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DAL PIANO DEL LAVORO ALLO SCHEMA VANON

2.2 I socialisti e il Piano del lavoro della CGIL

Quello compreso tra il 1948 e il 1956 è solitamente presentato come un periodo di accentuata subalternità del PSI nei confronti del PCI dal punto di vista politico, organizzativo ed anche culturale. Infatti, chiusa repentinamente l'esperienza della Direzione autonomista (luglio 1948-maggio 1949), contraccolpo della sconfitta del 18 aprile, il PSI si allinea alle posizioni comuniste su tutte le principali questioni, comprese quelle di politica economica. Tuttavia, al di sotto del conformismo, il partito riesce a tenere vive alcune istanze elaborate negli anni precedenti autonomamente dal PCI e talvolta anche in disaccordo con esso. Una dimostrazione di questa perdurante vitalità si ha nel 1949, in occasione del lancio del Piano del lavoro da parte della CGIL, riunita a Genova per il suo secondo congresso nazionale. Mentre l'atteggiamento del PCI nei confronti del Piano è inizialmente improntato a diffidenza, il PSI valuta da subito in maniera positiva l'iniziativa confederale, vedendo in essa un recupero di tematiche proprie del socialismo prefascista50 e contribuendo in misura notevole, con alcuni

49 Commentando questa polemica, Giovanni De Luna (op. cit., cit., pp. 224-25, nota n. 39), fraintendendo,

scorge nelle argomentazioni di Lombardi un rigurgito delle antiche «diffidenze azioniste per l’uso di strumenti di pianificazione economica».

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In un discorso del 1952 Fernando Santi affermerà che «le cooperative create da Nullo Baldini nel Ravennate hanno lottato “per la conquista delle occasioni di lavoro, esigendo opere pubbliche di grande utilità e anticipando così, sul piano provinciale e di oltre mezzo secolo, l’applicazione di taluni principi

autorevoli esponenti, alla sua definizione51. In questo modo, il PSI tiene vivo, anche negli anni del centrismo, il tema della pianificazione, sebbene questo venga declinato in maniera alquanto diversa rispetto alla Conferenza socialista del novembre 1947; il piano perde cioè la propria valenza anticapitalistica per tornare ad essere, come era stato fino all’estromissione delle sinistre dal governo, una alternativa di carattere tecnico alla politica economica dell’esecutivo.

Dopo le lezioni dell'aprile 1948, la guida del dicastero del Bilancio era stata assunta da Giuseppe Pella, il quale aveva proseguito nell'opera einaudiana di raggiungimento del pareggio di bilancio e di ricostruzione delle riserve valutarie (passate tra il settembre 1947 e il dicembre 1948 da 70 a 440 milioni di dollari), attingendo direttamente al fondo lire generato dagli aiuti ERP, che, secondo gli accordi assunti dal governo italiano con gli Stati Uniti, avrebbe dovuto invece essere impiegato per investimenti nel settore industriale. Logiche conseguenze di questa strategia erano il ristagno produttivo, la disoccupazione (che arriva a coinvolgere due milioni di lavoratori) e il restringimento del mercato interno, al quale si cercava di ovviare favorendo, con la politica del cambio, le esportazioni. Com'è noto, gli stessi ambienti dell'European Economic Administration avevano criticato questa condotta nel febbraio 1949 con il Country Study redatto da Paul Hoffman, chiedendo che il fondo lire venisse impiegato per stimolare l'attività produttiva; per gli esperti statunitensi infatti, sul piano politico «era chiarissima l'identificazione tra lotta per la democrazia e impegno per programmi economici di welfare»52. Il governo aveva però respinto la richiesta, nel timore che l’allargamento del mercato interno mediante un aumento non controllato del potere d'acquisto delle masse popolari potesse favorire l'espansione dell'influenza delle sinistre53. Anche queste ultime avevano ovviamente condannato la strategia di Pella, vedendo in essa il tentativo di conquistare l'appoggio politico dei ceti medi a reddito

ispiratori del Piano del Lavoro della CGIL”». Cfr. PAOLO SANTI, Il Piano del lavoro nella politica della CGIL: 1949-1952, «Il Mulino», a. XXIV, n. 242, novembre-dicembre 1975, p. 881. Il discorso cui fa riferimento l’autore è riprodotto in FERNANDO SANTI, L’ora dell’unità, cit., pp. 249-64 (la citazione è a p. 255).

