Una commissione che già da qualche tempo si è formata in Arezzo, per promuovere nel 1904 grandi onoranze a Francesco Petrarca, è stata in questi giorni ricevuta dal Re e dalla Regina d’Italia, ed ha avuto l’assicurazione che di quelle feste Essi accetteranno l’alto patronato. Bene sta. Conviene alla città che accolse l’esule padre del grande poeta, ed onorò il figliuolo magnificamente e fu gelosa custode della memoria unica che egli vi lasciò, la sua casa natale, opponendosi per mezzo del suo magistrato, alle pretese che il padrone di quella aveva di restaurarla e di ingrandirla, per mostrarla a dito; con- viene dunque all’ospitale città, che fu a dire del poeta stesso “più generosa ad uno straniero che non Firenze ad un figlio” di rivendicare a sé stessa l’onore ed il diritto di celebrare, a sei secoli di distanza, la memoria di un uomo che ebbe l’anima più varia e più canora nel ferreo ed angusto trecento: celebrar- lo in questa Italia rinnovellata che primo di tutti gli uomini del rinascimento egli sognò così come l’han fatta i sogni ed il san- gue di anime grandi e generose, cinta dal doppio mare e difesa dalle Alpi.
Ma è debito nostro domandarci quali saranno queste ono- ranze e queste feste? La Commissione aretina non s’è formata oggi soltanto: è qualche anno che essa vagheggia il nobile pen- siero di onorare il nostro grande, ma l’appello suo agli italiani non sortì che scarso effetto di incoraggiamenti e di sussidi
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materiali, indispensabili purtroppo in un disegno di questo genere. Celebrare la memoria di Francesco Petrarca è forse una delle cose più ardue che una riunione di cittadini possa proporre: poiché bisognerebbe che queste onoranze riuscisse- ro degne non solamente del poeta grandissimo, ma dell’uomo che godé, quasi unico privilegiato nella storia delle lettere nostre, della fortuna più sconfinata e degli onori più straordi- nari che sieno mai toccati ad un artista. Quali feste, quali onori immagineranno adunque gli italiani del nostro secolo che egli già non abbia goduto largamente mentre era vivo? Egli se ne sentiva ricolmo e sazio, tanto che non onorevoli dimostrazioni voleva più chiamarle ma “cure onerose” che non tornavano più in pro di quella quiete che unicamente desiderava. Che cosa troveranno gli italiani d’oggi che non rie- sca inferiore allo spettacolo di Pandolfo Malatesti che si reca a visitarlo a Milano, pur convalescente e portato a braccia dai servi? Che cosa che possa equivalere alla visita del gran sini- scalco del Regno di Napoli, Niccolò Acciaiuoli, che mette il piede sulla sua “povera soglia” col capo scoperto e quasi pro- strato innanzi a lui? O a quella di Enrico Capra, l’orafo di Bergamo, che si diede a spendere “una non lieve parte del suo patrimonio per fargli onoranze”, o di quel Perugino che, vec- chio e cieco, teneva scuola di grammatica a Pontremoli, e che appoggiato alle spalle dell’unico giovinetto suo figlio si reca per incontrarlo prima a Napoli, e di là a Roma e di là a Parma, varcando nel cuor dell’inverno l’Appennino bianco, deciso come egli dichiarò a Re Roberto, ove non gli venisse meno la vita, di cercarlo ancora fin nelle Indie? O di tutti quei nobili e dotti personaggi, che quando egli dimorava nelle Gallie, “dal- l’interno della Francia e dall’Italia, non per altro colà si con- ducevano se non per conoscerlo e parlar con lui”, e se per caso non lo trovavano in città “senza curarsi d’altra cosa se ne partivano e venivano difilato al monte della Sorga, ove egli soleva, specialmente d’estate, tener sua dimora”?
Sarà impossibile che gli italiani d’oggi possano immaginare nulla di più magnifico e di più splendido di queste antiche onoranze; checché essi promuovano, le solite accademie, le solite commemorazioni, le solite lapidi, le solite nostre povere cerimonie, insomma che con una scoraggiante egualità servo-
no, nel nostro tempo, alla celebrazione dei grandi e dei mediocri; nulla varrà ad eguagliare quello che lo spirito più magnifico dei nostri antichi ebbe ad immaginare.
