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Il Fronte democratico popolare e l’eclissi del concetto di piano

Alla fine del 1947, poche settimane dopo la Conferenza economica socialista, nasce ufficialmente, per iniziativa del PSI, il Fronte democratico popolare per la libertà, il lavoro e la pace. Il partito consolida così ulteriormente il legame con il PCI, da sempre tiepido, se non ostile, verso i progetti socialisti di pianificazione. In coincidenza con questo sviluppo, la linea di politica economica del partito si modifica; le istanze planiste finiscono infatti in secondo piano, mentre viene accentuata l’importanza degli istituti di democrazia diretta, i quali assumono un valore diverso rispetto alla fase precedente.

Questo nuovo orientamento emerge in maniera chiara già agli inizi del 1948. In gennaio si svolge a Roma un Consiglio della corrente socialista della CGIL, nel corso del quale si verifica un altro confronto tra Morandi e Riccardo Lombardi. Morandi muove dalla constatazione delle funzioni sempre più ampie assunte dallo Stato nel processo produttivo a partire dal periodo fascista: l’espansione del settore pubblico è però avvenuta nell’interesse non della collettività ma del grande capitale, anche nei tempi recenti, essendo la Confindustria riuscita a garantirsi il controllo dell’apparato statale con l’estromissione delle sinistre dal governo161. Questo dato di fatto impone alla classe operaia un cambiamento di strategia. Morandi, con una onesta e lucida autocritica, riconosce tutti i limiti della politica seguita da PSI(UP) e PCI fino al maggio 1947, allorché i due partiti marxisti si erano cullati nell’illusione che la loro sola presenza nella compagine ministeriale sarebbe bastata a garantire l’attuazione di riforme di struttura capaci di incidere sul sistema economico e di alterare assieme ad esso i rapporti di forza tra le classi; ammette ora il dirigente socialista che «quelle riforme di struttura come mutazione improvvisa di scenario, come atto di imperio del governo e dello Stato, non potevano venire a compimento per la situazione politica e le resistenze che erano frapposte ai nostri sforzi e noi dovevamo quindi fallire in questo nostro tentativo. E ciò costituisce altresì una prova dell’impossibilità a procedere con metodi

161 In un articolo comparso alla vigilia del Consiglio sindacale, Felice Vinci aveva sottolineato

l’importanza del controllo dell’apparato statale in chiave anticiclica scrivendo che «la ripartizione del reddito collettivo tra i consumi e gli investimenti dà luogo a squilibri, che nel corso del tempo anziché eliminarsi tendono a cumularsi (anche se prodotti da circostanze casuali) e che nelle collettività a sviluppo complesso richiedono l’intervento assiduo e illuminato dello Stato affinché l’attività economica non si riduca a una successione di catastrofi e a una fucina di disoccupati». FELICE VINCI, Politica economica nefasta, «Avanti!», 14 gennaio 1948.

gradualistici e riformistici»162. Il fallimento della prospettiva “illuministica” di un riformismo calato dall’alto impone alla classe operaia l’adozione di un prassi autenticamente rivoluzionaria, consistente nell’assunzione del controllo del processo produttivo partendo dall’interno delle stesse strutture produttive; sono così delineate, sebbene in maniera non ancora compiuta, la teoria dei contropoteri e quella del controllo operaio, sviluppate negli anni seguenti da Basso e Panzieri. Morandi si affretta a chiarire che la nuova strategia non deve essere confusa con la rivendicazione di qualche forma di cogestione istituzionalizzata, sul modello di quella che sarà la Mitbestimmung tedesca; infatti, «la partecipazione delle forze del lavoro alla gestione aziendale non si pone come una aspirazione ad essere partecipi degli utili aziendali, ma bensì come una necessità assoluta di controllo di quella che è la gestione e la direzione dell’attuale economia»163. La strategia rivoluzionaria configura «un’azione che ha per caratteristica quella di cercare la presa nel vivo del dinamismo produttivo, che affronta gli ostacoli e le resistenze non più sotto l’aspetto politico, contrastando quei partiti o quel partito che ricoprono e rappresentano gli interessi del grande capitale», ma, al contrario, «attaccando questi ostacoli e queste resistenze sul loro terreno, dove riteniamo si applica la funzione di direzione e gestione dell’attività economica e quindi non a caso la nostra azione si inizia con la ripresa del movimento dei Consigli di Gestione […]»164. Dunque, l’obiettivo che Morandi addita ai socialisti è quello di inserirsi «nella dinamica stessa della produzione, per impadronirci di certe posizioni di controllo per demolire tutte le forme di accaparramento capitalistico della produzione con un’azione che parte dalla base e che ci consente di impegnare tutto il peso delle forze effettive che noi rappresentiamo nel paese»165. Lo strumento che Morandi individua per imporre il controllo dei lavoratori sulle attività produttive, sono, per l’appunto, i Consigli di gestione, i quali devono assumere un nuovo ruolo e nuove finalità166. Il dirigente

