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La frutta nelle sue varietà

2. DIETA E CONVITO

2.1 La dieta del Latium Vetus

2.1.2 La frutta nelle sue varietà

Sulla base di quanto emerso a proposito della dieta romana, le verdure costituivano la base dell’alimentazione tuttavia, considerato il ridotto consumo di carne più o meno fresca o conservata, l’apporto di vitamine necessarie al benessere di ogni individuo doveva giungere da un regime alimentare in cui figuravano oltre alle insalate e ai cereali, frutti in quantità abbondante e varia.

La frutta174 era inoltre preferita ai dolci anche se non tutti potevano permettersi di acquistarla175 e gli stessi contadini, che in campagna ne disponevano in abbondanza, tendevano a consumarla con parsimonia come Ofello, il quale soltanto nei giorni festivi ultimava la cena con fichi secchi e uva fatta appassire appesa176.

174

Si vedano i contributi di André 1981; Salza Prina Ricotti 1987, pp. 111 ss.; Dosi-Schnell 1986a, pp. 63 ss.

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In termini prettamente ironici si esprime Marziale (11, 31) illustrando le “virtù” della zucca, che in casa di Cecilio viene impiegata pressoché in ogni pietanza per poter risparmiare sulle spese per il banchetto. A proposito della cucurbita ecco cosa si dice «Gustu protinus has edes in ipso, has prima feret alterave cena,

has cena tibi tertia reponet, hinc seras epidipnidas parabit. Hinc pistor fatuas facit placentas, hinc et multiplices struit tabella set notas caryotidas teatri. Hinc exit varium coco minutal, ut lentem positam fabamque credas; boletos imitator et botellos, et caudam cybii brevesque maenas». “Tu la mangerai fra gli

antipasti, te ne porteranno al primo e al secondo piatto, te ne serviranno ancora al terzo ed alla fine ti verrà presentata come dolce o frutta». «E’ ancora con la zucca che la pasticceria crea dolci insipidi, che prepara datteri del genere di quelli che conoscono i teatri (perché tale tipo di pasticceria veniva venduta durante le rappresentazioni). E’ sempre dalle zucche che il cuoco trae i diversi elementi del suo ragù, anche se tu crederai di avere dinnanzi a te delle lenticchie o delle fave, ed è sempre dalle zucche che egli crea boleti e budini o code di tonno e snelli perlani”.

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HOR., sat., 2, 2. Invece Marziale (1, 43) si lamenta che un anfitrione per fare economia non gli offre la frutta, mentre egli fa servire ai suoi convitati uva passa, pere siriache, castagne arrostite (5, 78, 15) o più semplicemente delle mele (10, 48,15).

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In origine venivano raccolti frutti selvatici quali le nocciole, i pruni, le visciole e, a seconda delle regioni, anche castagne e ghiande177, accanto a bacche come le corniole, le sorbe nere, le more, le fragole, i mirtilli. Importante era pure la raccolta dei pinoli, utilizzati sia crudi che cotti in molte ricette; Apicio, ad esempio, li utilizza per farcire dei datteri snocciolati che poi vanno fritti nel miele178.

Quando si passò a forme di agricoltura stabili, si avviò una specializzazione anche nelle colture frutticole tanto che, grazie alla testimonianza di Plinio179, abbiamo notizia di ben trentadue varietà di mele, le più pregiate erano le Matiane180, e di trentaquattro di pere. Nonostante questa variegata produzione, sulle tavole di Roma la preferenza andava all’uva, al fico e alle olive. Di uva le varietà erano numerose, specialmente di quella da tavola, e oltre ad essere consumata fresca, la si poteva essiccare e conservare all’interno di appositi vasi immersa nel mosto, nel vino cotto o in altri composti181.

Tra le quarantaquattro varietà di fico182 ve ne erano alcune in cui il frutto, consumato fresco, valeva come un dessert e veniva mangiato insieme al pane183. Le olive, al pari dell’uva, erano facili da conservare184

sott’olio, sott’aceto o in salamoia e, grazie all’introduzione dalla Magna Grecia dell’olivo coltivato, al posto dell’originario olivo selvatico, sulle tavole dei Romani vi erano ben ventidue specie di questo frutto.

