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Le nuove eccezioni al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali: ipotesi non convenzionali e tentativi della prass

Capitolo secondo: L’uso della forza alla luce della prassi recente Nuovi tentativi di codificazione del diritto

2.1 Le nuove eccezioni al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali: ipotesi non convenzionali e tentativi della prass

recente. Premessa

Le eccezioni analizzate finora rappresentano le clausole di giustificazione tradizionali dell’uso della forza nelle relazioni internazionali. Si tratta, cioè, di ipotesi pienamente riconosciute dalla dottrina, dalla giurisprudenza e dalla prassi della comunità internazionale. Non c’è alcun dubbio che sia la legittima difesa, sia l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sia il consenso possano essere invocate dagli Stati ed escludere pienamente la loro responsabilità. A queste si aggiungono ipotesi particolari di legittimità dell’uso della forza e quindi di esclusione del divieto. Alcune fanno riferimento ad interpretazioni sistematiche della stessa Carta delle Nazioni Unite ed al diritto consuetudinario in materia. Altre parrebbero fondarsi su interpretazioni dottrinali più o meno riconosciute all’interno della comunità internazionale, sebbene nella tendenza opposta sembra orientarsi la codificazione del Progetto sulla responsabilità degli Stati del 2001. Vi sono, infine, una serie di tentativi, più o meno meritevoli, di istituzionalizzare nuove eccezioni al divieto in esame, sulla base di situazioni scaturite dalla prassi recente e però ancora in corso di consolidamento. Vi sarebbero molti casi che – anche a buon diritto – meriterebbero di essere riconosciuti come nuove eccezioni al divieto dell’uso della forza. Sono situazioni limite che andrebbero a legittimare l’intervento armato per porre fine a gravi violazioni del diritto

internazionale e per ripristinare e promuovere la pace e la sicurezza internazionale. Molti Stati, tuttavia, sono piuttosto scettici nel promuovere una simile tendenza, anche a livello consuetudinario. Il rischio è quello di ampliare enormemente ed indefinitamente le maglie del divieto previsto dalla norma di jus cogens e dall’art. 2,4 della Carta delle Nazioni Unite. Nell’equilibrio geopolitico attuale, uno svuotamento del contenuto del divieto dell’uso della forza è sostenuto dalle grandi potenze militari ed osteggiato dalle nazioni in via di sviluppo e di piccole dimensioni. La ratio alla base delle precedenti posizioni è piuttosto evidente: la violazione del divieto è favorevole agli Stati che intendono far valere la propria supremazia attraverso posizioni di forza, comportanti anche interventi ed azioni militari. Alla luce di ciò, difficilmente tali tentativi riusciranno, nel breve periodo, a trasformarsi in nuove eccezioni al divieto e stravolgere la stratificazione normativa avvenuta finora. Si tratta di percorsi lunghi che richiedono processi di formazione consuetudinaria da analizzare nel tempo. Ad ogni modo, per fornire una panoramica generale quanto più completa possibile, è giusto menzionare alcune di queste tendenze. Si passeranno, quindi, in rassegna le eccezioni non convenzionali al divieto dell’uso della forza secondo l’interpretazione sistematica del diritto consuetudinario, della Carta delle Nazioni Unite e del Progetto sulla responsabilità degli Stati. Si valuteranno poi i recenti tentativi di tipizzazione di nuove eccezioni e gli esiti maturati finora in seno alla comunità internazionale. Tale prospettiva sarà di aiuto nel proseguo della trattazione per l’approfondimento dettagliato sul tema della Responsibility to Protect.