162 PARTITO SOCIALISTA ITALIANO, III Consiglio Sindacale Nazionale. Atti. 16-18 gennaio 1948,

Roma, 1948, p. 29. Corsivo aggiunto.

163 Ibidem.

164 Op. cit., pp. 30-31. Corsivo aggiunto. 165 Op. cit., p. 31. Corsivo aggiunto.

166 Nella relazione sulla situazione sindacale svolta al Consiglio, anche Fernando Santi, segretario

socialista della CGIL, aveva sottolineato l’esigenza di una ridefinizione del ruolo dei Cdg, dichiarando: «Il Sindacato finora ha operato sul piano della distribuzione del reddito attraverso migliori salari; con il Consiglio di Gestione verrà ad operare sul piano stesso della produzione affinchè essa sia sottratta a fini egoistici e volta invece a fini sociali. Il Consiglio di Gestione rappresenta la moderna formulazione dell’aspirazione profonda dei lavoratori a partecipare alla direzione dell’impresa». Santi non risparmia critiche ai suoi stessi compagni di partito per il modo in cui hanno affrontato la questione nel periodo di partecipazione del PSI al governo: «Vi è stato un troppo lungo periodo di tempo nel quale troppi problemi vennero confinati al vertice dell’attività parlamentare e governativa. Anche per i Consigli di Gestione si attendeva un provvedimento dall’alto che in realtà – nelle vesti del progetto Morandi – dormì lunghi e

socialista non esita a dichiarare superato dalle circostanze il disegno di legge da lui predisposto nell’estate del 1946 per il riconoscimento giuridico dei Cdg, che considerava questi ultimi come «l’osservatorio e lo strumento di un’azione che sviluppandosi dall’alto tendevano [sic] a serrare l’economia privata in una rete di cui si sarebbero infittite via via le maglie»167 e che presupponeva quindi come condizione attuativa, nella citata ottica verticistica, la presenza dei partiti operai al governo. Morandi riconosce così che le dichiarazioni socialiste del 1945-46 sulla necessità di favorire la partecipazione delle forze della produzione all’elaborazione del piano, per impedire che questo assumesse connotati centralistici e burocratici, non erano riuscite ad elevarsi dal terreno della propaganda, venendo di fatto sacrificate alle intese di vertice e alle esigenze imposte ai socialisti dalla partecipazione al governo. Il passaggio delle sinistre all’opposizione aveva però consentito l’accantonamento di questa concezione meramente strumentale (che, confinando l’azione dei Consigli nei limiti delle singole aziende, in taluni casi aveva involontariamente finito per trasformare questi ultimi in «strumenti inconsci dei datori di lavoro»168) e la definizione di nuove competenze per i Consigli, i quali – e qui Morandi riprende quanto sostenuto nel corso della Conferenza economica di novembre a proposito del rapporto tra pianificazione e forme di controllo operaio – devono adesso diventare «in seno alle fabbriche e alle officine, una rivendicazione di tutta la classe operaia nel quadro di una politica generale di una economia pianificata»169.

La concezione morandiana dei Consigli di gestione registra dunque, rispetto alle formulazioni precedenti, un evidente salto di qualità. Se nella fase della solidarietà nazionale questi erano stati semplici organi di carattere tecnico incaricati di vigilare sull’operato delle direzioni aziendali, rappresentando «un momento più di controllo che

polverosi sonni sul tavolo ministeriale dell’on. De Gasperi. Oggi che la lotta si trasferisce nel Paese dove sono attive le contrastanti forze sociali, il problema ritorna di palpitante attualità». I Consigli, infatti, «direttamente legati al Sindacato e collegati per settore e sul piano nazionale, possono costituire una robusta intelaiatura sulla quale un governo democratico può poggiare efficacemente una programmazione della produzione in senso razionale e sociale». Santi insiste però ancora sul carattere interclassista dei Cdg, mediante i quali «si rinsalderanno i legami di solidarietà che devono esistere fra gli operai e gli impiegati tecnici e amministrativi» e sarà finanche possibile trovare «il giusto punto di incontro di solidarietà fra operai e dirigenti». Op. cit., pp. 19-20.

