• Non ci sono risultati.

The Responsability to Protect ed il divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "The Responsability to Protect ed il divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali"

Copied!
120
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA

Tesi di Laurea

The Responsibility to Protect ed il divieto dell’uso

della forza nelle relazioni internazionali

Relatore

Ch.mo Prof. Simone Marinai

Candidato

Matteo Di Donato

(2)

L’amore riscatta tutto,

salva tutto.

(3)

Indice

Introduzione………... p.5

Capitolo primo: L’uso della forza secondo il diritto

internazionale. Inquadramento sistematico

1. 1 Il divieto d’uso della forza nelle relazioni internazionali……… p.9 1.2 L’uso della forza armata diretta ed indiretta: nozione e stratificazione normativa……… p.14 1.3 Le eccezioni tradizionali al divieto d’uso della forza nelle relazioni internazionali………... p.21 1.4 (Segue) La legittima difesa individuale e collettiva……… p.23 1.5 (Segue) Il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite: l’autorizzazione del Consiglio………. p.32 1.6 (Segue) Il consenso dell’avente diritto………. p.41

Capitolo secondo: L’uso della forza alla luce della prassi

recente. Nuovi tentativi di codificazione del diritto

internazionale

2.1 Le nuove eccezioni al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali: ipotesi non convenzionali e tentativi della prassi recente. Premessa………. p.45 2.2 (Segue) Il principio di autodeterminazione dei popoli……….. p.47

(4)

2.3 (Segue) Forza maggiore, estremo pericolo e stato di necessità.. p.55 2.4 (Segue) Nuove eccezioni al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali: i tentativi della prassi recente…………... p.65

Capitolo Terzo: L’uso della forza in Responsibility to Protect.

La tutela dei diritti fondamentali dell’uomo e la (nuova)

responsabilità della comunità internazionale

3.1 The Responsibility to Protect: nuova eccezione al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali? Premessa……… p.75 3.2 The Responsibility to Protect alla luce del Report della Commissione Internazionale sulla Sovranità degli Stati …………. p.78 3.3 L’uso della forza armata in Responsibility to Protect: critica delle tesi che sostengono la formazione di una nuova consuetudine ………... p.87 3.4 Verso una nuova interpretazione della Responsibility to Protect: tra intervento umanitario ed autorizzazione all’uso della forza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La responsabilità della comunità internazionale in caso di violazione di norme erga omnes ………... p.99 Conclusione……… p.111 Bibliografia………. p.115

(5)

Introduzione

Le sfide che la comunità internazionale deve affrontare ogni giorno sono molteplici ed importanti. Si tratta di un compito essenziale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Tra le principali, tutti gli Stati hanno il dovere di promuovere e garantire la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, così come riconosciuti e consolidati dal diritto internazionale, dopo anni di atroci sofferenze e massacri. Fa parte del diritto consuetudinario, oltre che del diritto naturale, il rispetto della vita e della dignità della persona, in tutte le sue declinazioni. Nell’introduzione alla Carta delle Nazioni Unite, gli Stati si impegnano a salvare le future generazioni dalle piaghe della guerra che per ben due volte ha travolto il genere umano. Si impegnano, inoltre, a rinnovare la fiducia verso le Nazioni, affinché le stesse si adoperino per la salvaguardia della dignità e dei diritti fondamentali dell’uomo, promuovendo l’uguaglianza tra l’uomo e la donna, nuove libertà e migliori condizioni di vita. L’osservanza delle obbligazioni derivanti dal diritto internazionale è alla base della giustizia promossa dalle Nazioni Unite in favore degli individui e per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Nel ribadire il ruolo indispensabile degli Stati per i fini di cui sopra, si delinea un nuovo concetto di sovranità quale esercizio responsabile di governo all’interno del proprio territorio. È ciò che emerge dai numerosi documenti promossi e sostenuti, negli ultimi anni, da gran parte dei membri della comunità internazionale. L’accezione qui rinnovata della sovranità individua perciò un mutato atteggiamento delle Nazioni nell’esercizio delle proprie prerogative di governo e di quelle altrui. La stretta osservanza del diritto internazionale e la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo nei confronti della popolazione riflette una nuova idea di solidarietà che legherebbe tutti gli Stati al di là dei propri confini territoriali. Le grosse e sistematiche violazioni del diritto internazionale a danno dei cittadini ed i numerosi

(6)

massacri della storia hanno smosso le coscienze delle Nazioni, spesso indifferenti ed inerti ai gridi di aiuto e di speranza di milioni di persone sottoposte a trattamenti inumani e degradanti, di pulizia etnica o di genocidio. Tali eventi hanno spinto per una rivalutazione delle norme principali alla base della credibilità e del funzionamento della comunità internazionale. I principi inviolabili di indipendenza e di non interferenza negli affari interni di uno Stato, in rispetto della sua sovranità, necessitano di essere rivisti e bilanciati con altre norme importantissime dell’ordinamento internazionale, quali quelle poste a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. È in questa presa di posizione e di responsabilità che nasce la Responsibility to Protect, quale tentativo di riforma del sistema. “Mai più Ruanda, mai più Srebrenica” è il motto che ha animato il tentativo di codificazione di una nuova eccezione al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali, attribuendo agli attori della comunità internazionale il potere ed il dovere di intervenire, anche militarmente, per porre fine alle gravi e sistematiche violazioni di diritto umanitario. La responsabilità di proteggere si configura così quale nuovo obiettivo delle Nazioni per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e per dare senso alle relazioni tra Stati e tra uomini. Compito della presente trattazione è quello di evidenziare questo mutato atteggiamento della comunità internazionale a difesa dei diritti fondamentali dell’uomo ed analizzare il processo formativo compiuto finora. Bisogna cioè chiedersi se, alla luce delle argomentazioni precedentemente svolte e dei documenti in materia, possa già configurarsi una nuova eccezione al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali, facendo della Responsibility to Protect una nuova norma già affermata e consolidata in seno alla comunità internazionale. Nel primo capitolo si cercherà di fornire una panoramica generale e sistematica sul divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali e

(7)

sulle eccezioni tradizionali in materia. Si analizzerà, cioè, il contenuto della norma di diritto internazionale prevista dall’art. 2,4 della Carta delle Nazioni Unite con l’interpretazione evolutiva della prassi e le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia. Le clausole di giustificazione tradizionali sono quelle riconosciute all’unanimità dalla dottrina, dalla giurisprudenza e pienamente accettate e condivise, ad oggi, dagli Stati. Nel secondo capitolo verranno esaminate le eccezioni non convenzionali al divieto dell’uso della forza armata nelle relazioni internazionali. Si farà, cioè, riferimento alle ipotesi particolari che legittimano le condotte militari ed ai tentativi della prassi recente di codificazione del diritto internazionale. Alcuni attori della comunità internazionale, infatti, cercano di erodere il contenuto del divieto in esame, fornendo nuove clausole di giustificazione a salvaguardia di interessi non sempre meritevoli di tutela. Si valuterà perciò l’opinione attribuita alle nuove scriminanti in seno alla comunità internazionale. Tale ricognizione permetterà di analizzare, con maggiore consapevolezza ed accuratezza, la Responsibility to Protect, cogliendo le somiglianze e le differenze con gli altri istituti, in un’ottica comparata e sistematica. Nel terzo ed ultimo capitolo della trattazione sarà esaminata la nuova nozione della responsabilità di proteggere, così come ideata e promossa dagli Stati nel corso degli anni. Si analizzerà l’accezione fornita dalla Commissione Internazionale sulla Sovranità degli Stati e si valuteranno le opinioni della comunità internazionale sulla formazione di una nuova norma di diritto internazionale. Particolare attenzione sarà posta alla prassi e all’evoluzione della clausola di giustificazione, considerando le reazioni degli Stati, della dottrina e della giurisprudenza. Nell’ultimo paragrafo si tenterà poi di fornire una nuova interpretazione della Responsibility to Protect, cogliendo le differenze con alcune eccezioni e mettendone in luce le peculiarità. Si cercherà, cioè, di fornire un nuovo inquadramento sistematico della nozione, in virtù della

(8)

rinnovata responsabilità della comunità internazionale, in caso di violazione di gravi norme cogenti del diritto internazionale e a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. L’interpretazione proverà ad individuare precise basi giuridiche attraverso le quali avallare e giustificare la nuova eccezione. Si tratta, a ben vedere, di un compito di non semplice risoluzione, posta la complessità della materia ed i continui stravolgimenti della prassi e della comunità internazionale.

