Capitolo Terzo: L’uso della forza in Responsibility to Protect La tutela dei diritti fondamentali dell’uomo e la (nuova)
3.4 Verso una nuova interpretazione della Responsibility to Protect: tra intervento umanitario ed autorizzazione all’uso della forza del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La responsabilità della comunità internazionale in caso di violazione di norme erga omnes In virtù delle considerazioni fin qui svolte, la nuova nozione della Responsabilità di proteggere sembra essere oggetto di interpretazioni divergenti, più o meno condivise dalla comunità internazionale. Pienamente consolidata è l’accezione che fa della Responsibility to protect l’esercizio responsabile della sovranità degli Stati a tutela dei diritti fondamentali della popolazione. Fortemente condivisa in seno alla comunità internazionale e alle Nazioni Unite (visto il frequente richiamo delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza) è la Responsibility to prevent degli Stati nei confronti dei propri cittadini dal compimento di crimini di guerra, crimini di pace, crimini contro l’umanità, pulizia etnica e genocidio. Sembra questo il nocciolo duro della R2P pienamente riconosciuto e consolidato dalle opinioni degli Stati, che si inserisce tra i fini delle Nazioni Unite in un’ottica nuova ed innovativa. A differenza dell’intervento umanitario (quale uso della forza), spesso visto come un’ingerenza unilaterale contro la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale dello Stato, la Responsabilità di proteggere, come si è visto, ha una accezione più vasta, comprendendo non solo l’uso della forza per intento umanitario ma anche (e prima) la responsabilità dello Stato nell’esercizio della sua sovranità e (dopo) la responsabilità della comunità internazionale nel ripristinare la pace e favorire la ricostruzione successiva al conflitto. Mentre l’intervento umanitario ha carattere limitato alla bonifica della situazione di grave crisi umanitaria, la Responsibility to Protect ha un raggio d’azione molto più ampio. E proprio per rispondere alle critiche mosse alla figura dell’intervento umanitario che la R2P se ne
distanzia, fornendo un’interpretazione innovativa basata su una diversa idea della sovranità. Quest’ultima, come si è visto, è delegata dalla comunità internazionale agli Stati, alla stregua di un mandato, a tutela della popolazione civile e per l’esercizio responsabile di governo. Venendo meno tali condizioni, la validità della delega è inficiata ed è compito, nonché dovere, della comunità internazionale intervenire per ripristinare la situazione. In quest’ottica, a differenza dell’intervento umanitario, l’intervento in responsabilità di proteggere, data l’accezione più ampia, non è più visto come un’ingerenza unilaterale ma come l’esercizio legittimo della comunità internazionale a favore della popolazione civile ed a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. A differenza dell’intervento umanitario, inoltre, la R2P, che opera con l’uso della forza, è sottoposta a precise condizioni: 1) la situazione di grave crisi umanitaria deve essere pienamente accertata e riconosciuta dalla comunità internazionale; 2) l’uso della forza deve rappresentare l’ultimo rimedio praticabile, non essendo previste diverse alternative (lo Stato che esercita la sovranità è perciò unwilling or unable di far fronte alla situazione); 3) l’uso della forza deve risultare proporzionale e circoscritto all’obiettivo di porre fine alla situazione di grave crisi umanitaria; 4) deve trattarsi di intervento multinazionale, in modo da evitare abusi unilaterali da parte degli Stati, secondo precise regole di ingaggio. Soddisfacendo tali condizioni, la Responsibility to protect si differenzia nettamente dall’intervento umanitario e risponde ampiamente alle critiche mosse a suo carico. Tale accezione della R2P ha, inoltre, favorito, come si è già discusso, l’allargamento delle competenze e delle azioni del Consiglio di Sicurezza in materia di diritti fondamentali dell’uomo. Si è, cioè, riconosciuto che la tutela di tali diritti rientri tra gli obiettivi dell’organo delle Nazioni Unite nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Il consolidamento del nocciolo duro della responsabilità di
proteggere è confermato dal richiamo costante dell’istituto nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza157. Questa tendenza ha, di fatto,