51 Sull'adesione dei partiti di sinistra all'iniziativa confederale si svilupperà nel 1957 una polemica tra

socialisti e comunisti. In un intervento su «Rinascita», Luigi Longo scrive che il PSI avrebbe più subìto che appoggiato il Piano del lavoro; Arialdo Banfi replica che alla definizione del Piano i socialisti offrirono «largo contributo». Cfr. LUIGI LONGO, Progresso tecnico e lotta operaia, «Rinascita», 1957, n. 9, p. 445 e la replica di Banfi, Risposta a Longo, «Avanti!», 12 novembre 1957, p. 3.

52 MARIUCCIA SALVATI, op. cit., p. 297. «Come osservava con stupore nel 1949, all'epoca del

Country Study di Hoffman un altro esperto americano di cose italiane, in Italia non esisteva altra opposizione al governo che quella comunista per cui qualsiasi critica all'amministrazione che suonasse social welfare era comunque bollata di comunismo». Op. cit., p. 298.

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fisso difendendo la stabilità della moneta contro ogni rischio di inflazione, senza curarsi delle possibili ricadute sul sistema produttivo.

Al Congresso di Genova della CGIL, nell’ottobre 1949, Di Vittorio lancia la proposta di un piano da realizzare nei limiti del sistema capitalistico per correggere le storture più gravi dell’economia italiano54. Nell'occasione, Fernando Santi svolge una relazione sul tema delle «riforme di struttura», nella quale, riprendendo la teoria marxiana del contrasto fra forze produttive e rapporti di produzione, presenta le riforme come «un'esigenza tecnica di progresso economico ma anche sociale»55 alla quale si oppone la classe dirigente, pronta a contrastarla con tutti i mezzi, compreso il ritorno a forme di dittatura. La lotta per le riforme diventa così «lotta per la difesa della libertà e della pace»; l'alternativa alle riforme di struttura «non è l'iniziativa privata: è il fascismo»56. Le riforme di struttura più urgenti sono, secondo Santi, la nazionalizzazione dell'industria elettrica, la riforma fondiaria, l'instaurazione del controllo pubblico sul sistema creditizio. Vittorio Foa, all’epoca delegato della FIOM torinese, nel proprio intervento anticipa in certa misura i temi che caratterizzeranno nei mesi seguenti l’impegno dei socialisti per l’attuazione del Piano confederale. Questo viene infatti presentato come la prova del grado di maturità raggiunto dai lavoratori italiani, i quali chiamano a raccolta tutte le classi sociali per risollevare l’economia nazionale dai mali che la affliggono, primo tra tutti la disoccupazione. Secondo Foa, la permanenza di una vasta disoccupazione è deliberatamente sostenuta dalle forze imperialiste americane, che, per garantire l’esistenza di un mercato di sbocco alla propria produzione eccedente, hanno sì bisogno che i paesi europei ricostruiscano i propri sistemi produttivi, ma, affinché questo processo possa avvenire sotto l’egida statunitense, devono fare in modo che tale ricostruzione si realizzi in un contesto di depressione produttiva e di bassi consumi. Il Piano della CGIL, con l’obiettivo del pieno impiego, costituisce l’alternativa più radicale ai progetti del capitalismo statunitense e dei suoi caudatari italiani. L’assorbimento della disoccupazione presuppone però il controllo statale sugli investimenti, sia pubblici che privati, a garanzia che questi non rispondano alla logica del massimo profitto privato, indirizzandosi verso attività

54 Per una ricostruzione complessiva delle vicende del Piano, cfr. MICHELE PISTILLO, Giuseppe Di

Vittorio, vol. III, 1944-1957, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 175-257.

