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La funzione di controllo dell’amministrazione ed i limiti al potere di riesame Prima della riforma introdotta con la l n 124/2015 l’amministrazione

Nel documento Art. 18 bis (pagine 44-52)

competente, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione, poteva discrezionalmente vietare la prosecuzione dell’attività e disporre la rimo- zione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo che, ove possibile, l’interessato provvedesse a conformare alla normativa vigente l’attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall’amministrazione, mai inferiore a trenta giorni (comma 3). L’amministrazione poteva comunque esercitare i poteri di revoca o annullamento d’ufficio. Gli ordini di divieto o rimozione degli effetti potevano inoltre essere attuati anche in caso di dichiarazioni false o mendaci.

La l. n. 124 del 2015 ha modificato radicalmente tale sistema. In caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti per l’avvio dell’attività, fermo restando il potere — da esercitarsi nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segna- lazione — di adottare motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’atti- vità e di rimozione degli eventuali effetti dannosi, qualora sia possibile conformare a legge l’attività l’amministrazione, con atto motivato, deve invitare il privato a provvedere, prescrivendo le misure necessarie da adottare in un termine non inferiore a trenta giorni; decorso tale termine senza che il privato abbia provve- duto ad adeguare l’attività, questa si intende vietata. L’originaria formulazione del comma 3° dell’art. 19, come novellato dalla l. n. 124/2015, prevedeva inspiegabil- mente che l’amministrazione dovesse disporre, nelle more della conformazione, la sospensione dell’attività intrapresa; previsione soppressa dall’art. 3 del d.lgs. n. 126/2016, che ha invece circoscritto il potere di sospensione cautelare dell’attività, che permane tuttavia vincolato: infatti, con lo stesso atto motivato di invito alla conformazione, e limitatamente alle ipotesi di “attestazioni non veritiere o di pericolo per la tutela dell’interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale”, l’amministrazione “dispone” (i.e.: deve disporre) la sospensione dell’attività intrapresa. Questo atto

interrompe il termine di sessanta giorni (trenta per la s.c.i.a. edilizia) che inizia a decorrere ex novo dalla data in cui il privato comunica all’amministrazione l’ado- zione delle misure conformative e/o ripristinatorie. Decorso tale termine, ove non intervengano ulteriori provvedimenti, gli effetti della eventuale sospensione ces- sano ex lege.

Prima della novella del 2015, decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti inibitori o ripristinatori, all’amministrazione era consentito intervenire « solo » in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque tali interessi me- diante la conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente. L’ammini- strazione, pertanto, rimaneva titolare di un potere di controllo ex post assai più circoscritto di quello volto ad accertare la sussistenza delle condizioni e dei fatti legittimanti l’avvio dell’attività, potendo essa intervenire — scaduti i sessanta giorni in esame — solo a salvaguardia degli interessi « sensibili » dianzi ricordati. Il termine per il riesame era ed è qualificato come perentorio (Cons. St., Ad. plen., 29 luglio 2011, n. 15, cit.).

Il novellato comma 4 prevede invece che, decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti inibitori o ripristinatori, l’amministrazione competente “adotta comunque” quei provvedimenti “in presenza delle condizioni previste dall’arti- colo 21-nonies”. Non è più contemplato l’esercizio dei poteri di autotutela tipizzati dagli artt. 21-quinquies e 21-nonies, il che è coerente con il fatto (cfr. § 2) che nelle fattispecie autorizzatorie scaturenti da s.c.i.a. non viene speso potere, sicché manca l’oggetto stesso dell’autotutela amministrativa.

Quindi, prima della novella l’amministrazione poteva a propria discrezione ini- bire l’attività o invitare il privato ad adeguarla alla disciplina vigente, senza che tale invito provocasse necessariamente la sospensione dell’attività liberalizzata; dal 2015 invece, sempre che l’adeguamento sia possibile, l’amministrazione è vinco- lata dalla legge a disporre la sospensione dell’attività nei soli casi di dichiarazioni non veritiere o di pericolo per gli interessi sensibili dianzi ricordati.