167 Op. cit., p. 31. 168

Ibidem. In un celebre saggio del 1961, Panzieri esprimerà un giudizio simile sul ruolo svolto dai Consigli di gestione nella fase della ricostruzione: «Nel movimento dei Consigli di gestione, una esigenza autentica di controllo operaio veniva subordinata – fino all’annullamento – all’elemento “collaborazionistico” legato alle ideologie della ricostruzione nazionale e a una impostazione strumentale del movimento reale rispetto al piano istituzionale-elettorale». RANIERO PANZIERI, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in ID., Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, a cura di Sandro Mancini, Torino, Einaudi, 1976, p. 23. Il saggio in questione era originariamente apparso sul primo numero del «Quaderni rossi».

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di gestione» ed assolvendo una funzione «eminentemente consultiva»170, adesso essi assumono una chiara valenza politica come strumenti di democrazia industriale in grado di instaurare il controllo operaio sul processo produttivo all’interno della fabbrica e di bilanciare così, nel cuore delle strutture produttive, la debolezza scontata dalla classe operaia al livello delle sovrastrutture istituzionali a seguito dell’allontanamento dei suoi partiti dall’esecutivo. A garantire da ogni possibile deviazione spontaneista vi è il piano economico, che fornisce l’indispensabile cornice all’interno della quale i Consigli devono operare. La radicalizzazione della prospettiva morandiana risulta evidente171.

L’intervento svolto al Consiglio sindacale da Riccardo Lombardi si muove invece nel segno della continuità con quanto sostenuto nel recente passato dall’ex segretario del PdA. Lombardi – che già in questo periodo si segnala come «il grande dissenziente» nei confronti di Morandi172 – dichiara che l’opera di ricostruzione economica , la quale, data la condizione di deterioramento dell’apparato produttivo, «esige dei sacrifici»173, non può essere guidata dalla borghesia capitalistica, ma deve

passare sotto la direzione della classe operaia, dal momento che essa è chiamata a sostenerne il peso maggiore. Lombardi rinnova nell’occasione la polemica con Morandi, già emersa durante la Conferenza economica, sul rapporto risparmi-investimenti. Mentre infatti nel suo discorso Morandi aveva negato che la situazione economica

170 Cfr. supra, p. 22.

171 Ha scritto Biagio Marzo: «Dopo l’estromissione della sinistra dal governo nel 1947, Morandi insistette

nella ripresa della lotta di massa in chiave non più difensiva, ma offensiva. La ripresa avrebbe dovuto impegnare le forze di sinistra che, attraverso la conquista di contropoteri nati dal basso, avrebbero creato un’opposizione di classe al sistema e nel sistema». Cfr. BIAGIO MARZO, Morandi, la ricostruzione e il problema del Mezzogiorno, cit., p. 221. Anche secondo Liliana Lanzardo i Consigli di gestione «appaiono alle sinistre importanti organismi di base, fondamentali strumenti di democrazia economica soltanto nel momento in cui cadono prospettive di collaborazione governativa. L’esperienza governativa avrebbe mostrato quanto fosse manchevole ed erronea l’azione parlamentare delle sinistre, quanto forte potesse essere la resistenza del governo e della classe padronale; ma aveva provato anche che l’esigenza di una radicale modifica delle strutture economiche poteva essere imposta soltanto dalle masse popolari in movimento, e non dalle forze organizzate del partito. Proponendo l’avvio di quella che viene intesa come una terza fase nella breve storia dei CdG, Morandi chiarisce che la trasformazione di questi organismi in “strumenti di lotta” per l’immediata imposizione di una linea economica alternativa a quella del governo […] significa togliere i CdG dall’isolamento aziendale, liberarli dal tecnicismo e dallo spirito collaborativo, porre il problema di questi organismi di fronte all’opinione pubblica per vincere le preoccupazioni o lo scarso interesse della popolazione». LILIANA LANZARDO, op. cit., p. 344. La Lanzardo (op. cit., p. 345, nota n. 26) osserva però acutamente che «il richiamo alla democrazia diretta assume in Morandi connotati peculiari, e la sua posizione – così come l’evoluzione del suo pensiero, già fin dal periodo precedente la Liberazione orientato in questo tema – non può essere considerata in alcun modo estensibile ad un significativo settore del movimento operaio (neppure all’interno dello stesso Partito socialista)».