Con l’età delle conquiste Roma importò in Italia molti alberi da frutto, per lo più originari del Vicino Oriente, che ben si acclimatarono185 e fornirono accanto a delizie come

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Varrone dice che venivano utilizzate nell’allevamento dei ghiri (rust., 3, 15, 1-2); Plinio ne indica diverse qualità e rimarca il fatto che venivano consumate bollite (nat., 15, 93-94); Apicio le utilizza per preparare un passato con l’aggiunta di olio, erbe odorose, salamoia, aceto e miele (5, 2, 2).

178

APIC., 7, 13, 1.

179

PLIN., nat., 15, 53-58.

180

Se queste derivavano il nome da quello di un cavaliere di età augustea, tale C. Matius, come riferiscono Columella (5, 10, 19) e Plinio (nat., 15, 49), la varietà appiola prendeva il suo nome da Appius.

181

Cfr. Salza Prina Ricotti 1987, p. 114; p. 116.

182

Columella (10, 415-418) ne cita nove e tra queste spicca il fico di Livia. La figlia di Druso secondo una diceria si sarebbe liberata del marito offrendogli questi fichi dopo averli avvelenati.

183

Catone, considerate le proprietà nutrizionali del fico, quando giungeva la stagione della maturazione, li sostituiva al pane nella dieta degli schiavi o comunque diminuiva la razione di quest’ultimo (agr., 56 ).

184

Cfr. Salza Prina Ricotti 1987, p. 81.

185

Come indicano Dosi-Schnell 1986a, p. 64, le varietà più resistenti tra quelle indicate con l’espansione del’impero si adattarono molto bene in Gallia, in Britannia e in altre province settentrionali. Tra i frutti che

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il pistacchio, il mandorlo, il nespolo, il cedro e il limone, il malum persicum (pesca), il

malum punicum o granatum (granato), il malum armenicum (albicocca). Grazie alle

spedizioni militari di Lucullo, sulle mense fu decisamente gradita la presenza della ciliegia,

cerasus pontica, (Fig. 21), così chiamata per la vittoriosa campagna condotta contro

Mitridate.

E non mancano nemmeno l’anguria e il melone, quest’ultimo originario della zona africana e tropicale, doveva essere presente in una varietà assai diversa dall’attuale poiché l’imperatore Clodio Albino nel II secolo ne consumava circa una decina durante il pasto186

. Molti di questi frutti, oltre ad essere consumati freschi, potevano comparire sulle tavole sotto forma di confetture, oppure conservati187 (Fig. 22) nel vino cotto o nell’aceto, mantenendo intatto il loro sapore, persino quello delicato delle pesche.

Fig. 21. Cesto di ciliegie. Dal mosaico di Dioniso. Colonia Römisch-Germanisches Museum (da Dosi- Schnell 1986a, p. 65).

Fig. 22. Giara per la conserva dell’inula campana. Museo Nazionale di Napoli (da Salza Prina Ricotti 1983, p. 288).

non vennero coltivati nemmeno in Italia a causa dell’inadeguatezza del clima figura invece il dattero, che comunque veniva importato regolarmente sia fresco che essiccato.

186

Cfr. CAPITOL., Alb., 11, 3.

187

Tra le altre modalità di conservazione la frutta poteva essere coperta con argilla, cera o gesso per evitarne l’essiccazione. In particolare vi erano delle giare a collo largo, descritte da Varrone nel De re rustica, che ben si prestavano per la conservazione dell’inula. Varrone, infatti, raccomanda di scegliere contenitori di piccole dimensioni in modo che se qualche conserva fosse andata a male non si sarebbe rovinato l’intero prodotto e, come risulta dall’affresco pompeiano, questi vasi venivano tappati con un pezzo di pelle ben tesa.

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