(9)

Capitolo primo: L’uso della forza secondo il diritto

internazionale. Inquadramento sistematico

1. 1 Il divieto d’uso della forza nelle relazioni internazionali

Fino al XX secolo il diritto internazionale non poneva limiti specifici all’uso della forza nelle relazioni internazionali, essendo la guerra considerata strumento naturale di risoluzione delle controversie tra Stati. Per i primi tentativi di tipizzazione del divieto occorre attendere le Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1909 e il Patto della Società delle Nazioni del 1919, per un approccio alternativo di risoluzione delle controversie internazionali1. Segue nel 1928 il Patto di Kellog-Briand che ripudia la guerra come strumento di politica internazionale e ricerca mezzi pacifici di risoluzione delle controversie2. Tuttavia, è sicuramente con l’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite del 1945 che si assiste ad una vera e propria tipizzazione normativa. Il divieto dell’uso della forza armata nelle relazioni internazionali, così come sancito ed esplicitato dall’art. 2 comma 4 della Carta delle Nazioni Unite del 1945, si può ritenere, oggi, a buon diritto, principio di jus cogens riconosciuto da tutti i membri della comunità internazionale3. Si tratta perciò di una norma di

1 Per una ricognizione storiografica sul tema: E. Cannizzaro, Diritto Internazionale, Giappichelli editore, Torino, 2018.

2 T. Treves, Diritto Internazionale, Problemi fondamentali, Giuffrè, Milano,

2005, p. 445 e ss. 3

Il punto non è tuttavia pienamente condiviso, sebbene la comunità internazionale e la dottrina riconoscano in larga parte tale affermazione. Lo stesso Ronzitti si chiede se non sia preferibile ritenere norma di jus cogens la sola norma che disciplina il divieto di aggressione. Ad ogni modo, sembra che si possa oggi affermare con buona evidenza la natura assoluta ed inderogabile - anche a livello consuetudinario - della norma contenuta nell’art. 2,4 della Carta delle Nazioni Unite – per la parte che disciplina l’uso della forza armata - secondo cui “i Membri delle Nazioni Unite devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra

(10)

diritto internazionale che, sebbene di fonte pattizia, ha ora natura di norma consuetudinaria rafforzata, avendo efficacia assoluta e inderogabile nei confronti delle altre norme di diritto internazionale. La qualificazione del divieto dell’uso della forza armata nelle relazioni internazionali come norma di jus cogens comporta diverse e notevoli conseguenze4 e delimita in modo ancor più rigoroso le relative eccezioni al principio. Prima di analizzare tali ipotesi, però, occorre delimitare e qualificare la portata interpretativa della nozione richiamata dalla Carta delle Nazioni Unite secondo cui “All Members shall refrain in their international relations from the threat or use of force against the territorial integrity or political independence of any state, or in any other manner inconsistent with the Purposes of the United Nations”. Il testo riportato è della versione originale in lingua inglese della Carta delle Nazioni Unite, sebbene siano presenti altre versioni ufficiali in lingua5. Premessa l’efficacia erga omnes

maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”. Tra tutti, sul tema, A. Cassese, Diritto Internazionale: i problemi della comunità internazionale, Il Mulino, Bologna, 2004.

4 È obbligo di ogni Stato intervenire e porre fine alle violazioni di jus cogens. Vi

è obbligo di aut dedere aut iudicare l’autore a cui è attribuita la condotta, che non beneficia mai di prescrizione o immunità.

5 Hanno efficacia legale e fanno, perciò, fede tutte le versioni ufficiali della Carta

delle Nazioni Unite, secondo l’art. 33 della Convenzione di Vienna. In caso di contrasto, il significato delle singole disposizioni è attribuito in base all’oggetto ed allo scopo del trattato, cercando di conciliare le varie versioni in lingua della Carta. Il testo dell’art. 33 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati è il seguente: “Quando un trattato è stato autenticato in due o più lingue, il suo testo fa fede in ciascuna di queste lingue, a meno che il trattato non disponga o che le parti non convengano che in caso di divergenza prevalga un testo determinato. Una versione del trattato in una lingua diversa da una di quelle in cui il testo è stato autenticato sarà considerata come testo autentico solo se il trattato lo prevede o se le parti si sono accordate in tal senso. Si presume che i termini di un trattato abbiano lo stesso significato nei diversi testi autentici. Salvo il caso in cui un testo determinato sia destinato a prevalere ai sensi del paragrafo 1, quando il raffronto dei testi autentici fa apparire una differenza di senso che l'applicazione degli articoli 31 e 32 non permette di eliminare, si adotterà il senso che, tenuto conto dell'oggetto e del scopo del trattato, permette di meglio conciliare i testi in questione”.

(11)

della consuetudine internazionale, al di là della fonte pattizia che si rivolge invece soltanto ai membri delle Nazioni Unite, occorre piuttosto indagare la portata interpretativa della disposizione. Pochi dubbi sorgono sul significato di “shall refrain”: così come richiamato da altre versioni del testo6: l’espressione inglese si riferisce ad un obbligo (negativo) di astensione o – più semplicemente – ad un divieto che gli Stati sono dovuti a rispettare. Tale divieto è da ritenersi nelle relazioni internazionali, fra due o più attori dotati di soggettività giuridica di diritto internazionale7. Nella disposizione, inoltre, oggetto del divieto è non solo l’uso della forza ma anche la sua minaccia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato o in qualsiasi altro modo incompatibile con i principi e fini delle Nazioni Unite. In quest’ottica, la disposizione pattizia – e il contenuto della consuetudine internazionale – sembrano risultare definite. E tuttavia occorre ancora interrogarsi sulla nozione di forza individuata dall’art. 2,4 della Carta delle Nazioni Unite. Si tratta di un’accezione in via di estensione. Sicuramente è da comprendere l’uso della forza armata, norma che appartiene – si è visto – anche allo ius cogens e presenta pertanto una valenza rafforzata8. Gran parte della comunità internazionale è solita ricomprendere nella nozione di forza anche il c.d. “strangolamento economico”, che comporta l’uso massiccio della forza economica contro uno o più Stati. Sul punto però vi sono

6 Su tutte si veda la versione francese, secondo cui “Les Membres de l’Organisation s’abstiennent, dans leurs relations internationales, de recourir à la menace ou à l'emploi de la force, soit contre l'intégrité territoriale ou l’indipéndence politique de tout État, soit de toute autre manière incompatible avec les buts des Nations Unies”.

