso di armi chimiche contro i ribelli e la popolazione civile hanno rimesso in discussione la liceità della responsabilità di proteggere e dell’uso della forza in caso di gravi crisi umanitarie143. Il primo intervento statunitense contro la base siriana di Shayrat e il secondo attacco posto in essere dagli Stati Uniti con la partecipazione della Francia e della Gran Bretagna contro tre siti del governo siriano, coinvolti nello stoccaggio di armi chimiche, ha sollevato diversi dubbi sulla legittimità di una simile operazione in diritto internazionale. In parte i raids realizzati dai tre Paesi occidentali hanno accolto il consenso del Segretario generale della Nato, del Presidente del Consiglio europeo, di buona parte dei Paesi europei, della Turchia, dell’Arabia Saudita e in parte dall’Unione Africana144. Totalmente negativi, invece, sono stati i pareri di Russia e Cina che avevano già posto il veto sulla proposta di intervento in Siria formulata in seno al Consiglio di Sicurezza. Le argomentazioni alla base delle operazioni sviluppate dagli Stati Uniti, dalla Francia e dal Regno Unito sono molteplici. Secondo il Presidente degli Stati Uniti d’America, “è nel supremo interesse nazionale prevenire ed impedire la produzione, la

Sicurezza di non ostacolare – tramite veto – le risoluzioni di autorizzazione dell’uso della forza in caso di gravi crisi umanitarie. Secondo questa accezione, l’operatività della responsabilità di proteggere sarebbe comunque sottoposta, quindi, al consenso ed alla decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

143 Nel 2013 la Siria aveva aderito alla Convenzione di Parigi del 1993 sul divieto

di messa a punto, stoccaggio, produzione e uso di armi chimiche. Si era inoltre obbligata alla loro distruzione, con un piano di disarmo incorporato nella risoluzione n. 2218 del 2013 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Tra il 4 ed il 7 aprile del 2018, caccia siriani effettuarono diversi attacchi con armi chimiche nei confronti del villaggio di Khan Shaykhun e della città di Douma, nelle vicinanze della capitale Damasco. Quanto posto in essere dal regime governativo di Assad suscitò forte critiche da parte della comunità internazionale. Per una ricognizione generale, N. Ronzitti e E. Sciso, I conflitti in Siria e Libia.

Possibili equilibri e le sfide al diritto internazionale, Giappichelli, Torino, 2018. 144 Più reticente sul punto, invece, la Lega Araba. Si veda, N. Ronzitti, Impiego di armi chimiche in Siria, intervento di umanità e responsabilità di proteggere, in

Riv. dir. int., 3, 2018, p. 851 e ss. e E. Sciso, Responsabilità di proteggere in

diffusione e l’uso di armi chimiche145”, posto che quanto compiuto dal

governo siriano è contrario alla Convenzione del 1993 sul divieto di messa a punto, stoccaggio, produzione e uso di armi chimiche e rappresenta una forte violazione del diritto internazionale, essendo, la condotta della Siria, qualificabile come crimine contro l’umanità146. Molto simili le posizioni della Francia, che rivendica la legittimità e la necessarietà dell’intervento multinazionale per la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, come reazione indispensabile della comunità internazionale 147 .

L’argomentazione del Regno Unito è, invece, tecnicamente più precisa ed interessante. Nel comunicato del governo del 14 aprile del 2018148 si legge che il raid è stato compiuto per porre fine alle sofferenze della popolazione e per dissuadere il regime siriano dal ricorrere all’arma chimica, il cui uso, secondo il governo del Regno Unito, costituisce un crimine di guerra ed un crimine contro l’umanità. Secondo il comunicato, l’uso della forza contro la Siria si è reso necessario per la situazione di grave crisi umanitaria, così come accertata dalla comunità internazionale, e come misura indispensabile e di extrema ratio, non essendo possibili

145 D. Trump, Statement on Syria. National Security and Defense del 13 aprile

2018, consultabile sul sito della Casa Bianca www.whitehouse.gov.