55 CONFEDERAZIONE GENERALE ITALIANA DEL LAVORO, I Congressi della CGIL, vol. III, II°

Congresso Nazionale Unitario della CGIL, Genova 4-9 ottobre 1949 (Teatro Carlo Felice), Roma, Editrice Sindacale Italiana, s. d., p. 62.

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speculative, bensì a quella della massima utilità generale per il massimo impiego della manodopera57.

Il PSI, fin dal primo momento, appoggia senza riserve l’iniziativa confederale. Intervenendo alla Camera il 28 ottobre, Lombardi contrappone la politica economica patrocinata da Pella e quella proposta dal sindacato. La prima si caratterizza infatti per una tenace «volontà di non pianificare, di non fare una politica produttivistica» e di non ampliare il mercato interno58. Lombardi confuta le due principali accuse mosse dal governo al Piano confederale: richiedere per la propria attuazione una massa di risparmio al momento non disponibile; provocare, con l’aumento degli investimenti, tensioni inflazionistiche. Sul primo punto, il dirigente del PSI, riallacciandosi alle teorie keynesiane, ha gioco facile a dimostrare come la quota di risparmio disponibile non sia un un dato fisso, ma una funzione del livello degli investimenti; il risparmio cioè non costituisce la premessa, ma, al contrario, la conseguenza di una politica di maggiori investimenti e quindi di maggiore occupazione («Aumentate l’occupazione operaia e l’utilizzo delle risorse produttive esistenti e sottoutilizzate, e aumenterete il risparmio da investire»). Per quel che concerne il potenziale inflazionistico insito in ogni aumento degli investimenti, Lombardi – ben conscio dell’effettiva esistenza del problema – afferma che il rischio è inevitabile nel caso di un aumento degli investimenti non regolamentato, mentre può essere facilmente scongiurato se il governo si decide a «indirizzare, o pianificare o, se la parola non vi piace, programmare gli investimenti»59, attuando cioè quella politica di direzione «che dalla liberazione ad oggi non si è mai fatta»60. Gli investimenti devono infatti concentrarsi non nei settori che garantiscono il maggior profitto privato ma in quelli di maggiore utilità collettiva (elettricità, bonifiche, edilizia popolare), di modo che l’aumentata produzione di beni di consumo assorba i maggiori redditi derivanti dall’incremento dell’occupazione.

Lombardi torna sull’argomento in un altro discorso svolto alla Camera, durante il dibattito sulla fiducia al VI governo De Gasperi, alla vigilia della Conferenza economica sul Piano del lavoro indetta dalla CGIL. Nel passaggio centrale del proprio intervento, Lombardi chiarisce che quella attraversata dall’industria italiana non è una crisi ciclica, congiunturale, bensì una crisi strutturale, dovuta a deficienza di capitale61. La situazione non può quindi essere affrontata dal governo elargendo incentivi

57 Op. cit., pp. 129-30.

58 APC, Discussioni, seduta pomeridiana del 28 ottobre 1949, p. 13150. 59 Ivi, p. 13151.

60 Ivi, p. 13153.

indiscriminati, che stimolerebbero indistintamente tutti i tipi di investimento, compresi quelli suscettibili di provocare inflazione e privi di utilità sociale, ma solo con la strategia della CGIL, la quale «non si è limitata a proporre un piano di palese o larvata inflazione, ma ha scelto la via responsabile dei piani di investimenti selettivi» nei settori edilizio ed elettrico, senza seguire, come pure avrebbe potuto anche più facilmente fare, «la via demagogica della politica inflazionistica». Investimenti selettivi per realizzare i quali occorre «anticipare sul risparmio creato», abbandonando «le posizioni arcaiche, irreali, fantasmagoriche come quella dell’onorevole Pella o almeno rappresentata simbolicamente dall’onorevole Pella»62. A Lombardi non sfugge naturalmente come la questione rivesta un carattere non esclusivamente tecnico-economico ma anche politico, dal momento che per realizzare le proposte sindacali la maggioranza governativa dovrebbe avere «il coraggio e la capacità di rompere coi legami di classe ai quali essa inevitabilmente fino ad oggi si è dimostrata costretta»; l’esponente socialista peraltro riconosce che non è al momento proponibile una pianificazione economica integrale, di cui mancano le minime premesse politiche63.