7

Si rimanda alla manualistica tradizionale N. Ronzitti, Introduzione al diritto

internazionale, Giappichelli, Torino, 2015.

8 Soltanto quindi il divieto dell’uso della forza armata può – secondo opinione

unanime della comunità internazionale – esser considerato – a buon diritto norma di jus cogens. Gli altri tipi di forza – a cui anche l’art. 2,4 della Carta fa riferimento – potrebbero, se riconosciuti, assumere rango e forza di semplice norma consuetudinaria.

(12)

interpretazioni divergenti: favorevoli all’estensione della nozione sono i Paesi in via di sviluppo e quelli appartenenti ad economie emergenti9. Contrari – per motivi facilmente comprensibili – sono le grandi potenze economiche che si oppongono ad una interpretazione lata del termine “forza”. A questa distinzione tradizionale, si aggiungono poi altre interpretazioni, promosse da tentativi più o meno vani di allargare ulteriormente la portata precettiva della disposizione: si può far riferimento alla forza politica e, soprattutto, alla forza informatica. Per quest’ultima accezione, risulta interessante il lavoro di ricerca di un gruppo internazionale di esperti che ha portato alla stesura del Manuale di Tallinn10, in cui si analizza l’applicabilità del diritto internazionale alle operazioni informatiche. Secondo il gruppo di esperti, un’operazione informatica costituisce uso della forza quando la sua portata e i suoi effetti sono comparabili con operazioni non informatiche che violano il divieto di cui all’art. 2, 4 della Carta delle Nazioni Unite. A tal fine sono individuati una serie di criteri utili a valutare l’operazione informatica: in primo luogo è presa in considerazione la gravità del danno, constatando le conseguenze dell’azione e gli interessi protetti coinvolti11. Seguono l’immediatezza degli effetti rispetto all’azione, la loro connessione causale e l’individuazione dello Stato autore del crimine. Soltanto dopo aver accertato tali indicatori, alla stregua di una valutazione comparata ed articolata, anche le operazioni informatiche (rectius: di uso della forza informatica), secondo il panel di esperti rientrerebbero nel divieto sancito dall’art. 2,4 della Carta delle Nazioni Unite. Sul punto però l’opinione

9 Tradizionalmente si fa riferimento ai Paesi africani ed ai Paesi Brics (Brasile,

Russia, India, Cina e Sudafrica) che presentano economie relativamente in crescita e dipendenti dalle grandi potenze economiche occidentali.

10

M. N. Schmitt, Tallinn Manual 2.0 on the International Law applicable to

Cyber Operations, Cambridge University Press, Cambridge, 2017.

11 Si deve trattare di interessi di rilevanza nazionale, riguardanti settori di

(13)

della dottrina12 e della comunità internazionale non è unanime e del resto anche un’interpretazione sistematica della stessa Carta farebbe propendere per la soluzione negativa13. Sembra, ad ogni modo, difficile quindi utilizzare una nozione estensiva della forza per quel che concerne la norma di diritto consuetudinario. Premesso che solo l’uso della forza armata appartiene al diritto di Jus Cogens – come precedentemente esaminato – le altre accezioni sconterebbero non solo la mancanza di diuturnitas (essendo di recente interpretazione) ma soprattutto l’assenza di un’opinio iuris ac necessitatis consolidata da parte della comunità internazionale. Se diversi passi in avanti sono stati fatti con riferimento al c.d. “strangolamento economico”, ancora lontana è la diffusione della forza politica o informatica, interpretazioni che necessitano di una maggiore stratificazione temporale e dottrinale.

12 Tra cui, ancora, N. Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale,

Giappichelli, Torino, 2015.

13Vengono in aiuto gli art. 41 e 44 della Carta delle Nazioni Unite che associano al termine “forza” l’aggettivo “armata”. E in effetti queste sono le uniche disposizioni della Carta che qualificano il termine forza, facendo propendere per un’interpretazione tuttalpiù restrittiva. Si riporta il testo integrale degli articoli: (41)The Security Council may decide what measures not involving the use of

armed force are to be employed to give effect to its decisions, and it may call

upon the Members of the United Nations to apply such measures. These may include complete or partial interruption of economic relations and of rail, sea, air, postal, telegraphic, radio, and other means of communication, and the sev- erance of diplomatic relations; (44) When the Security Council has decided to use force it shall, before calling upon a Member not represented on it to provide

armed forces in ful- filhnent of the obligations assumed under Article 43, invite

that Member, if the Member so desires, to participate in the decisions of the Security Council concerning the employment of contin- gents of that Member's armed forces.

(14)

1.2 L’uso della forza armata diretta ed indiretta: nozione e stratificazione normativa

Prima di soffermarsi più propriamente sulle tradizionali eccezioni al divieto d’uso della forza occorre compiere qualche ulteriore precisazione. Occorre innanzitutto valutare la stratificazione, nel corso del tempo, del divieto dell’uso della forza armata nelle relazioni internazionali. In particolare è necessario stabilire quale sia la soglia minima applicabile al divieto imposto dall’art. 2,4 della Carta delle Nazioni Unite. Sul punto sembra vi sia consenso unanime: è sottoposta al divieto qualsiasi azione comportante l’uso della forza armata, anche se non preordinata a veri e propri conflitti di natura bellica. Sono comprese nel divieto, quindi, anche le rappresaglie armate, in passato ritenute lecite come strumento di ritorsione nei confronti di Stati inadempienti ad obblighi internazionali. Le misure qui esplicitate devono intendersi però rivolte sempre nei confronti di soggetti di diritto internazionale, con la specifica intenzionalità dell’esercizio della coercizione armata. Secondo la dichiarazione sulle relazioni amichevoli tra Stati n. 2625 del 1970 che ribadisce il divieto di qualunque azione comportante l’uso della forza armata e l’obbligo di risoluzione pacifica delle controversie internazionali, ai sensi del Capo VI della Carta delle Nazioni Unite, “gli Stati hanno il dovere di astenersi da atti di rappresaglia che comportino l’uso della forza; il territorio di uno Stato non può formare oggetto di occupazione militare derivante dall’uso della forza in violazione delle disposizioni della Carta. Il territorio di uno Stato non può formare oggetto di acquisto da parte di un altro Stato realizzato con il ricorso alla minaccia o all’uso della forza. Nessun acquisto territoriale ottenuto con la minaccia o l’uso della forza sarà

(15)

riconosciuto legittimo”14. Nella risoluzione adottata dall’Assemblea

Generale sono ripresi, quindi, i principi già esplicitati nella Carta delle Nazioni Unite consolidatisi nella prassi e pertanto condivisi dalla comunità internazionale. La dichiarazione risulta essere la dimostrazione di una prima affermazione dell’opinio juris ac necessitatis e di una prima stratificazione del divieto dell’uso della forza a carattere consuetudinario. Nelle considerazioni conclusive, infatti, si legge che: “I principi della Carta inseriti nella presente Dichiarazione costituiscono i principi fondamentali del diritto internazionale che tutti gli Stati sono tenuti a rispettare”15. Altra risoluzione di rilievo è la n. 3314 del 1974 contenente la definizione di Aggressione. Nel testo vengono richiamati i principi ribaditi dalla Dichiarazione Amichevole del 1970 e viene fornita una prima definizione di Aggressione, considerata come “la più seria e pericolosa forma illegale di uso della forza”16. Secondo l’art. 1 è considerato atto di aggressione l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica di un altro Stato o per qualsiasi altro fine in contrasto con la Carta delle Nazioni Unite. È qui ricalcata, in maniera quasi tautologica, la definizione del divieto d’uso della forza prevista dall’art. 2,4, con l’aggiunta – si è visto ridondante – dell’aggettivo “armata”. Sono poi indicati una serie di atti che, in via generale e senza alcuna pretesa di esclusività, alla luce delle circostanze e delle conseguenze, possono essere qualificati come atti di aggressione: l’art. 3 fa riferimento ad “attacchi, invasioni ed occupazioni militari, bombardamenti e blocchi navali”, a prescindere da qualsiasi dichiarazione di guerra o da qualsiasi motivazione politica, economica o

14 Risoluzione n. 2625 del 1970 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite,

pag. 3. L’elenco delle risoluzioni è consultabile sul del sito dell’ONU al seguente indirizzo: http://www.un.org.