2.2 (Segue) Il principio di autodeterminazione dei popoli

Tra le eccezioni non convenzionali al divieto dell’uso della forza, come si è già avuto modo di accennare, rientrano le altre norme di jus cogens derogatorie della disposizione in esame. Essendo il divieto dell’uso della forza una consuetudine con valenza rafforzata, la sua deroga è ammessa soltanto da norme di pari rango, a tutela di interessi altrettanto fondamentali. Nessuna fonte del diritto internazionale individua un elenco preciso delle consuetudini di jus cogens, che rimangono definite dalla prassi e dal riconoscimento della comunità internazionale. Emblematici al riguardo sono gli articoli 53 e 66 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati. L’art. 53, dichiarando la nullità dei trattati in contrasto con qualsiasi norma imperativa del diritto internazionale generale, dà una prima definizione di consuetudine di jus cogens. Secondo il testo dell’articolo, “una norma imperativa del diritto internazionale generale è una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo complesso come norma alla quale non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da un'altra norma del diritto internazionale generale avente lo stesso carattere”65. Il riferimento dell’art. 66 è invece utile per capire a chi spetta definire una consuetudine come norma di jus cogens, in caso di contrasto sulla sua qualificazione. L’art. 66 della Convenzione di Vienna attribuisce espressamente tale potestà alla Corte Internazionale di Giustizia su

65 Il testo integrale dell’art. 53 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto

dei trattati è il seguente: “E' nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, è in conflitto con una norma imperativa del diritto internazionale generale. Ai fini della presente Convenzione, una norma imperativa del diritto internazionale generale è una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo complesso come norma alla quale non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da un'altra norma del diritto internazionale generale avente lo stesso carattere”.

richiesta delle parti66. È opinione comune quindi che, in caso di presunta

natura imperativa della norma generale di diritto internazionale, sia la Corte Internazionale di Giustizia a pronunciarsi sull’effettiva qualificazione della consuetudine. È compito della Corte integrare l’elenco delle norme di jus cogens dopo aver valutato gli interessi fondamentali sottesi e l’opinione al riguardo della comunità internazionale nel suo complesso. Tra le norme di jus cogens67 oggi riconosciute e condivise,

assume rilevanza, ai fini della presente indagine, il principio di autodeterminazione dei popoli. In base a tale consuetudine, i popoli sottoposti a occupazione straniera, dominazione coloniale o a regimi razziali hanno il diritto di esercitare l’uso della forza per liberarsi da tale condizione ed ottenere l’indipendenza. Si tratta delle c.d. “guerre di liberazione” meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento internazionale. I popoli che esercitano l’uso della forza in base al principio di autodeterminazione, infatti, sono qualificati come movimenti di liberazione nazionale e godono della tutela prevista dal diritto

66 Secondo il testo dell’articolo 66 della Convenzione: “Se, nei dodici mesi seguenti alla data in cui l'obiezione è stata sollevata, non è stato possibile pervenire ad una soluzione in conformità al paragrafo 3 dell'articolo 65, si adotteranno le seguenti procedure: ogni parte di una controversia riguardante l'applicazione o l'interpretazione degli articoli da 53 a 64, può, con una sua richiesta, sottoporre la controversia alla decisione della Corte internazionale di giustizia, a meno che le parti non decidano di comune accordo di sottoporre la controversia ad arbitrato; ogni parte di una controversia riguardante l'applicazione o l'interpretazione di uno qualsiasi degli altri articoli della parte V della presente Convenzione può mettere in opera la procedura indicata nell'Allegato alla Convenzione indirizzando a questo effetto una domanda al Segretario delle Nazioni Unite”.

67 Non c’è univocità sul tema e diverse sono le interpretazioni che tentano di

individuare quali norme appartengano effettivamente allo jus cogens. Rientrano sicuramente, come si è anticipato, il divieto di uso della forza armata nelle relazioni internazionali, il principio di autodeterminazione dei popoli, il divieto di schiavitù, di tortura, di genocidio e di inquinamento massiccio di mari e atmosfera. Farebbero parte, inoltre, della lista i crimini di guerra ed i crimini contro l’umanità. Tale punto sarà molto utile come argomento a favore della

Responsibility to Protect. In materia, di tale avviso A. Cassese, Diritto Internazionale, Il Mulino, Bologna, 2017.

internazionale e dal diritto internazionale dei conflitti armati, essendo le guerre di liberazione parificate a conflitti tra Stati, aventi carattere transazionale68. Diverse sono le fonti che qualificano il principio di autodeterminazione come norma generale e fondamentale dell’ordinamento internazionale. Già gli articoli 1 e 55 della Carta delle Nazioni Unite fanno esplicito riferimento al diritto dei popoli all’autodeterminazione. Secondo l’articolo 1, rientra tra i fini dell’organizzazione quello di “sviluppare relazioni amichevoli tra gli Stati basati sul rispetto del principio di uguaglianza e di autodeterminazione, in modo da rafforzare la pace universale69”. Ancora, l’art. 55 pone tale principio alla base della cooperazione sociale ed economica70. Il principio