172 L’espressione è utilizzata da Giovanni Pirelli in una lettera indirizzata a Lombardi per invitarlo, in

occasione dell’uscita del V volume delle Opere di Morandi, ad un incontro sui temi della democrazia diretta e della pianificazione socialista in regime capitalista: «A noi sembra che il fatto che tu sia stato il grande dissenziente rispetto a talune impostazioni e linee d’azione di Morandi sia la premessa migliore per riprendere e approfondire i termini del dibattito, rapportandolo alle successive e odierne esperienze della politica socialista». La lettera, datata 23 aprile 1960, FF, FRP, fasc. 2, f. 31.

italiana fosse caratterizzata da un eccesso di investimenti, Lombardi ravvisa proprio in tale eccesso la caratteristica peculiare del momento, sostenendo – in accordo con le analisi di Pietranera – che esso è stato realizzato con l’inflazione («l’inflazione è stata fatta tutta ai danni della classe operaia»). Le risorse per l’eccesso degli investimenti sono cioè state reperite comprimendo, attraverso un artificioso aumento dei prezzi, i consumi dei ceti popolari. Se l’analisi è concordante, diverse sono le conclusioni: Lombardi, coerente con la propria impostazione, ribadisce l’impossibilità di aumentare nell’immediato i consumi popolari e la necessità di ulteriori duri sacrifici, i quali possono però essere accettati dai lavoratori solo in cambio del diritto di controllare, mediante il sindacato, il flusso degli investimenti, così da avere la certezza che quei sacrifici non si traducano in un aumento dei profitti del grande capitale ma in un incremento del benessere collettivo. Questa sorta di scambio tra “sacrifici” (in termini di contenimento salariale) e controllo degli investimenti, sia pubblici che privati, già proposto da Lombardi in precedenza174, diverrà uno degli elementi cardine della

strategia economica lombardiana nel periodo di gestazione del centro-sinistra.

Meno di una settimana dopo la chiusura del Consiglio sindacale, il PSI celebra al teatro “Astoria” di Roma il suo XXVI Congresso. Le questioni economiche irrompono all’interno di una dibattito arroventato dalla polemica tra le varie correnti del partito circa la tattica elettorale da adottare per le imminenti consultazioni politiche; si verifica così, nel corso delle assise, un interessante confronto tra due antitetiche concezioni di pianificazione, di cui si fanno interpreti Morandi e Ivan Matteo Lombardo. Morandi interviene una prima volta per presentare al Congresso la relazione economica da lui preparata. Il documento si apre con un breve excursus storico che ricostruisce le vicende economiche italiane dall’unità alla caduta del fascismo, dalla nascita degli squilibri strutturali alla affermazione dei monopoli e del capitalismo monopolistico di Stato. Il dirigente socialista conferma poi la propria personale svolta radicale in senso antiparlamentaristico con una serie di affermazioni che si riallacciano a quanto sostenuto al Consiglio sindacale. Infatti, si legge nella relazione, «non è con le ordinanze e con le leggi che i mutamenti di struttura si compiono, se non si sono suscitate forze capaci di recarle in atto nella viva dinamica della società, e non si sono apprestati gli strumenti della democrazia economica»175. Per l’attuazione delle riforme di struttura, la conquista democratica della maggioranza parlamentare e quindi del governo non costituisce una condizione né sufficiente né, soprattutto, necessaria. Sul

174 Cfr. cap. II, § 1.

primo punto, Morandi, ammaestrato dalle esperienze del recente passato, fornisce un’argomentazione persuasiva:

L’esperienza di governo e parlamentare, nella quale i grandi partiti del proletariato si sono trovati impegnati durante due anni dalla Liberazione, è ricca per noi di insegnamenti. Essa ha dimostrato con quale facilità, attraverso conversioni opportunistiche o la secessione di forze parlamentari, venga elusa e tradita su questo piano la volontà popolare, da parte di partiti e di uomini che si svincolano con estrema disinvoltura dai programmi, sulla base dei quali hanno sollecitato i suffragi. Questo avviene in forza della formidabile pressione che si mantengono in grado di esercitare le oligarchie capitalistiche, finché esse detengono le leve di comando dell’economia e dell’apparato statale. Ad essa soggiacciono invariabilmente le forze di centro, quando entrano in gioco determinati interessi di classe. […] L’esperimento di governo ci ha anche appreso a quale grado di negatività arrivi l’apparato burocratico, quali formidabili resistenze esso sia in grado di opporre ad ogni sforzo tendente a svincolare l’azione dello Stato dalla suggestione degli interessi capitalistici, o nel migliore dei casi quale ottusità e scarsa efficienza lo caratterizzi176.