15 Vedi supra, pag. 7.

(16)

miliare17. Qualsiasi uso della forza armata, anche se isolato, in contrasto

con i fini della Carta delle Nazioni Unite dovrebbe quindi essere qualificato come atto di aggressione e crimine internazionale contro la pace. Tale specificazione del contenuto del divieto d’uso della forza e della sua stratificazione normativa deve però essere arricchita di un’ulteriore distinzione. Rientrano, cioè, nel divieto dell’uso della forza non solo le azioni dirette ma anche quelle indirette, connesse in modo strettamente causale con le prime. Si tratta degli atti di concorso, complicità o assistenza all’uso della forza posti in essere da un terzo Stato, senza che lo stesso partecipi attivamente o materialmente all’aggressione. La risoluzione del 1974 ne individua alcune ipotesi: in primo luogo la “messa a disposizione” del proprio territorio per la perpetrazione di atti di aggressione. In questo caso il terzo Stato non interviene nell’azione militare ma è compiacente e ne permette l’esecuzione. In secondo luogo l’invio di bande armate, gruppi o mercenari che partecipano o pongono in essere atti di aggressione contro un altro Stato. In questo caso lo Stato, seppur non intervenendo ufficialmente nell’uso della forza armata, acconsente – in maniera più o meno intenzionale – ad atti di aggressione, causandone le azioni o non impedendone le conseguenze18. A titolo esemplificativo, quindi, la risoluzione specifica ulteriormente il contenuto del divieto dell’uso della forza armata, riconsolidando i principi già affermati in materia e procedendo ad una nuova classificazione sistematica. Non solo la qualificazione degli atti d’uso della forza armata (e quindi di Aggressione) ma anche l’allargamento della nozione all’uso della forza in via indiretta. La risoluzione sulla definizione di Aggressione riveste perciò importanza fondamentale nello sviluppo della nozione dell’uso della forza e nella sua stratificazione normativa a livello pattizio e

17 Per l’enunciazione dettagliata delle fattispecie si rimanda all’art. 3 della

Risoluzione n. 3314 del 1974, pag. 2.

(17)

consuetudinario. Sul punto si aggiunge poi la risoluzione n. 42/22 del 1987 contenente la Dichiarazione sul rafforzamento dell’efficacia del principio che vieta la minaccia o l’uso della forza nelle relazioni internazionali. Nel testo sono riaffermati i principi espressi in precedenza, con particolare attenzione alla prevenzione e cooperazione internazionale sotto l’egida del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Si legge: “Every State has the duty to refrain in its international relations from the threat or use of force against the territorial integrity or political independence of any State, or from acting in any other manner inconsistent with the purposes of the United Nations. Such a threat or use of force constitutes a violation of international law and of the Charter of the United Nations and entails international responsibility. The principle of refraining from the threat or use of force in international relations is universal in character and is binding, regardless of each State's political, economic, social or cultural system or relations of alliance”19. È ripresa inoltre la distinzione tra uso diretto ed indiretto della forza, con una sostanziale parificazione normativa, essendo entrambe sottoposte al divieto dell’uso della forza20. Comincia così a rafforzarsi la nozione ed il contenuto del divieto. È una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Nicaragua c. Stati Uniti del 1986 a riconoscere “l’effetto trascinante della Carta e delle successive risoluzioni dell’Assemblea Generale sul consolidamento di una norma consuetudinaria proibitiva dell’uso della forza”21. In particolare, nella

19 Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, n. 42/22 del 1987,

pag. 3.

20 Si legge: “States shall fulfil their obligations under international law to

refrain from organizing, instigating, or assisting or participating in paramilitary, terrorist or subversive acts, including acts of mercenaries, in other States, or acquiescing in organized activities within their territory directed towards the commission of such acts”. Risoluzione 42/22, pag. 4.

21 Si tratta della sentenza Nicaragua vs. Stati Uniti della Corte Internazionale di

(18)

sentenza, viene ribadito, con l’introduzione dell’art. 2,4 della Carta delle Nazioni Unite, la possibilità per gli Stati di ricorrere all’uso della forza per la risoluzione di controversie internazionali soltanto in ipotesi tassativamente indicate dalla stessa Carta22. In secondo luogo, attraverso l’analisi del caso di specie, la Corte riformula e consolida il contenuto del divieto d’uso della forza così come affermato dalle precedenti risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, facendo riferimento sia alla forza diretta che all’uso della forza indiretta23. Nel testo della sentenza,

inoltre, vengono prese in considerazione anche tipi di forza diversi dalla forza armata, come distinguo della norma pattizia della Carta dalla norma a carattere consuetudinario24. Emblematici risultano però essere i paragrafi 190 e 191 della sentenza, secondo cui: “A further confirmation of the validity as customary international law of the principle of the prohibition of the use of force expressed in Article 2, paragraph 4, of the Charter of the United Nations may be found in the fact that it is frequently referred to in statements by State representatives as bring not only a principle of customary international law but also a fundamental or cardinal principle of such law. The International Law Commission, in the course of its work on the codification of the law of treaties, expressed the view that "the law of the Charter concerning the prohibition of the use of force in itself constitutes a conspicuous example of a rule in international law having the character of jus cogens (…). Nicaragua in its Memorial on the Merits

Nicaragua. Il testo è rinvenibile nell’archivio del sito della ICJ https://www.icj-cij.org/en

22 Nel proseguo della trattazione si analizzeranno dettagliatamente le eccezioni

all’uso della forza previste dalla Carta e dalle altre norme di diritto consuetudinario.

23 In particolare la Corte sanzione l’assistenza militare fornita dagli Stati Uniti ai “Contras”, gruppo paramilitare di ribelli, qualificando l’uso della forza come

“indiretto”, ai sensi della definizione di aggressione del 1974.

24 Si tratta di ipotesi già analizzate nel paragrafo precedente, a cui si rimanda e

sul cui punto non c’è piena unanimità. Ad ogni modo, si tratta di misure volte a coartare la volontà di altro Stato in maniera determinante.