68 Sul punto la manualistica tradizionale è abbastanza chiara. I movimenti di

liberazione nazionale sono definiti come enti organizzati rappresentativi di un popolo in lotta per l’autodeterminazione ed il loro riconoscimento è effettuato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con eventuale delega alle organizzazioni regionali di riferimento come la Lega Araba o l’Unione Africana. Il governo costituito dello Stato non può usare la forza per privare il popolo del diritto all’autodeterminazione, né gli Stati terzi possono intervenire in suo favore. È il c.d. diritto di resistenza, riconosciuto e condiviso dall’intera comunità internazionale. Si veda B. Conforti, Diritto internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018.

69Ai sensi dell’art. 1 della Carta delle Nazioni Unite: “The Purposes of the

United Nations are: to maintain international peace and security, and to that end, to take effective collective measures for the prevention and removal of threats to the peace, and for the suppression of acts of aggression or other breaches of the peace, and to bring about by peaceful means, and in conformity with the principles of justice and international law, adjustment or settlement of international disputes or situations which might lead to a breach of the peace; to develop friendly relations among nations based on respect for the principle of equal rights and self-determination of peoples, and to take other appropriate measures to strengthen universal peace; to achieve international cooperation in solving international problems of an economic, social, cultural, or humanitarian character, and in promoting and encouraging respect for human rights and for fundamental freedoms for all without distinction as to race, sex, language, or religion; and to be a center for harmonizing the actions of nations in the attainment of these common ends”.

70L’art. 55 della Carta delle Nazioni Unite recita così: “With a view to the

creation of conditions of stability and well-being which are necessary for peaceful and friendly relations among nations based on respect for the principle

di autodeterminazione è poi richiamato dall’art. 1 del Patto sui diritti civili e politici di New York del 1966 secondo cui “tutti i popoli hanno diritto all’autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale71”. La stratificazione normativa del principio di autodeterminazione dei popoli ha, nel corso del tempo, rafforzato la valenza della consuetudine, facendole assumere rango di norma di jus cogens. Su tale qualificazione, ulteriori conferme sono dettate dalle già richiamate risoluzioni n. 2625 del 1970 e n. 3314 del 1974 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e dalla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, nel caso Nicaragua vs. Stati Uniti del 1986. Il principio di autodeterminazione dei popoli qui richiamato è fatto risalire al diritto internazionale generale, come norma fondamentale dell’ordinamento internazionale, alla base del mantenimento della pace e della sicurezza comune. In questo modo, quale norma di jus cogens, il principio in esame, nel bilanciamento con il divieto di uso della forza, ne ammetterebbe la deroga, rendendo lecito l’intervento armato nei confronti dello Stato che non rispetta la sua effettiva attuazione. Non sorgono particolari difficoltà interpretative sul concetto di popolo, sebbene nessuna Convenzione72 si preoccupi di stabilire una sua qualificazione. Così come non sorgono particolari problemi sulle nozioni di dominazione coloniale, occupazione straniera e regimi razziali che renderebbero applicabile il of equal rights and self-determination of peoples, the United Nations shall promote: higher standards of living, full employment, and conditions of economic and social progress and development; solutions of international economic, social, health, and related problems; and international cultural and educational cooperation; and universal respect for, and observance of, human rights and fundamental freedoms for all without distinction as to race, sex, language, or religion”.

71 La convenzione di New York del 1966 è rinvenibile qui: R. Luzzatto e F.

Pocar, Codice di diritto internazionale pubblico, Giappichelli, Torino, 2016.