La fisionomia del Piano del lavoro si precisa in occasione della Conferenza economica nazionale promossa dalla CGIL a Roma nel febbraio 1950. Commentando l'apertura dei lavori – durante la quale Di Vittorio aveva indicato gli obiettivi prioritari del Piano seguendo un'impostazione di tipo keynesiano64 – Lombardi, chiarito che il

62 Ivi, p. 14978. 63 Ivi, p. 14983.

64 Obiettivi che, come è noto, erano l'assorbimento di manodopera disoccupata mediante l'incremento

degli investimenti in alcuni settori chiave – elettricità, edilizia, bonifica, irrigazione e trasformazione fondiaria – e l'aumento dei salari onde garantire la sussistenza di un mercato interno per la produzione delle imprese. Per una puntuale disamina dei lavori della Conferenza economica, cfr., da ultimo, SALVATORE MISIANI, Dalla teoria della stagnazione al Piano per lo sviluppo, in ADOLFO PEPE (a cura di), Storia del sindacato in Italia nel '900, vol. III, La CGIL e la costruzione della democrazia, Roma, Ediesse, 2001, pp. 301-315. Anni dopo, Amaduzzi avrebbe ricordato in questi termini l'ispirazione originaria del Piano del lavoro: «Scartata l'idea di un piano nel senso tecnico e ristretto del termine, ci si propose invece di formulare un complesso organico di interventi di politica economica, che fossero in grado di far uscire l'economia dalla stagnazione e di avviare un processo di sviluppo, avendo come obiettivo preminente la massima occupazione. [...] Ci basammo soprattutto su una valutazione di tipo keynesiano, sul fatto cioè che la risorsa inutilizzata prevalente in Italia era la manodopera, che i vincoli, viceversa, erano l'importazione di materie prime e le valute estere; e ci orientammo quindi verso i settori a massimo assorbimento di manodopera, contando sull'effetto di moltiplicazione per mettere in moto il resto dell'economia». Riferisce Amaduzzi che tra coloro che contribuirono maggiormente all'elaborazione del piano vi era anche Giulio Pietranera. Cfr. AA. VV., Il Piano del lavoro della CGIL 1949-1950. Atti del convegno organizzato dalla Facoltà di economia e commercio dell'Università di Modena, 9-10 maggio 1975, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 149. A proposito dell'originaria impostazione keynesiana del Piano, avrebbe scritto nel 1951 Vittorio Foa: «Nei suoi primi mesi il piano del lavoro, oggetto di discussioni teoriche di grande interesse, culminate con la Conferenza economica di Roma del febbraio 1950, ha puntato soprattutto su una politica di spesa pubblica in funzione anticiclica, cioè come misura contro la depressione: spesa pubblica [...] suscettibile di assorbire la disoccupazione cronica [...]. Nella situazione creata all'Italia [...] dalla completa capitolazione della nostra classe dominante nei confronti dei gruppi capitalistici americani, una lotta per la espansione della spesa pubblica in funzione antidepressiva,