(19)

submitted in the present case states that the principle prohibiting the use of force embodied in Article 2, paragraph 4, of the Charter of the United Nations "has come to be recognized as jus cogens". The United States, in its Counter-Memorial on the questions of jurisdiction and admissibility, found it material to quote the views of scholars that this principle is a "universal norm", a "universal international law", a "universally recognized principle of international law". As regards certain particular aspects of the principle in question, it will be necessary to distinguish the most grave forms of the use of force (those constituting an armed attack) from other less grave forms. In determining the legal rule which applies to these latter forms, the Court can again draw on the formulations contained in the Declaration on Principles of International Law concerning Friendly Relations and Co-operation among States in accordance with the Charter of the United Nations (...). In particular,

according to this resolution:

"Every State has the duty to refrain from the threat or use of force to violate the existing international boundaries of another State or as a means of solving international disputes, including territorial disputes and problems concerning frontiers of States” 25 . È qui definitivamente affermata, secondo la stratificazione normativa prima richiamata e ripresa dalla stessa Corte, la natura di norma di diritto consuetudinario, con valenza rafforzata di jus cogens, del divieto di uso della forza armata nelle controversie internazionali. Si tratta di un “principio cardine” del diritto internazionale, di una “norma universale”, riconosciuta all’unanimità dalla dottrina e della giurisprudenza che la stessa Corte si preoccupa di richiamare. Ciò vale in tutte le sue forme: siano atti di aggressione o azioni militari meno gravi, essendo richiamata la risoluzione sulla

25 Paragrafi 190 e 191 della sentenza Nicaragua vs. Stati Uniti della Corte

(20)

Definizione di Aggressione del 1974. Con la sentenza Nicaragua vs Stati Uniti del 1986 si completa il processo di consolidamento della norma prevista dall’art. 2,4 della Carta delle Nazioni Unite, con definitivo riconoscimento consuetudinario e precisa qualificazione del suo contenuto.

(21)

1.3 Le eccezioni tradizionali al divieto d’uso della forza nelle relazioni internazionali

Il divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali ha visto susseguirsi e cristallizzarsi nel tempo numerose eccezioni. Alcune clausole di giustificazione sono previste dalla stessa Carta delle Nazioni Unite e rappresentano una deroga pattizia alla disposizione dell’art. 2,4, nell’accezione sopra esaminata. Altre invece emergono dal diritto consuetudinario e rappresentano un tentativo di delimitazione del divieto, andando a restringere l’ambito di operatività della norma di jus cogens. Non tutte quest’ultime, però, riscuotono grande consenso all’interno della comunità internazionale e possono dirsi effettivamente riconosciute: mancando sia la diuturnitas, sia – soprattutto – l’opinio iuris ac necessitatis. Diversi sono gli argomenti che tentano di ampliare o legittimare il ricorso alla forza armata e diversi sono gli interessi coinvolti da parte degli Stati. Tuttavia la valenza rafforzata del divieto, quale principio cardine ed universale del diritto e delle relazioni internazionali, necessita di atteggiamenti prudenti e riflessivi. Occorre, infatti, valutare con estrema attenzione la meritevolezza delle singole clausole di giustificazione, il loro contenuto e la loro operatività. Compito, a ben vedere, di comoda risoluzione per le tradizionali eccezioni al divieto dell’uso della forza armata, ormai consolidatesi e riconosciute dalla totalità degli Stati. Ben più complicato è invece la qualificazione delle nuove clausole di giustificazione, posta la loro recente formazione e l’atteggiamento distaccato e diviso della comunità internazionale. Diversi sono stati i tentativi di codificazione e di tipizzazione del diritto internazionale generale. La stessa organizzazione delle Nazioni Unite, con l’istituzione della commissione di diritto internazionale nel 1947, ha cercato di consolidare quanto la prassi aveva affermato a livello

(22)

consuetudinario. È del 2001 il Progetto sulla responsabilità degli Stati che ha cercato di fornire un quadro dettagliato in materia. La questione è comunque ancora in corso di sviluppo, emergendo nuove ipotesi invocate dalla comunità internazionale per legittimare la violazione del divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali. Divieto che permane come norma suprema dell’ordinamento internazionale ma che deve adattarsi alle nuove situazioni della modernità, confrontandosi con bilanciamenti ed interpretazioni sistematiche.

(23)

1.4 (Segue) La legittima difesa individuale e collettiva

Prima eccezione all’uso della forza armata nelle relazioni internazionali è la legittima difesa, così come individuata dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Lo stesso articolo la definisce alla stregua di un diritto naturale, lasciando intendere che si tratta di un’eccezione derivante dal diritto internazionale generale e non priva di influssi di tipo giusnaturalistico26. Nella sentenza precedentemente esaminata Nicaragua

vs. Stati Uniti, il contenuto dell’art. 51 è pienamente riconosciuto come parte del diritto consuetudinario e pertanto applicabile anche ad attori non membri della Carta delle Nazioni Unite27. Quest’ultimo punto è di fondamentale importanza, poiché la norma pattizia della Carta limita l’operatività soggettiva della disposizione. Nell’articolo della Carta si legge: “Nothing in the present Charter shall impair the inherent right of individual or collective self-defense if an armed attack occurs against a Member of the United Nations, until the Security Council has taken the measures necessary to maintain international peace and security. Measures taken by Members in the exercise of this right of self-defense shall be immediately reported to the Security Council and shall not in any way affect the authority and responsibility of the Security Council under the present Charter to take at any time such action as it deems necessary in order to maintain or restore international peace and security”. Il diritto di legittima difesa riconosciuto dalla disposizione è in primo luogo individuale o collettivo. Nella prima accezione, si riconosce allo Stato che subisce un attacco armato di reagire autonomamente all’atto di aggressione. Nella seconda, affinché vi sia intervento di terzi parti e affinché si azioni il meccanismo di difesa collettiva, è necessario che vi sia

26 Così, E. Cannizzaro, Corso di diritto internazionale, Giuffrè, Torino, 2011. 27 Il tema è affrontato dai paragrafi 194 e ss. della sentenza.

(24)

il consenso dello Stato leso dall’attacco armato. Si intenda, il consenso deve soddisfare i requisiti individuati dall’art. 20 del progetto sulla Responsabilità degli Stati elaborato dalla Commissione del diritto internazionale in seno alle Nazioni Unite nel 200128. Si deve, cioè, trattare di consenso 1) validamente prestato; 2) chiaramente accertato e non presunto; 3) antecedente all’intervento; 4) legittimamente prestato dagli organi statali competenti. Con riferimento al primo punto il consenso deve risultare libero e cioè non condizionato da violenza o minaccia. Deve, pertanto, emergere da una domanda di aiuto consapevole ed autodeterminata da parte dello Stato vittima dell’attacco armato. In secondo luogo occorre che vi sia certezza assoluta sulla richiesta dell’intervento: il consenso non può essere tacito ma deve rappresentare chiaramente la volontà dello Stato di avvalersi del sistema di difesa collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite. Ancora, deve essere presente fin dall’inizio delle operazioni da parte dell’attore terzo e deve derivare dagli organi statali (di solito, di governo) capaci di impegnare la volontà politica dello Stato. Affinché il consenso possa ritenersi valido, è perciò necessario che soddisfi tutte le condizioni precedentemente elencate. In realtà, subordinare la reazione della comunità internazionale al consenso dello Stato leso può risultare una contraddizione, avendo il divieto di uso della forza carattere erga omnes e valenza rafforzata di jus cogens. Ogni membro della comunità internazionale, cioè, avrebbe interesse a reagire per porre fine ad una situazione a lui pregiudizievole in quanto destabilizzante l’ordine e la pace internazionale. E tuttavia da tutelare è non solo il divieto d’uso della forza nelle relazioni ma anche e soprattutto l’integrità territoriale dello Stato attaccato. In quest’ottica ben si comprende come sia necessario e giusto subordinare l’intervento di terzi