72 Un piccolo riferimento, a modo descrittivo e per il riconoscimento degli Stati,

principio di autodeterminazione e quindi legittimo l’esercizio della forza armata. Col riferimento ai regimi razziali, una sentenza molto nota e significativa è quella data dalla Corte Costituzionale canadese del 1998 in cui si afferma che il diritto all’autodeterminazione non deve essere interpretato nel senso di autorizzare o incoraggiare un’azione di qualsiasi genere che porti allo smembramento o che minacci anche solo parzialmente l’integrità territoriale di uno stato sovrano e indipendente, quando il governo del suddetto Stato rispetti i diritti umani senza distinzioni di razza, di fede, e di colore73. Ciò lascerebbe intendere che quando il governo di un territorio nel quale sono presenti varie etnie e gruppi etnici non tutela adeguatamente e nella stessa misure i diritti fondamentali di tutte le componenti della sua popolazione si potrebbe invocare il diritto all’autodeterminazione e quindi alla secessione. In questo caso, quindi, il diritto alla secessione è un rimedio alla violazione dei diritti fondamentali di quella parte di popolazione, i cui diritti non sono riconosciuti dal governo del paese. Sulla base di questa interpretazione, diviene, perciò chiara anche la distinzione, frequente in letteratura, tra autodeterminazione esterna ed autodeterminazione interna 74 . L’autodeterminazione esterna è l’applicazione del principio di autodeterminazione che attribuisce, ai popoli sotto dominazione coloniale, occupazione straniera o regime razziale, il diritto di indipendenza nei confronti degli Stati della comunità internazionale. Per autodeterminazione interna si intende, invece, il diritto delle minoranze di

73 La sentenza della Corte Costituzionale canadese del 1998 fa riferimento al caso

della secessione del Québec. Sul punto, per un approfondimento, si veda J. D. van der Vyver, Self-determination and the Peoples of Québec, in Journal of Transnational Law e Policy, Florida State University College of Law, 2000, n.1, p. 14 e ss.

74Si vedano E. Sciso, Successione internazionale, Dizionario di Diritto Pubblico, Giuffrè, Milano, 2006, p. 5818 e ss. e N. Ronzitti, Introduzione al diritto

richiedere, nei confronti del governo centrale, tutele e prerogative nei loro confronti. In nessun caso, se non per mancato rispetto dei diritti umani fondamentali, le minoranze possono, perciò, invocare l’applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli e quindi la secessione. L’ordinamento internazionale dà disposizioni separate per la tutela delle minoranze all’interno di una Nazione. Nella prassi, tale interpretazione, è confermata per le pretese secessionistiche della Crimea e dal caso più recente sulla Catalogna75. Situazioni diverse sono invece quelle sulla

Palestina e sul Kosovo. Nel primo caso, la Corte Internazionale di Giustizia, nel parere sulla costruzione di un muro in Palestina del 2004, ha definito Israele come potenza straniera occupante ed ha riconosciuto alla Palestina il diritto di autodeterminazione76. In questo contesto, l’uso della forza contro Israele sarebbe legittimo secondo il diritto internazionale. Con riferimento al Kosovo, invece, non vi è stato alcun esplicito riconoscimento del principio di autodeterminazione da parte della Corte Internazionale di Giustizia, che, seppur confermando la liceità della dichiarazione di indipendenza della regione, ha comunque affermato che la stessa resta sotto la sovranità della Serbia77. Il Kosovo, infatti, lamenterebbe gravi violazioni dei diritti umani ai tempi della Repubblica

75 Sulla Crimea, E. Sciso, La crisi ucraina e l’intervento russo: profili di diritto internazionale, in Rivista di diritto internazionale, 1, 2014, p. 992 e ss. Sul caso

della Catalogna A. Blanke, Catalonia and the Right to Self-Determination from

the Perspective of International Law, in Max Planck Yearbook of United Nations

Law, Heidelberg, 2014, p. 532 e ss.

76 Il parere della Corte Internazionale di Giustizia del 2004, richiesto

dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite è consultabile sul sito della stessa Corte: www.icj-cij.org. Sul caso della Palestina

77 Si tratta del parere della Corte Internazionale di Giustizia del 2010 sulla

conformità con il diritto internazionale della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo. Sul punto si veda A. Tancredi, Neither authorized nor

prohibited? Secession and International Law after Kosovo, South Ossetia and Abkhazia, Rivista di diritto internazionale, 1, 2008, p. 37 e ss.