Questa importante lezione sarà presto dimenticata dal PSI, il quale, un decennio più tardi, ricercherà nuovamente l’accordo di governo con la Democrazia cristiana, giudicandolo indispensabile per la realizzazione della propria strategia riformista. La conquista della maggioranza, secondo Morandi, non è però nemmeno una condizione necessaria per l’attuazione delle riforme; è infatti possibile modificare la struttura economica anche intervenendo dal basso, esercitando «un’azione permanente e metodica per dislocare il rapporto di forza esistente tra le classi lavoratrici e le posizioni di comando del capitale» ed attivando «gli organi della democrazia economica perché, foggiati oggi come mezzo di combattimento, possano essere domani validi strumenti di potere»177. Le riforme di struttura stesse – e qui Morandi fa una precisazione di grande portata – non devono infatti essere considerate «sotto un aspetto statico, come un preordinato mutamento del regime della proprietà e del sistema della produzione, che possa compiersi nel suo insieme con nesso meccanico attraverso un atto di autorità, ciò che implica come evidente premessa l’acquisizione per altra via del potere»178; bensì «come lotta per imporre il controllo delle attività economiche, contro tutte le forme di accaparramento capitalistico del processo produttivo, che lo deviano dal suo fine naturale di soddisfare i bisogni della collettività», lotta che avuto «la sua nascita

176 Op. cit., pp. 289-90, corsivo aggiunto. 177 Op. cit., p. 290.

spontanea nei Consigli di gestione sorti all’atto della Liberazione»179. Morandi, pur valorizzando il contributo delle spinte dal basso, evita accuratamente ogni deriva spontaneista, inquadrando la lotta dei Cdg all’interno di «un ben definito indirizzo di azione, e in tale indirizzo precisamente consiste il piano socialista tracciato nelle grandi linee dalla prima Conferenza economica di partito tenutasi nello scorso novembre»180.

Alle argomentazioni di Morandi replica, nel corso del dibattito congressuale, Ivan Matteo Lombardo, il cui ideale di piano risulta alla fine essere il piano Marshall. Lombardo in realtà distingue capziosamente tra il «piano di ricostruzione europea» (ossia il piano dei 16 del luglio-agosto 1947), realmente esistente, ed il piano Marshall, il quale non esisterebbe ancora, non avendo il discorso di Marshall del giugno ’47 avuto seguito sul piano pratico. Secondo l’ex segretario del PSIUP – che si pone così in contrasto con la posizione assunta dal resto del partito, diffidente nei confronti dell’aiuto americano – il piano di ricostruzione europeo rappresenta «una manifestazione di collaborazione internazionale che noi dobbiamo usare a scopi socialistici per evitare che possa essere usato per altri fini»181; esso non dev’essere considerato espressione dell’imperialismo statunitense, dal momento che «non comporta nessunissimo impegno di carattere militare o politico tanto è vero che i Partiti Socialisti dell’Europa Occidentale sono precisamente fautori di questo piano». Lombardo critica dunque la posizione dei comunisti, i quali a suo dire vorrebbero mobilitare i Consigli di gestione per «buttare all’aria il piano di ricostruzione europeo», il quale potrebbe invece garantire il potenziamento dell’industria e quindi l’occupazione di manodopera. Riguardo ai Cdg, Lombardo dichiara che essi non sono riusciti ad affermarsi quali strumenti di pianificazione economica perché, nel periodo successivo alla Liberazione, «i nostri ministri non si sono impegnati nella difesa degli organismi che in alta Italia dovevano incominciare a battersi per la futura pianificazione». Coerentemente con questa impostazione, la mozione presentata al Congresso dal gruppo facente capo a Lombardo invita il PSI a sostenere il piano di ricostruzione europea, definendolo «l’antidoto contro la miseria, la fame e il caos di cui le classi lavoratrici