146 Si tratta quindi di una forte violazione del diritto internazionale, dato che la

norma che disciplina i crimini contro l’umanità è riconosciuta come norma di jus cogens dell’ordinamento internazionale con efficacia erga omnes nei confronti di tutti i membri della comunità internazionale. Secondo il rappresentante degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza, ambasciatrice N. Haley, gli Stati Uniti, la Francia ed il Regno Unito hanno agito non per vendetta, dimostrazione o punizione ma per impedire l’uso delle armi chimiche e per sottolineare la responsabilità della comunità internazionale e della Siria per le atrocità commesse contro l’umanità.

147 Sul punto è intervenuto il Presidente francese Macron, spiegando che

l’intervento militare contro la Siria rappresentava una risposta necessaria ai massacri chimici commessi all’interno del suo territorio, per porre fine alle gravi violazioni del diritto internazionale. Si veda quanto riportato da N. Ronzitti,

Impiego di armi chimiche in Siria, intervento di umanità e responsabilità di proteggere, in Riv. dir. int., 3, 2018, p. 851 e ss.

148 Syria action, UK government legal position. Policy paper del 14 aprile 2018,

ulteriori alternative. L’intervento posto in essere dalla forza multinazionale sarebbe legittimo, inoltre, in quanto proporzionato e strettamente limitato allo scopo (the minimum necessary to achieve that end and for no other purpose). Rispettando tali condizioni, la reazione della comunità internazionale sarebbe giustificata per prevenire e reprimere nuove catastrofi umanitarie. In quest’ottica, emerge la nuova accezione della sovranità e viene confermata la responsabilità di proteggere degli Stati come diritto-dovere di intervento in caso di gravi violazioni di norme cogenti del diritto internazionale. Il caso della Siria del 2018, secondo la reazione della comunità internazionale e le argomentazioni degli Stati Uniti, della Francia e, soprattutto, del Regno Unito sembrano confermare quanto consolidato nel corso del tempo in favore della Responsibility to protect. Le argomentazioni invocate dagli Stati cercano, inoltre, di rispondere alle critiche sorte dopo l’intervento in Libia, interpretando in maniera restrittiva e precisa la nuova clausola di giustificazione, senza pericoli di sconfinamento o abuso dell’istituto. E tuttavia, non sembra si possa affermare con sicurezza che l’opinione in questione sia condivisa in modo unanime dalla comunità internazionale, visti i veti e le smentite della Cina e della Russia in seno al Consiglio di Sicurezza. Altro riferimento alla Responsabilità di proteggere è quello contenuto nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n. 2399 e n. 2439 del 2018, rispettivamente sulla Repubblica Centrafricana e sulla Repubblica democratica del Congo149. Nella prima si richiama la responsabilità primaria dello Stato, per la protezione della popolazione sottoposta alla sua sovranità, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica, dal

149 Si tratta delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n.

2399 del 30 gennaio 2018 e n. 2439 del 30 ottobre 2018, con riferimento alla situazione di grave crisi umanitaria nella Repubblica Centrafricana e nella Repubblica democratica del Congo. Si rinvia al sito ufficiale delle Nazioni Unite, www.un.org.

genocidio e dai crimini contro l’umanità150. Nella seconda, più recente, il

richiamo è comunque alla sovranità ed alla responsabilità dello Stato del Congo per la protezione dei cittadini all’interno del suo territorio dai crimini di guerra e dai crimini contro l’umanità151. Costante si rivela, dunque, il riferimento alla Responsibility to protect nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Sembra che si sia formata quasi una prassi all’interno dell’organo delle Nazioni Unite nel fare della Responsabilità di proteggere uno degli obiettivi fondamentali degli Stati nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. L’accezione qui pienamente condivisa è quella della responsabilità degli Stati nella tutela dei diritti fondamentali della popolazione locale. Si può dire, quindi, compiuto il