Federale di Jugoslavia sotto la guida di Milošević78. La prassi qui

ricordata conferma la valenza rafforzata del principio di autodeterminazione dei popoli, nell’interpretazione sopra fornita ed è utile per un’ulteriore precisazione. Appurato, infatti, che l’uso della forza, a tutela del principio di autodeterminazione, è legittimo, bisogna chiedersi se la reazione possa estendersi anche a soggetti terzi che soccorrono in difesa del movimento di liberazione nazionale. Per molto tempo, la questione è stata oggetto di attenta e profonda discussione tra diversi membri della comunità internazionale. I paesi occidentali sostenevano che l’applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli, da parte di Stati terzi, potesse avvenire in tutte le forme, tranne che con ricorso alla forza armata, a causa del divieto previsto dall’articolo 2,4 della Carta delle Nazioni Unite. La componente socialista della comunità internazionale e la componente in via di sviluppo sostenevano invece che l’aiuto poteva (rectius: doveva) essere dato anche attraverso l’uso della forza armata, poiché la realizzazione del diritto dei popoli all’autodeterminazione rientrava tra i fini delle Nazioni Unite e pertanto non integrava una violazione del divieto previsto dall’art.2 par.4 della Carta79. Ad ogni modo, sembra che oggi si possa sostenere, a buon diritto, l’ammissibilità, anche da parte di Stati terzi, dell’uso della forza in difesa del principio di autodeterminazione dei popoli. Tale conclusione si basa, non tanto sull’argomento precedente, quanto sulla struttura della norma in esame. Essendo, infatti, il principio di autodeterminazione una consuetudine con valenza rafforzata di jus cogens, la derogabilità del divieto dell’uso della

78 Per una precisa ricognizione storica sul processo di dissoluzione della

Repubblica Federale di Jugoslavia, A. Varsori, Storia internazionale, dal 1919

ad oggi, Il Mulino, Bologna, 2015.

79 Si segnala un’interessante monografia sul principio di autodeterminazione dei

popoli e sugli orientamenti della comunità internazionale, A. Annoni,

L’occupazione ostile nel diritto internazionale contemporaneo, Giappichelli,

Torino 2012. Sul punto si richiama anche A. Cassese, Self- determination of

forza comporta un’efficacia erga omnes del principio80. Ammesso cioè

che il principio di autodeterminazione dei popoli consente, in deroga, l’esercizio della forza da parte del movimento di liberazione nazionale in lotta per l’indipendenza (per mezzo della guerra di liberazione), la stessa eventualità deve ritenersi applicabile anche a Stati terzi che vogliano intervenire nel conflitto, essendo, la norma con cui si ammette la deroga, una norma di jus cogens con valenza erga omnes nei confronti di tutti gli attori della comunità internazionale. Sulla base di queste considerazioni, il principio di autodeterminazione dei popoli può ritenersi un’eccezione non tradizionale al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali e pertanto rappresentare appieno un clausola di esclusione della responsabilità nei confronti di tutti coloro che intervengano in sua difesa ed applicazione.

80G. Gaja, Les obligations et les droits erga omnes en droit international, in Annuaire de l’Institut de droit international, vol. 71, Pedone, Parigi, 2005, p.117 e ss.

2.3 (Segue) Forza maggiore, estremo pericolo e stato di necessità

Nel progetto sulla responsabilità degli Stati del 2001 elaborato dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite81, tra le clausole di esclusione della responsabilità degli Stati, figurano alcune ipotesi particolari da sempre dibattute dalla dottrina82. L’art. 23 fa riferimento alla c.d. forza maggiore individuando i casi in cui il “verificarsi di una forza irresistibile o di un avvenimento imprevedibile, fuori dal controllo dello Stato, rende impossibile, nelle circostanze, l’agire in conformità degli obblighi di diritto internazionale”83. In base ad ipotesi eccezionali, in difetto della consapevolezza dell’evento e dell’intenzionalità della condotta, lo Stato che involontariamente non rispetta gli obblighi derivanti dall’ordinamento internazionale è escluso dalla responsabilità della violazione, salvo il risarcimento del danno tramite indennizzo. Lo stesso art. 23, però, si preoccupa di limitare l’operatività della disposizione in esame prevedendo due eccezioni. La clausola di giustificazione della forza maggiore non si applica se 1) la situazione di forza maggiore è da attribuirsi, sia in via esclusiva che in combinazione con altri fattori, alla condotta dello Stato che la invoca; 2) lo Stato ha accettato in precedenza il