Ora non così si dovrà onorare Francesco Petrarca. Il nostro più grande lirico, l’uomo che primo in Europa ha gettato in una forma che visse intatta a traverso tanti secoli, e che oggi ancora ci apparisce meravigliosa nella sua lucentezza e nella sua compattezza, tutte le più invisibili pieghe dell’anima agita- ta dalle passioni, che colse i più delicati, i più fuggevoli muta- menti dell’animo, che circondò di un fascino insuperato le più stridenti e violente contraddizioni del pensiero e del senti- mento, che diede all’amore il gemito di una melodia solitaria, all’amor patrio il soffio turbinoso di una potente orchestrazio- ne, e al dolore disperato strappi di accordi meravigliosi ed arditi; questa grande figura si deve onorare in una maniera un po’ diversa dalle nostre solite e veramente più degna.
A questo vorrei pensassero i promotori delle prossime feste. E pensassero anche ad un’altra cosa: che Francesco Petrarca è non solamente il nostro lirico più grande, ma anche una delle menti più vaste fiorite in quel periodo che preparò il nostro meraviglioso Rinascimento. Tutta la sua personalità che già mal si abbraccia da chi di proposito ricerchi ed esamini l’ope- ra sua è disgraziatamente poco nota al comune delle nostre persone colte: il poeta è troppo visto a traverso quella maniera che da lui prese il nome, e l’uomo dalla mente vasta, che dal- l’espressione dei propri sentimenti passava allo studio dei fatti naturali coi criteri quasi di uno scienziato, che dalla celebra- zione dei fasti dell’antica Italia correva allo studio degli anti- chi nostri monumenti con istinto di critico e con amore di dotto, che coltivò ed intese con largo soffio moderno quasi ogni altra disciplina ed arte, è completamente ignorato. Liberare adunque il Petrarca dal petrarchismo, e rivelare le altre qualità straordinarie dell’uomo, ecco il solo compito, mi pare, che resti agli uomini che vogliano rendere onore alla sua memoria. E si potrebbe degnamente, purché il Comitato sorto in Arezzo volesse tenacemente proseguire quest’intento. In un paese come l’Inghilterra, dove la tradizione poetica è ricca e il culto per i grandi è veramente nobile, allorché si vuole onora- re qualcuno di quelli la cui azione fu più larga sui suoi coeta-
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nei, si fonda una Società che s’intitola al nome di lui e che accoglie nel suo seno tutti gli studiosi di quelle opere. E si adunano tutte le pubblicazioni intorno a quell’autore, e si attende alle edizioni delle sue opere, se ne illustra con mono- grafie il pensiero, se ne divulga l’amore, se ne tien desta la fama. Così sono sorte fra le più fiorenti, le Società per Shakespeare, quelle per Milton, quelle per Shelley e per Ruskin. Accanto dunque alla nostra Società dantesca beneme- rita assai degli studi e della cultura nostra per quella mirabile edizione del De vulgari eloquentia procurata da uno dei suoi soci più illustri, Pio Rajna, e per le altre che darà in seguito, e più assai per l’amore con cui divulga il gusto di quella divina poesia, accanto ad essa, perché non potrebbe sorgere sotto gli auspici dei Reali d’Italia, la nuova Società intitolata ad un altro grande, che si curasse di darci edizioni e traduzioni delle opere petrarchesche, oggi non alla portata di tutti, di illustrar- ne con letture, con discorsi, monografie, in ogni altro modo qualsiasi il mirabile pensiero e le svariate attitudini, e di diffondere l’amore della sua arte meravigliosa?
Non mai festa più nobile si potrebbe preparare al grande Aretino, se non annunziando il giorno in cui ricorra il sesto suo centenario dalla nascita, che si sono raccolti nel suo nome uomini colti, studiosi d’ogni parte d’Italia, per fargli onore, per rivelarlo tutto intero a quella patria che egli tanto amò e che pur tanto l’onorò per l’addietro. Sarà come se il suo spiri- to tornasse veramente tra noi dopo una lunga assenza, sarà come se egli risalutasse dalle Alpi la sua terra diletta: “Agnosco patriam, gaudensque saluto: / salve pulchra parens, terrarum gloria, salve”321.