28 Si veda R. Luzzatto e F. Pocar, Codice di diritto internazionale pubblico,

(25)

e quindi l’operatività della legittima difesa collettiva al consenso dello Stato vittima dell’aggressione. In caso di necessità, infatti, sarà quest’ultimo a chiedere aiuto per porre fine alla grave violazione di diritto internazionale, altrimenti sanabile con una sua reazione unilaterale. Alla luce di quanto detto, altro elemento da analizzare nella disposizione normativa contenuta nell’art. 51 della Carta è la definizione di attacco armato, posto che soltanto la sua sussistenza (in corso) determina l’applicabilità della legittima difesa. L’eccezione prevista dalla norma è cioè esperibile soltanto quando vi sia un attacco armato in corso di svolgimento, che non sia cessato e perduri nel tempo. Sulla nozione e qualificazione occorre richiamare la risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla Definizione di Aggressione, la n. 3314 del 1974. In questo caso la definizione di attacco armato risulta particolarmente agevole, in quanto coincide con quella di Aggressione. Gli atti descritti nella risoluzione sono quindi utili (posto che la loro elencazione non è esaustiva) per l’individuazione di un attacco armato e per la conseguente operatività dell’art. 51 sulla legittima difesa. Si è già detto della perfetta coincidenza della disposizione con il diritto consuetudinario e sull’estensione del diritto anche a soggetti, quindi, non facenti parte delle Nazioni Unite. Il diritto previsto dall’art. 51, però, prevede una limitazione: lo Stato che agisce in legittima difesa deve notificare la propria reazione al Consiglio di Sicurezza affinché, quest’ultimo, possa intervenire con le misure necessarie per garantire la pace e ristabilire l’ordine internazionale. In attesa della presa di posizione del Consiglio e con rispetto delle ulteriori condizioni che poi si vedranno, la reazione dello Stato in legittima difesa è perciò lecita; dopo l’intervento del Consiglio di Sicurezza ai sensi del capo VII della Carta, lo Stato deve adottare e rispettare le misure dell’organo delle Nazioni Unite. In questo modo, la notifica immediata della reazione permette al Consiglio di

(26)

Sicurezza di valutare la legalità della legittima difesa, evitando sconfinamenti della risposta e ponendo in essere le misure più idonee alla risoluzione della controversia. In relazione ad eventi recenti della prassi, si è posta poi la questione di vedere se la nozione di attacco armato possa estendersi fino a coprire atti di aggressione posti in essere da enti non statali e contro i quali lo Stato bersaglio possa agire in legittima difesa29. Il quesito non è di difficile risoluzione, sebbene abbia visto giurisprudenza nel tempo discordante30. È fuori discussione che la nozione di legittima

difesa non possa autorizzare l’uso della forza sul territorio di un altro Stato in seguito ad azioni militari provenienti da quest’ultimo ma ad esso non imputabili. La responsabilità dello Stato potrebbe essere fatta valere in caso di chiaro collegamento con l’organizzazione o per una mancanza di controllo del proprio territorio. Ad ogni modo, il livello di interdipendenza tra lo Stato ed il gruppo armato autore dell’attacco deve essere tale da definire, ogni oltre ragionevole dubbio, l’imputabilità dello Stato. Ipotesi così restrittive fanno generalmente propendere per una risposta negativa all’uso della legittima difesa contro attori non statali. Unica eccezione, potrebbe derivare da una diversa configurazione del fenomeno. Nel caso in cui, infatti, l’organizzazione militare eserciti anche un controllo di fatto di parte del territorio dello Stato ospitante, in maniera per lo più esclusiva, potrebbe essere accreditata di soggettività giuridica e pertanto esposta a reazioni di legittima difesa31. Si tratta ovviamente di casi limite che di

29 Tra la manualistica tradizionale, B. Conforti, Diritto internazionale, Editoriale

Scientifica, Napoli, 2018.

30 In senso sembrerebbe positivo, sull’ammissibilità della legittima difesa contro

enti non statali, la risoluzione n. 1373 del 2001 adottata dal Consiglio di Sicurezza sulla reazione armata degli Stati Uniti contro il gruppo terroristico di Al Qaeda in Afghanistan. In senso invece assolutamente negativo il parere della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 sulle Conseguenze giuridiche della

costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati.

31L’acquisizione di soggettività giuridica è questione di fatto in diritto

(27)

fatto non mutano l’opinione negativa sull’applicabilità della legittima difesa contro enti non statali. Ulteriori requisiti dell’eccezione sono poi la necessità e la proporzionalità della reazione. Si tratta di condizioni non presenti nell’art. 51 della Carta, ma ormai universalmente riconosciute all’interno della comunità internazionale. Per necessità si intende l’uso inevitabile della forza come reazione all’attacco armato, posto che qualsiasi altro mezzo risulterebbe inidoneo per respingere la minaccia. L’uso della forza in legittima difesa rappresenta quindi l’extrema ratio in caso di aggressione ed è compito dello Stato valutare le soluzioni più efficaci. Valutazione analoga deve essere compiuta per il criterio della proporzionalità. Diverse sono le teorie sulla specificazione di tale requisito: si parla di proporzionalità soggettiva quando è lo Stato che agisce in legittima difesa ad individuare autonomamente l’adeguatezza della reazione; oggettiva quando strumento di comparazione sono i mezzi utilizzati nel respingere l’attacco armato in confronto a quest’ultimo. Ad ogni modo, nessuna delle due interpretazioni sembra soddisfare pienamente il requisito della proporzionalità, prestandosi entrambe ad abusi e sconfinamenti, senza tener conto della migliore soluzione. La risposta della reazione infatti deve essere funzionale – ed è forse questo il parametro più giusto su cui valutare la proporzionalità – alla difesa dell’integrità territoriale e all’allontanamento della minaccia. Ciò significa che la legittima difesa non può trasformarsi a sua volta in un atto di aggressione o utilizzare gli stessi mezzi dell’attacco armato se ciò non risulta necessario: in attesa delle misure adottate dal Consiglio di

territorio. Il riconoscimento da parte degli Stati ha infatti meramente funzione dichiarativa, essendo prevalentemente un atto politico. Sul punto l’art. 3 della Convenzione di Montevideo del 1933 individua alcuni requisiti base. Per un approfondimento sul tema: E. Sciso, Successione internazionale, in Cassese, Dizionario di Diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 2006 e J. A. Frowein,

Recognition, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law,

(28)

Sicurezza, la reazione dello Stato deve limitarsi a quanto indispensabile per neutralizzare l’uso della forza armata contro la sua integrità territoriale. Quanto descritto deve verificarsi – come già anticipato precedentemente – nell’immediatezza dell’atto di aggressione, in un tempo congruo per la preparazione della risposta. Ulteriore requisito affinché la legittima difesa sia lecita è perciò che sia tempestiva e contestuale all’attacco armato, non essendo considerata più tale dopo che sia trascorso un lasso di tempo indefinito. Negli ultimi anni, inoltre, si è esteso il campo di applicazione dell’eccezione in esame: si tratta della legittima difesa preventiva. In base a quest’ultima formulazione, viene meno il requisito della presenza e persistenza di un attacco armato. La minaccia di un atto di aggressione imminente e facilmente riconoscibile rende di per sé lecita la reazione di legittima difesa, anche se l’attacco non si è di fatto ancora verificato. L’art. 51 della Carta in realtà non fa alcun riferimento alla legittima difesa preventiva. È comunque condivisa da buona parte della dottrina l’impostazione restrittiva appena descritta32, che propende per l’ammissibilità della legittima difesa preventiva in caso di evidente ed imminente attacco armato: non si vede infatti perché lo Stato sia costretto a subire necessariamente le conseguenze e i danni dell’aggressione prima di poter reagire in difesa della sua integrità territoriale. Il principio di precauzione 33 del diritto internazionale

suggerisce l’applicabilità della legittima difesa preventiva alle situazioni sopra descritte. Meno condivise ed accettate sono le tesi elaborate negli

32Si tratta dell’ipotesi restrittiva della legittima difesa preventiva, nell’evidente imminenza di un attacco armato: si vedano già N. Ronzitti, Introduzione al

diritto internazionale, Giappichelli, Torino, 2015 e B. Conforti, Diritto internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018.