indotto diversi autori e lo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite ad un’interpretazione particolare della R2P158. Si è subordinato, cioè, l’uso della forza in responsabilità di proteggere, dopo aver riconosciuto l’ammissibilità di una simile operazione in seno alle Nazioni Unite, all’espressa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Di più: per differenziare l’autorizzazione del Consiglio, dalle normali misure coercitive adottate ai sensi del capitolo VII della Carta, si è previsto un meccanismo particolare. L’uso della forza ai sensi del sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite è vincolato al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. In nessun modo, prima d’ora, poteva essere invocato per la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, posto che un simile intervento non è previsto da alcuna disposizione della Carta. L’ancoraggio della R2P all’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza ha voluto ampliare la possibilità dell’uso della forza in caso di gravi situazioni di crisi umanitaria, permettendo all’organo delle Nazioni Unite
157 Sul mutato paradigma all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite, H. Willmot e R. Mamiya, Mandated to protect: Security Council practice
on the protection of civilians, in M. Weller, The Oxford Handbook of the use of force in international law, Oxford University Press, Oxford, 2015, p. 375 e ss. Si
legge, p. 378: “It is fairly clear that the original objectives of the 1945 collective
security agreement were focused on the use of force between States, and the Security Council was not intended to concern itself with purely internal situation. However, Security Council practice quickly evolved in the direction of determining that threats to the peace can arise from internal conflicts and result from grave violations of human rights and humanitarian law, suggesting a move towards a more people-centred approach to the maintenance of international peace and security”. Nel testo si richiama, inoltre, il famoso Brahimi Report del
2000 che, dopo i fallimenti del Ruanda e della Bosnia, tenta di risvegliare la coscienza e la responsabilità della comunità internazionale per la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo.
158 Si vedano i già citati Report del Segretario Generale nel corso degli anni. In
dottrina, per esempio, fermamente convinto di questa interpretazione N. Ronzitti,
Impiego di armi chimiche in Siria, intervento di umanità e responsabilità di proteggere, in Riv. dir. int., 3, 2018, p. 851 e ss.
di compiere tali operazioni. Sull’ampliamento dei fini delle Nazioni Unite, si è visto, sembra esserci consenso unanime da parte della comunità internazionale. Si è voluto, però, prevedere un ulteriore meccanismo: in tali situazioni il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sarebbe obbligato ad autorizzare l’uso della forza, senza opporre alcun veto. Si realizzerebbe una sorta di codice di condotta (rectius: una consuetudine) vincolante soprattutto per gli Stati permanenti, che sarebbero tenuti a prestare il loro consenso, senza possibilità di contrasto, al compimento di queste operazioni e per la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. In questo senso, emergerebbe la responsabilità di proteggere della comunità internazionale, quella di evitare tragedie umanitarie e porre fine a sofferenze ed inutili massacri. Codesta interpretazione, però, riportando l’uso della forza nelle mani del Consiglio di Sicurezza presenta forti perplessità, risolvendosi in un nulla di fatto a livello operativo. Essendo il Consiglio di Sicurezza un organo politico, non si possono certo vincolare le sue decisioni, per una consuetudine che mai si è sviluppata. Verrebbe meno la funzionalità dell’organo quale rappresentante della volontà discrezionale degli Stati ed il suo senso all’interno delle Nazioni Unite. Si potrebbe discutere di una modifica delle modalità di voto in seno al Consiglio, di una decisione sussidiaria dell’Assemblea Generale ma il tutto richiederebbe una modifica della Carta che non è mai arrivata e che difficilmente potrà mai arrivare. Occorre perciò dissentire da una simile interpretazione della responsabilità di proteggere che, seppur meritevole di tutela, finisce per rendere impraticabile la nuova clausola di giustificazione. Si ritiene che la R2P debba e possa essere attivata anche al di fuori degli organi delle Nazioni Unite, in azioni, preferibilmente, multilaterali di Stati. Questo non esclude la possibilità che il Consiglio di Sicurezza possa comunque monitorare e supervisionare le operazioni, accertando anche le gravi violazioni di diritto umanitario. Le sedi delle