problema economico italiano «non consiste in una querela fra addottrinati di diverse scuole, ma in una lotta fra interessi fondamentali di diverse classi», sottolinea il valore dell'iniziativa della CGIL, la quale, con il suo Piano, «ha imposto una scelta fra la stagnazione, l'immobilismo, la rassegnazione, da un lato, la spinta in avanti, il progresso, la cosciente costruzione dell'avvenire, dall'altro»65. La partecipazione degli esponenti del PSI al dibattito è ampia e qualificata. L'importante relazione sui problemi dell'energia elettrica viene preparata da Henry Molinari, letta durante la Conferenza da Ruggero Amaduzzi, all'epoca direttore dell'Ufficio Studi della CGIL, e sostenuta con convinzione da Lombardi66. Questi, nel proprio intervento, si dedica inoltre ad una puntuale confutazione delle critiche mosse da Pietro Battara, ex dirigente del PSI passato nelle file della socialdemocrazia, alla relazione sul finanziamento del Piano esposta da Alberto Breglia (e redatta in collaborazione con Paolo Sylos Labini), secondo la quale il Piano avrebbe potuto autofinanziarsi qualora dagli investimenti realizzati fosse derivata una produzione di valore maggiore rispetto al valore degli investimenti stessi, per il noto effetto moltiplicatore. Battara, in una prospettiva tipicamente einaudiana, aveva criticato questa impostazione affermando che gli investimenti previsti dal Piano non potevano essere attuati a causa del basso livello di risparmio esistente in Italia67. Lombardi difende invece il ragionamento di Breglia e fa inoltre rilevare che l’attuazione degli investimenti non avrebbe nemmeno comportato rischi inflazionistici per la sufficiente disponibilità di riserve auree e valutarie e per il margine esistente tra prezzi all'ingrosso e circolazione, il quale, in caso di necessità, avrebbe consentito l’attuazione di una manovra monetaria correttiva. Appurato che quella attraversata dall'economia italiana non è una crisi ciclica ma strutturale, dovuta cioè a carenza di capitale fisso, la ripresa passa necessariamente per il rovesciamento della politica economica governativa e quindi per il dirottamento delle risorse disponibili verso le attività produttive individuate dal Piano68.

La posizione di Lombardi si precisa in un articolo immediatamente successivo alla chiusura dei lavori della Conferenza (una sorta di rielaborazione del proprio

aveva un significato nettamente progressivo, all'opposto dei paesi capitalistici più progrediti, dove la politica anticiclica ha funzione di stabilizzazione del sistema». VITTORIO FOA, Piano del lavoro strumento di pace, «Avanti!», 1° maggio 1951.

65 RICCARDO LOMBARDI, Lavoro per una generazione, «Avanti!», 18 febbraio 1950. 66 Cfr. oltre, cap. III, § 2.

67 Cfr. AA. VV, Il Piano del lavoro. Conferenza economica nazionale della C.G.I.L. Resoconto integrale

dei lavori e un'appendice, Roma, 1950, pp. 160-64.

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Ivi, pp. 199-208. Sull'intervento di Lombardi si veda il commento, a distanza di venticinque anni, di GIORGIO LAUZI, Piano del Lavoro e problemi di oggi, «Avanti!», 13 maggio 1975, p. 6. Si leggano anche le osservazioni di SIMONA COLARIZI, Introduzione, in RICCARDO LOMBARDI, Scritti politici, cit., p. 22 sgg.

intervento), pubblicato su «Rinascita». Il dirigente socialista critica nuovamente l’impostazione di De Gasperi – che, fedele alla linea einaudiana del 1947, subordina l’attuazione degli investimenti alla raccolta di una sufficiente massa di risparmi («non sono i piani che mancano, mancano i soldi») –, mettendone in evidenza, con un ragionamento che richiama le analisi di Michał Kalecki sul «ciclo politico degli affari»69, le implicazioni di carattere politico. In un paese come l’Italia, in cui la formazione del risparmio procede molto più lentamente dell’aumento della popolazione, la creazione del risparmio necessario per gli investimenti può avvenire solo tramite «una compressione dei salari fino al limite dello sterminio dei lavoratori»; compressione che può essere attuata unicamente da un regime autoritario, per cui «il solo sistema politico confacente a siffatta configurazione economica sarebbe il fascismo». La posizione di De Gasperi, portata alle sue logiche conseguenze, pone dunque «l’alternativa fra disoccupazione e fascismo»70. Lombardi chiarisce ancora che gli investimenti generano