33 Per un’analisi sul principio di precauzione e sul suo riconoscimento in diritto

internazionale: M. Alberton, La quantificazione e la riparazione del danno

ambientale nel diritto internazionale e dell’Unione Europea, Giuffrè, Milano

(29)

ultimi anni su tale eccezione, che vorrebbero estendere in maniera eccessiva il campo di operatività della legittima difesa preventiva34. Si

tratta della c.d. dottrina Bush sviluppata dall’allora amministrazione americana come reazione all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Nella lotta al terrorismo e alle organizzazioni criminali, la legittima difesa preventiva è stata strumentalizzata per permettere agli Stati Uniti di ricorrere all’uso della forza nelle guerre di invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, sull’assunzione che tali Stati fossero complici – seppur passivamente – delle azioni militari perpetrate dalle organizzazioni terroristiche35. In questo modo, il concetto di legittima difesa preventiva si è ampliato indefinitamente, senza alcuna effettiva giustificazione. Il rischio è quello di andare a svuotare il divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali, introducendo un’eccezione dai confini labili ed imprecisi. L’intervento americano in Afghanistan e in Iraq è stato, infatti, criticato duramente da molti attori della comunità internazionale. Nel primo caso, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n. 1368 e 1373 del 2001 hanno giustificato la reazione della coalizione guidata dagli Stati Uniti contro gli attacchi terroristici dell’11 settembre, riconoscendo nell’organizzazione terroristica di Al-Qaeda e nel regime dei Talebani una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale36. Con la missione

34 Si fa riferimento prevalentemente alla c.d. dottrina Bush, elaborata dall’amministrazione americana nel documento White House, National Strategy

for Combating Terrorism, a Washington, nel febbraio del 2003, consultabile sul

sito della Cia www.cia.gov. Sul punto inoltre, E. Cannizzaro, La dottrina della

guerra preventiva e la disciplina internazionale sull’uso della forza, in Rivista di

Diritto Internazionale, 1, 2003, p. 171 e ss.

35 Per una panorama storica sul fenomeno, E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, dalla fine della guerra fredda ad oggi, Laterza, Bari, 2016.

36

Nella risoluzione n. 1368 del 2001, par. 3, si legge: The Security Council,

determined to combat by all means threats to international peace and security caused by terrorist acts, recognizing the inherent right of individual or collective self-defence in accordance with the Charter(...) calls on all States to work together urgently to bring to justice the perpetrators, organizers and sponsors of

(30)

Enduring Freedom, il regime dei Talebani, in quanto fortemente interdipendente con l’organizzazione terroristica di Al Qaeda, è stato rovesciato e l’attacco armato statunitense è stato, di fatto, riconosciuto quale reazione di legittima difesa preventiva contro gli attacchi terroristici dell’11 settembre e nell’imminenza di nuove ed alquanto prevedibili aggressioni. In questo caso, quindi, la nozione di legittima difesa preventiva ha riscosso buon consenso da parte della comunità internazionale, essendo ancorata ai criteri precedentemente esaminati e condivisi dalla dottrina, quale ipotesi restrittiva di uso della forza nell’evidente imminenza di nuovi attacchi armati37. Nel secondo caso, per l’intervento statunitense in Iraq del 2003, sono sorte, invece, maggiori perplessità. La dottrina Bush riscosse scarsa adesione all’interno della comunità internazionale e la nozione di legittima difesa preventiva venne enormemente strumentalizzata. Secondo le argomentazioni americane, la reazione era giustificata non solo come risposta al terrorismo internazionale (con molte meno prove rispetto alla situazione in Afghanistan) ma anche come attacco al regime di Saddam Hussein, colpevole di dotarsi di armi di distruzione di massa. La replica del these terrorist attacks and stresses that those responsible for aiding, supporting or harbouring the perpetrators, organizers and sponsors of these acts will be held accountable”; Nella risoluzione successiva n. 1373 del 2001, par. 3, inoltre,

si afferma: The Security Council, reaffirming further that such acts, like any act

of international terrorism, constitute a threat to international peace and security, reaffirming the inherent right of individual or collective self-defence as recognized by the Charter of the United Nations as reiterated in resolution 1368 (2001), reaffirming the need to combat by all means, in accordance with the Charter of the United Nations, threats to international peace and security caused by terrorist acts (...) calls upon all States to cooperate, particularly through bilateral and multilateral arrangements and agreements, to prevent and suppress terrorist attacks and take action against perpetrators of such acts”.

37 Sul punto è intervenuta anche la risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1378

del 2001, successiva alla caduta dei Talebani, che ha riconosciuto il mutamento del regime in Afghanistan, avallando perciò l’intervento della coalizione statunitense a titolo di legittima difesa preventiva per gli attacchi terroristici dell’11 settembre del 2001.

(31)

Consiglio di Sicurezza fu piuttosto netta: con la risoluzione n. 1483 del 200338 Stati uniti e Regno Unito furono riconosciute potenze occupanti il

territorio iracheno, violando il divieto dell’uso della forza armata previsto dall’art. 2,4 della Carta e dal diritto consuetudinario. Nella situazione appena descritta, infatti, non può essere riconosciuta alcuna legittima difesa preventiva, essendo, l’intervento statunitense, non giustificato da evidenze pratiche ed esorbitante le finalità dell’eccezione. A differenza dell’Afghanistan, non vi erano, infatti, collegamenti chiari tra il regime iracheno e l’organizzazione terroristica di Al-Qaeda e mancava inoltre il requisito dell’imminenza di nuovi attacchi armati. Alla luce di queste considerazioni, ben si capisce la risposta del Consiglio di Sicurezza e della comunità internazionale. Gli esempi sopra riportati aiutano a rinsaldare nella pratica quanto affermato dalla dottrina sulla legittima difesa preventiva. Si tratta di un’eccezione perciò che può essere accolta soltanto nella sua ipotesi restrittiva, in presenza di condizioni particolarmente stringenti ed evidenti e cioè in risposta ad attacchi già sferrati e nell’imminenza di nuovi casi di aggressione.

38 Nella stessa risoluzione si chiede agli Stati membri delle Nazioni Unite di

intervenire per assicurare la stabilità e la sicurezza dell’Iraq, con riconoscimento dell’auto-governo del Paese.

(32)

1.5 (Segue) Il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite: l’autorizzazione del Consiglio

Tra le eccezioni tradizionali al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali vi è l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottabile ai sensi del Capitolo VII della Carta. Si tratta del c.d. sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite che prevede, accanto a misure non comportanti l’uso della forza armata, ipotesi particolari di intervento militare39. Così come già ricordato dai principi

generali delle Nazioni Uniti, il Consiglio di Sicurezza ha competenza esclusiva in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Tale riconoscimento è dato dal raccordo sistematico tra gli art. 11 e 24 della Carta delle Nazioni Unite, secondo cui “i Membri delle Nazioni Unite attribuiscono al Consiglio di Sicurezza la primaria responsabilità per il mantenimento della sicurezza e della pace internazionale”, essendo l’Assemblea Generale deputata all’analisi ed alla discussione delle questioni ad essa sottoposte, con possibilità di pareri o raccomandazioni40. Il Sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite

39 Si veda, P. Picone, Le autorizzazioni all’uso della forza tra sistema delle Nazioni Unite e diritto internazionale generale, Rivista di diritto internazionale,

1, 2005, p. 5 e ss.