Nazioni Unite sembrano essere il luogo più idoneo per formare consenso ed accertare, in maniera obiettiva, le situazioni che renderebbero attivabile la responsabilità di proteggere. Una volta che la comunità internazionale abbia confermato, in seno o al di fuori degli organi delle Nazioni Unite, la presenza di gravi violazioni del diritto internazionale, l’operatività della responsabilità di proteggere sarebbe pienamente giustificata (con il rispetto delle altre condizioni sopra richiamate), senza bisogno di alcuna autorizzazione. È in questa accezione che acquista anche senso la verifica di una consuetudine in materia. L’analisi che sopra si è proposta verteva principalmente su codesta accezione della R2P ed ha constatato che difficilmente può dirsi pienamente formata, in seno alla comunità internazionale, una norma eccettuativa al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali159. Le diffidenze di molti Paesi e la scarsa diuturnitas della clausola di giustificazione farebbero propendere per un giudizio, al momento, negativo. E a ben vedere, le critiche mosse a tale interpretazione da parte degli Stati, come Russia e Cina, vertono sull’assenza di una solida giustificazione a livello giuridico (sull’attribuzione di una simile potestà), posto che la norma sul divieto dell’uso della forza è una norma di jus cogens, che non può essere certo superata da una nuova consuetudine che non abbia valenza rafforzata (ammesso che l’uso della forza in R2P sia qualificato come consuetudine di diritto internazionale). Né tantomeno le nuove argomentazioni che differenziano la responsabilità di proteggere dall’intervento umanitario possono da sole legittimare un simile intervento. L’ampia accezione della R2P, sebbene risponda ad alcune criticità mosse nei confronti della figura tradizionale dell’intervento umanitario, non può da sola giustificare la violazione di una norma del diritto internazionale avente carattere cogente
159 Per un’analisi storica, si veda T.H. Lee, The Law of war and the
Responsibility to Protect civilians: a reinterpretaion, in Harvard International
ed efficacia erga omnes. La nuova concezione della sovranità come delega della comunità internazionale è molto persuasiva, ma non basta a fondare una nuova eccezione al divieto dell’uso della forza. D’altro canto, non si può certo rinnegare la responsabilità della comunità internazionale per la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Non si possono certo disconoscere l’importanza e la necessarietà delle operazioni militari a salvaguardia delle popolazioni civili vittime di crimini di guerra, crimini contro la pace, crimini contro l’umanità, pulizia etnica e genocidio. Gli Stati non possono certo tollerare massacri e sofferenze a danno di vite umane. Ne va della credibilità e della funzione della stessa comunità internazionale e del sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite. Non è questa la sede per analizzare le giustificazioni alla base di una simile responsabilità. Si tratta di argomentazioni politiche, filosofiche, morali e di diritto naturale che fanno propendere per una soluzione assolutamente affermativa160. Compito della presente trattazione, a questo punto, è quello di fornire un’interpretazione diversa della Responsibility to protect su basi giuridiche, diverse dal diritto naturale, che possano giustificare l’uso della forza a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, posto che nessuna consuetudine internazionale sembrerebbe essersi formata in materia. Bisogna far fronte, si è detto, a norme cogenti del diritto internazionale, come il divieto dell’uso della forza, e ai concetti inviolabili di sovranità, indipendenza e integrità territoriale degli Stati. Si tratta di un bilanciamento difficile e rischioso che ha bisogno di un’attenta ed accurata soluzione. La risposta a tale quesito dovrebbe dipendere da una diversa impostazione del problema. Alla base della Responsabilità di proteggere, affinché si possa superare una norma di jus cogens, è necessario che vi sia un’altra norma dell’ordinamento internazionale
160 Per un’interessante approfondimento in materia, sul concetto di guerra giusta,
classico dilemma della comunità internazionale, A. Loretoni, Teorie della pace.