risparmio tramite l'occupazione e non viceversa, se si tratta, come nel caso del Piano, di investimenti di carattere produttivo, cioè promotori del massimo profitto collettivo mediante l'incremento dell'occupazione e della quantità di beni di consumo per le masse popolari, la mobilitazione delle risorse sottoutilizzate e la produzione di beni esportabili verso mercati complementari rispetto a quello italiano, in primo luogo i mercati dell'Est europeo, preclusi agli esportatori italiani dai vincoli del piano Marshall. Compito del governo sarebbe quello di promuovere questo tipo di investimenti produttivi «con una direzione cosciente e responsabile», lasciando da parte la linea degli incentivi indiscriminati “a pioggia” che, adatta ad una situazione di crisi congiunturale, si rivela deleteria, in quanto portatrice di inflazione, in una crisi come quella italiana, di natura chiaramente strutturale71. Il valore della produzione cui il piano dà origine è maggiore

69 Si veda l’altro articolo di RICCARDO LOMBARDI, Il fascismo: unica alternativa al Piano della

C.G.I.L. Un piano di violenta repressione antisindacale per preparare la decurtazione massiccia dei salari, «Avanti!», 30 aprile 1950, p. 4. Secondo la teoria kałeckiana del «ciclo politico degli affari», gli imprenditori accettano uno stato di piena occupazione soltanto se questo non può tradursi, per i lavoratori, in un aumento di forza contrattuale e quindi in un incremento dei salari che intacchi il livello del profitto; la dissociazione tra pieno impiego e aumento del salario può però verificarsi solo in presenza di regimi politici autoritari che reprimano le libertà sindacali (come era accaduto in Germania con il regime nazionalsocialista). Cfr. MICHAŁ KALECKI, Gli aspetti politici della piena occupazione, in ID., Sulla dinamica dell’economia capitalistica. Saggi scelti 1933-1970, edizione italiana a cura di Carlo Boffitto, Torino, Einaudi, 1975, pp. 165-73. Il saggio in questione era apparso nel 1943.

70 RICCARDO LOMBARDI, Il problema dei finanziamenti e l’obiettivo del piano confederale,

«Rinascita», 1950, n. 2, p. 70.

71 Ivi, p. 171. Con acutezza Lombardi indica che l'elargizione indiscriminata degli incentivi, focalizzata

sull'aspetto puramente quantitativo anziché su quello qualitativo, rappresenterebbe una manovra uguale e contraria a quella operata da Einaudi con la stretta creditizia del 1947. Su questo aspetto si veda anche il discorso tenuto da Lombardi alla Camera durante il dibattito sulla fiducia al VII governo De Gasperi, APC, Discussioni, seduta del 2 agosto 1951, p. 29590.

del suo costo; tale plusvalore costituisce per l'appunto «quel tale risparmio che mancava prima dell'inizio del piano ma che è stato creato»72; dunque, una volta attivato, il Piano della CGIL si autofinanzia. Le risorse iniziali per l'avvio del Piano possono essere reperite manovrando le quattro leve di cui lo stato dispone: il prelievo fiscale, il lancio di un prestito pubblico, le banche statali, le riserve valutarie; su questo punto Lombardi si distingue da Di Vittorio, il quale, alla Conferenza economica, aveva adombrato la possibilità di nuovi sacrifici da parte dei lavoratori (in termini di contenimento salariale o di lavoro supplementare)73. Particolare importanza Lombardi annette al sistema creditizio, il quale, come nel caso degli investimenti, deve essere soggetto ad una «energica, rapida, elastica e responsabile direzione»; tanto più che il processo deflazionistico inaugurato da Einaudi nel 1947 e proseguito da Pella, pur nefasto dal