40L’art. 11 della Carta definisce principalmente le prerogative dell’Assemblea Generale, come organo ausiliario del Consiglio di Sicurezza. Le funzioni e i poteri dell'Assemblea Generale in materia di prevenzione e risoluzione delle controversie sono specificati principalmente nel capo IV della Carta. Sotto i vari articoli del capo, l'Assemblea ha il potere, inter alia, di: discutere di tutte le richieste o questioni che rientrano nel campo di applicazione della Carta o relative ai poteri ed alle funzioni degli organi previsti dalla Carta, comprese quelle relative alla mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, che sono stati portati prima che dagli Stati membri o dal Consiglio di Sicurezza, formulando raccomandazioni su tali questioni od argomenti; richiamare l'attenzione del Consiglio su situazioni che possano mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. L’art. 24 invece evidenzia i compiti e le attribuzioni proprie del Consiglio, secondo cui: “In order to ensure prompt and effective

(33)

si basa quindi sul raccordo di questi due organi e sulla preminenza del Consiglio nelle misure da adottare per far fronte alle minacce alla pace internazionale. A tale proposito, il capo VII della Carta41 si preoccupa di individuare gli strumenti necessari allo scopo: secondo l’art. 41 il Consiglio di Sicurezza decide quali misure, non comportanti l’uso della forza, devono essere implementate da parte degli Stati membri per rendere effettive le sue decisioni: si tratta di ritorsioni commerciali con limitazione parziale o totale degli scambi, di interruzione dei mezzi di comunicazione per aria, mare o terra e di inasprimento delle relazioni diplomatiche42. Nessuna delle misure previste dall’art. 41 della Carta delle Nazioni Unite prevede l’uso della forza armata. Si tratta di interventi eccezionali: l’art. 42 stabilisce, infatti, che il Consiglio di Sicurezza, in caso di inadeguatezza presunta o provata delle misure adottate ai sensi dell’articolo precedente, può esercitare l’uso della forza armata, attraverso dimostrazioni, blocchi o operazioni degli Stati membri

primary responsibility for the maintenance of international peace and security, and agree that in carrying out its duties under this responsibility the Security Council acts on their behalf. In discharging these duties the Security Council shall act in accordance with the Purposes and Principles of the United Nations. The specific powers granted to the Security Council for the discharge of these duties are laid down in Chapters VI, VII, VIII, and XII. The Security Council shall submit annual and, when necessary, special reports to the Gen- eral Assembly for its consideration”.

41 Il Capo VII della Carta delle Nazioni Unite prevede misure di tipo coercitivo,

implicanti anche l’uso della forza armata. Alla risoluzione pacifica delle controversie è invece dedicato il Capo VI della Carta, con l’analisi degli strumenti più diffusi (negoziato, mediazione, conciliazione o buoni uffici, arbitrato e ss.). Per un approfondimento sul tema: Handbook on the Peaceful Settlement of Disputes between States, United Nations, New York, 1992.

42

Il testo dell’articolo 41 della Carta delle Nazioni è il seguente: “The Security

Council may decide what meas- ures not involving the use of armed force are to be employedtogiveeffecttoitsdecisions,anditmay call upon the Members of the United Nations to apply such measures. These may include com- plete or partial interruption of economic relations and of rail, sea, air, postal, telegraphic, radio, and other means of communication, and the severance of diplomatic relations”.

(34)

dell’organizzazione43. Nel corso degli anni, l’uso diretto della forza armata

da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non ha mai trovato applicazione: gli art. 43 e ss. che prevedevano la formazione di un autonomo contingente militare sotto il comando della Commissione Militare delle Nazioni Unite (composta dai Capi di Stato Maggiore dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza) non sono mai stati definitivamente attuati. In mancanza di tale implementazione, l’uso diretto della forza armata da parte del Consiglio di Sicurezza sarebbe pertanto sostituito dalla delega o autorizzazione a favore di uno o più Stati membri, secondo la vigilanza e le direttive impartite dallo stesso Consiglio nella relativa risoluzione. Ciò è quanto emerge in dottrina, in base ad un’interpretazione sistematica degli art. 42 e 48, secondo cui “l’azione da implementare per dare applicazione alla decisioni del Consiglio di Sicurezza può essere intrapresa da tutti i membri delle Nazioni Unite o solo da alcuni di essi, secondo le determinazioni del Consiglio”44. Gli Stati membri assumono così la responsabilità di salvaguardare direttamente (o per mezzo delle agenzie regionali a cui appartengono) la pace e la sicurezza internazionale, dispiegando i loro contingenti militari sotto la guida e la supervisione del Consiglio di Sicurezza. Eccezione all’uso della forza armata, quindi, diviene, nel sistema di sicurezza collettivo previsto

43Si legge: “Should the Security Council consider that meas- ures provided for

in Article 41 would be inade- quate or have proved to be inadequate, it may take such action by air, sea, or land forces as may be necessary to maintain or restore international peace and security. Such action may include demonstrations, blockade, and other operations by air, sea, or land forces of Members of the United Nations”.

44

Per una ricognizione dottrinale: N. Ronzitti, Introduzione al diritto

internazionale, Giappichelli, Torino, 2015. Si riporta, inoltre, versione originale

dell’art. 48, secondo cui: “The action required to carry out the deci- sions of the

Security Council for the mainte- nance of international peace and security shall be taken by all the Members of the United Nations or by some of them, as the Security Council may determine. Such decisions shall be carried out by the Members of the United Nations directly and through their action in the appropriate international agencies of which they are members”.

Riferimenti

Documenti correlati

Come è stato osservato( 134 ), i tribunali peruviani che hanno applicato la teoria dell’autoria mediata mediante apparati di potere organizzati non hanno individuato, alla

5 Una conclusione analoga era stata suggerita dall’Avvocato Generale, §75-79, sulla base di quattro ordini di considerazioni: il fatto che le motivazioni, i preamboli e

Risultati: Evidenziazione, da un lato, del nuovo binomio unilateralità/consensualità del raccordo organizzativo tra i contraenti ai fini della qualificazione dei rapporti

S CARPELLI , Il lavoro autonomo nell’emergenza tra bisogno, (poche) tutele, re- gole del contratto, in O.. 9, relativo alla zona rossa composta dai co- muni lombardi del lodigiano

Grazie alla sua formazione in diritto ed economia, è riuscito ad integrare il suo lavoro accademico con il diritto del lavoro, la teoria della organizzazio- ne, le relazioni

La collaborazione coordinata (autonomia) è caratterizzata dall’assenza, in capo al committente, di ogni potere unilaterale in merito alla presta- zione di lavoro giacché le parti

Tale elemento assume ancora più valore, nella vicenda oggetto della presente analisi, se letto assieme alla mancanza, da un lato, del rischio economico in capo agli associati

zionale delle Ricerche rilascia non più di trenta articoli espressamente dedicati alla ana- lisi di uno specifico contratto collettivo nazionale di lavoro del settore privato