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Frontiere sfrangiate del Sud-est messicano e strumenti per descriverle

Nel documento La rinascita dei confini nel mondo globale (pagine 136-138)

Orizzonti di realizzazione e spazi indigeni della frontiera sud messicana Piero Gorza

2. Frontiere sfrangiate del Sud-est messicano e strumenti per descriverle

L’’attenzione è rivolta alle comunità indigene, radicate nel Sud-est messicano, nello stato del Chiapas, in prossimità della frontiera con il Guatemala. La Panamericana rende questa zona strategica per le comunicazioni intra-continentali e soprattutto per quelle tra il Centro America e il Messico1. Lungo quest’asse si muovono merci e flussi di

popolazioni, quelli che poi, dopo lunghe traversie, approdano ai confini settentrionali con gli Stati Uniti.

Come abbiamo già accennato, la frontiera fra il Messico e il Guatemala non è una semplice frontiera tra due stati, ma rimanda alle relazioni tra il Centro America e il Messico, le cui implicazioni si ritrovano più a Nord quando ci si approssima agli Stati Uniti d’America. Ci troviamo di fronte a evidenti somiglianze e ad altrettanto forti discontinuità. Per un verso è assonante il modo in cui vengono trattati i migranti, ridotti a scarto e a “selvaggina di passo”. Inoltre, anche qui la storia evenemenziale documenta come, in tempi post-coloniali e dunque in epoca abbastanza recente, la frontiera tra gli stati abbia rotto un continuum. Per altro verso, la presenza indigena è numericamente significativa e marca culturalmente l’area. Infine questi territori non sono stati travolti da una violenza irrefrenabile e cruenta, come invece vi è

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1 La Panamericana, che attraversa la Depresión Central, Los Altos per avviarsi verso la città di Comitán con

confine alla Mesilla, non è il solo asse viario: un altro corre lungo la costa del Pacifico e da Salinas Cruz arriva fino Tapachula e, infine, vi è l’antico percorso fluviale maya lungo l’Usumacinta e il Río de la Pasión che penetra nel Petén guatemalteco, affiancato da una strada asfaltata che attraversa la Selva Lacandona e corre parallela ai confini. Vi era anche una obsoleta linea ferroviaria che dal confine del Guatemala procedeva attraversando tutta la Federazione fino ad approdare alla frontiera con gli Stati Uniti. Da Tuxtla Gutiérrez e San Cristóbal de Las Casas si diramano altre due strade verso lo stato di Tabasco.

triste documentazione a Settentrione e, ad onor del vero, in ogni altro angolo della Repubblica: le città dello Chiapas non si sono trasformate in campo di battaglia tra Stato e crimine organizzato.

Tutti questi elementi hanno congiurato nello spostare per lo più, e strategicamente, le attività illegali e i conflitti dallo spazio visibile del contesto urbano a quello rurale, ossia in quell’ambito in cui risiedono le popolazioni indigene. Questa diversa ricostituzione degli spazi di flusso, che per molti versi è nuova -o perlomeno si è esternata in modo chiaro negli ultimi dieci anni del 2000- ha potuto definirsi all’interno di una situazione storicamente costituitasi. A lato delle tensioni che si creano lungo la linea del confine internazionale, ed oggi anche in relazione a questa, se ne definiscono altre, interne, su base etnica e culturale, che separano le comunità native, gli ejidos, i pueblos, dalla società meticcia, ladina e inurbata. Il moltiplicarsi delle frontiere e l’intreccio sociale e politico che ne deriva modella le dinamiche sociali e ne contrassegna la specificità. Potremmo asserire che siamo di fronte a un’agentività che s’intreccia con un habitus di lunga durata che si riconfigura per la prossimità al confine. Per riuscire a ricostruire le dinamiche e i varchi che hanno permesso di coniugare tradizione, imprenditorialità e attività illegali è necessario a un tempo far riferimento alle caratteristiche giuridiche e storiche della campagna indigena, nel senso di costruzione sociale del territorio, e a una contingenza che si è aperta a un agire individuale e collettivo in grado di inserirsi nelle pieghe e nelle logiche sociali a livello statale, nazionale e internazionale.

In questo contesto le relazioni tra habitus e agency possono rendere conto di una tensione che potrebbe, anche con altra ottica, più storica, divenire intellegibile grazie ai concetti, proposti da Reynhart Koselleck, di “spazio della tradizione” e “orizzonti di attesa” (Koselleck 1993). Sono strumenti della ricerca sociale che hanno avuto grande diffusione in campo antropologico e sociologico - forse anche alla luce di riletture della tradizione fenomenologica ed ermeneutica e degli studi cognitivisti - e che hanno cercato di risolvere l’irrigidimento categoriale proposto dallo strutturalismo attraverso un “ritorno al soggetto”. È un’articolata tradizione di riflessioni metodologiche che passa attraverso gli studi di Anthony Giddens, Charles Taylor, Pierre Bourdieu, Bonnie McElhinny, Laura M. Ahearn, fino ad avvicinarci a studiosi dell’area maya come Dennis Tedlock, i cui lavori restituiscono dinamicità a etno-teorie capaci di porre l’accento sulla soggettività e sulla responsabilità nell’azione sociale. Per altro verso, le ricerche antropologiche sul Chiapas indigeno - e soprattutto quelle di orientamento culturalista degli anni Sessanta (Progetto Harvard) - hanno a lungo proposto un’immagine delle comunità indigene ancorate al passato e connotate da conservatorismo comunitario, con particolare attenzione al permanere di cosmovisioni precoloniali. Se ancora oggi possiamo accertare che il passato continua a essere vivo e significativo nel presente, tuttavia altre e ineludibili informazioni, provenienti da ricerche sul territorio, documentano una dinamicità che obbliga a profondi ripensamenti. La tensione tra tempi (presente e passato) e spazi (frontiera/frontiere) rende interessante il rimando a un’antropologia dell’attore sociale e alle performances che vengono messe in atto. Per aggiungere altra complessità al nostro tema, è opportuno ricordare il libro di Fredrik Barth, Ethnic Groups and Boundaries, pubblicato nel 1969, che diede un apporto

fondamentale agli studi antropologici sul confine e sulla sua costruzione sociale, evidenziando come anche l’etnicità e le distinzioni di appartenenza siano risultato di flussi e dell’azione dei soggetti che operano in prossimità del margine. L’esterno e non l’interno spiega spesso discontinuità, cambiamenti e assunzioni di nuovi vesti adeguate all’agire. Già nel 1947 Nadel ragionava su confine e posizionamento del sé:

[...]. Incontreremo gruppi che, sebbene siano vicini stretti e possiedano quasi la stessa lingua e la stessa cultura, non si considerano come facenti parte della stessa tribù; e incontreremo anche tribù che rivendicano questa unità indipendentemente dalla loro differenziazione culturale interna [...]. L’idea [dell’appartenenza] tribale, perciò, è radicata in una teoria della diversità culturale, la quale ignora o scarta le variazioni esistenti come se non esistessero, e ignora e sottovaluta le uniformità al di là dei confini che essa stessa si è data (Nadel 1947: 13).

Per usare a prestito le parole di Ugo Fabietti, vi è una relazione dinamica tra rappresentazioni del territorio, memoria storica e immaginazione sociale (Fabietti 1985: 177-186; 1987: 23), questione centrale nelle pagine che seguono, in cui si cercherà di ricostruire le pieghe del mondo indigeno nello stato del Chiapas, nel mezzo di un coacervo di frontiere.

Nel documento La rinascita dei confini nel mondo globale (pagine 136-138)

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