dotata della stessa forza dispositiva. La soluzione, a ben vedere, non è difficile da rintracciare. Bisogna muoversi in un’ottica diversa per giustificare l’intervento in esame. La responsabilità di proteggere nasce principalmente come reazione a gravi violazioni di diritti umani fondamentali, come i crimini di guerra, i crimini contro la pace, i crimini contro l’umanità, la pulizia etnica ed il genocidio. Si tratta di atti altamente offensivi, condannati e considerati come tali all’unanimità da parte della comunità internazionale. Come già accennato in precedenza, le norme che disciplinano queste fattispecie sono oggi considerate come norme fondamentali dell’ordinamento internazionale, con forza cogente ed efficacia erga omnes. Ai crimini sopra citati e previsti in via esemplificativa dallo Statuto della Corte Penale Internazionale,161 si aggiungono poi il divieto di tortura, di schiavitù ed il principio di autodeterminazione dei popoli162. La qualificazione dei requisiti di operatività della R2P come norme di jus cogens con efficacia erga omnes permette di affrontare un’interessante riflessione. Se l’operabilità della Responsibility to protect dipende dalle lesione di norme cogenti del diritto internazionale, la reazione degli Stati in R2P tramite uso della forza potrebbe venir giustificata proprio sulla base della violazione di tali fattispecie. La responsabilità di proteggere, agendo a difesa di norme di jus cogens, opera a salvaguardia dell’intero ordinamento internazionale. Avendo le norme di jus cogens carattere erga omnes, ogni membro della comunità internazionale è perciò legittimato ad intervenire per ripristinare lo stretto rispetto del diritto internazionale. Si tratta di giustificare, quindi, in che modo l’uso della forza sarebbe consentito in vista della violazione
161 Si tratta dello Statuto di Roma del 1998 che istituisce la Corte Penale
Internazionale. Si vedano gli art. 6 e ss. che individuano le fattispecie descritte.
162 Si è già detto che non esiste un elenco preciso delle norme di jus cogens
riconosciute dalla comunità internazionale. Quelle indicate dovrebbero trovare il consenso pieno degli Stati. A. Cassese, Diritto Internazionale, Il Mulino, Bologna, 2017.
di una norma dal carattere cogente. La risposta al quesito è facilmente riscontrabile anche nella prassi: quando entrano in conflitto due norme di jus cogens a tutela di interessi distinti occorre effettuare un bilanciamento delle due disposizioni. Occorre cioè valutare quale sia l’interesse preminente – nonostante entrambe le norme abbiano carattere fondamentale – nella risoluzione del caso specie ed alla luce delle circostanze. Si può agevolmente intuire come non sempre il bilanciamento sia facilmente praticabile. Ad ogni modo risulta però necessario analizzare con accuratezza ed attenzione le possibili conseguenze che le diverse scelte comportano. A ben vedere, è quanto accade (già) con riferimento al principio di autodeterminazione dei popoli. Si è messo in evidenza, nel capitolo precedente, che il principio in esame rappresenta una deroga al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali, attribuendo anche a Stati terzi la possibilità di intervenire. Nel caso di specie, l’uso della forza è permesso al Movimento di liberazione nazionale per l’acquisto dell’indipendenza così come ad altri attori della comunità internazionale che partecipano in sua difesa. Essendo il principio di autodeterminazione dei popoli una norma di jus cogens pienamente riconosciuta dalla comunità internazionale,163 così come il divieto dell’uso della forza, si opera un bilanciamento tra le disposizioni, individuando una sorta di gerarchia tra i due principi. La stessa operazione potrebbe essere perciò compiuta con riferimento alla responsabilità di proteggere, valutando caso per caso (come d’altronde previsto dai requisiti della clausola di giustificazione), la ragionevolezza e l’utilità dell’intervento. Sembra che la ponderatezza del bilanciamento sia in re ipsa: quando l’uso della forza, a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, sia circoscritto e limitato per porre fine alle gravi violazioni del diritto internazionale e alle atroci sofferenze della popolazione, senza comportare un peggioramento
della situazione, la sua legittimità sarebbe evidente e manifesta agli occhi della comunità internazionale. L’intervento in Responsabilità di proteggere reagirebbe quindi alla violazione di una norma di jus cogens, ripristinandone l’osservanza, e senza integrare alcuna violazione del divieto previsto dall’art. 2,4 delle Nazioni Unite. L’uso della forza sarebbe, infatti, meritevole di tutela in quanto teso alla protezione di principi cardini dell’ordinamento internazionale (così come per il principio di autodeterminazione dei popoli) e non potrebbe integrare alcuna violazione del divieto, mancando l’intenzionalità dell’attacco contro l’indipendenza e l’integrità territoriale dello Stato incapace di provvedere alla salvaguardia dei suoi cittadini. In altri termini, le norme poste alla base della Responsibilit to protect, visto il loro carattere cogente, diverrebbero derogatorie del divieto dell’uso della forza, alla luce del bilanciamento sopra effettuato e come scelta comprovata dell’ordinamento internazionale nel suo complesso. L’efficacia erga omnes delle disposizioni renderebbe lecita la reazione degli Stati, con le modalità sopra descritte, per il rispetto dei principi supremi del diritto internazionale164. È chiaro che l’uso della forza così inteso debba essere attentamente monitorato e sottostare a precise regole di ingaggio. Non sembra però che i pericoli operativi di un simile intervento possano compromettere la meritevolezza della clausola di giustificazione, almeno in via teorica, ed escludere, a priori, la sua legittimità. In quest’ottica, l’uso della forza in Responsabilità di proteggere, basandosi come il principio di autodeterminazione dei popoli, su norme cogenti meritevoli di tutela diverrebbe sempre giustificabile (salvo l’accertamento delle modalità) nelle relazioni internazionali. Sarebbe, a ben vedere,
164 Per una classificazione generale delle forme di reazione collettiva in caso di
violazione di un illecito erga omnes, P.Picone, Le reazioni collettive ad un
illecito erga omnes in assenza di uno Stato individualmente leso, in Riv. dir. int.,
un’interpretazione nuova e rivoluzionaria, costruita su solide basi giuridiche, data la mutata sensibilità in materia della comunità internazionale, e coerente con la nuova idea della sovranità degli Stati come esercizio responsabile delle proprie prerogative. Allo stesso modo, le stesse Nazioni Unite acquisterebbero maggiore credibilità nello svolgimento della loro funzione165. A conferma di questa nuova interpretazione della Responsibility to protect si pone l’obbligo di prevenzione extraterritoriale del genocidio, imposto dalla Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948 ed avvallato dalla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Bosnia vs. Serbia del 2007166. La decisione in esame fa il punto sulla lamentata violazione del diritto internazionale umanitario da parte della Serbia nei confronti della Bosnia per i fatti del 1995 quando era ancora costituita la Repubblica federativa socialista di Jugoslavia. La Bosnia lamentava la responsabilità del governo centrale della Serbia di aver violato la Convenzione sul Genocidio e di non essersi adoperata per prevenire ed evitarlo. La Corte Internazionale di Giustizia nega alcun coinvolgimento della Serbia con gli autori del massacro del 1995, escludendone la complicità. E tuttavia riconosce la responsabilità di Belgrado per non aver impedito la strage commessa dai serbi di Bosnia in Srebrenica. In base all’art. 1 della Convenzione sul genocidio,167 la Corte
165 Alle stesse conclusioni giunge M. Longobardo, L’obbligo di prevenzione del Genocidio al di fuori del proprio territorio come base della responsabilità di proteggere. Rilievi critici, in A. Di Stefano, Un diritto senza terra?, Giappichelli,
Torino, 2015, p. 493 e ss. con riferimento al solo crimine di genocidio.
166 Sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 26 febbraio 2007
sull’applicazione della Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio, Bosnia vs. Serbia, consultabile sul sito della Corte www.icj-cij.org.
167 Il testo originale dell’art 1 della Convenzione per la prevenzione e repressione
del Genocidio è il seguente: “The Contracting Parties confirm that genocide,
whether committed in time of peace or in time of war, is a crime under international law which they undertake to prevent and to punish”.
individua un duplice obbligo in capo agli Stati: quello di prevenire e quello di punire la commissione degli atti di genocidio. In base alla separazione delle due fattispecie giuridiche, l’obbligo di prevenire individuato dalla Corte non è legato al territorio dello Stato in cui si perpetra il massacro ma assume carattere extraterritoriale e quindi efficacia erga omnes. In base a tale interpretazione, la tutela dei diritti