Di certo la modifica della disciplina previgente, che prevedeva la sospensione dell’attività tout court, è quanto mai opportuna. Irragionevolmente, e in contrasto palese con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, si stabiliva la sospensione obbligatoria di un’attività produttiva di reddito — e quindi di entrate per l’erario — anche laddove la riconduzione dell’attività a legge avesse implicato un’attività, materiale o burocratica, assai semplice, con il rischio di compromettere irrimediabilmente l’attività liberalizzata o, comunque, di arrecare ad essa danni patrimoniali e d’immagine assai gravi. Tali circostanze avrebbero consigliato di lasciare all’amministrazione un margine di discrezionalità anche nei casi contemplati dal quarto alinea del comma 3.

Conseguenza della violazione del termine assegnato al privato, la cui durata è evidentemente improrogabile, è un effetto legale tipico prima sconosciuto, ossia il divieto di esercizio dell’attività. Non è chiara la ragione di tale disposizione che, oltre a privare l’amministrazione del potere di valutare caso per caso le circostanze che possano avere concorso al mancato rispetto, da parte del privato, del termine

per l’adeguamento (un caso per tutti: la forza maggiore), all’eventuale fine di concedere una proroga viceversa non contemplata, crea un “divieto tacito” del- l’attività, imponendo al privato di impugnarla (con azione di annullamento), e dando così luogo a nuove forme di contenzioso, in una stagione storica in cui obiettivo del Legislatore dovrebbe essere la deflazione delle liti giudiziarie. E tanto più irrazionale appare codesto sistema se si considera l’apprezzabile modifica del comma 4°: come s’è visto, nel sistema previgente l’amministrazione poteva intervenire ex post solo a tutela di interessi cc.dd. sensibili; dopo la novella del 2015 l’amministrazione può in ogni caso adottare i provvedimenti inibitori e ripristinatori di cui s’è detto, a condizione che ricorrano i presupposti per l’annul- lamento d’ufficio (sussistenza di un interesse pubblico ed adozione dell’atto entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi): l’amministra- zione, quindi, può inibire attività illecite a prescindere dalla natura o dal tipo di interesse pubblico oggetto di tutela. Ebbene, se all’amministrazione si sono — ragionevolmente — restituiti i poteri inibitori e ripristinatori (anche dopo la scadenza del termine di sessanta giorni dalla presentazione della s.c.i.a.) a salva- guardia di qualsivoglia interesse pubblico, configurando tali poteri come partico- lari forme tipiche di autotutela, non si vede davvero per quale ragione al mancato tempestivo adeguamento del privato alle prescrizioni impartite dall’amministra- zione — che possono pure esse rese oggetto di contestazione in sede giurisdizio- nale — debba associarsi la produzione di un effetto legale tipico, e tacito, di divieto dell’attività, visto che la valutazione dell’interesse a bloccarne la prosecuzione è comunque affidata al potere attivo dell’autorità.

In altri termini, la norma sul divieto tacito dell’attività per inosservanza del ter- mine impartito per l’adeguamento favorisce l’inerzia dell’amministrazione e vieta ad essa di prendere in considerazione eventuali ragioni ostative — provenienti dal privato — al rispetto di quel termine, ancorché la stessa amministrazione per- manga titolare di poteri generali di inibizione dell’attività.

Se quindi è particolarmente apprezzabile l’eliminazione dei limiti al controllo ex post, sino al 2015 circoscritti alla sola ipotesi di lesione di interessi pubblici cc.dd. sensibili, la novella del 2015 è manifestamente irrazionale in quanto, con l’intro- duzione del divieto tacito di svolgimento dell’attività per mancata tempestiva conformazione alle prescrizioni dell’autorità, si priva l’amministrazione della fa- coltà di prendere in considerazione le cause che abbiano ipoteticamente ostato all’adeguamento tempestivo, si impone tout court la sospensione dell’attività nelle more di tale adeguamento ove siano in giuoco interessi sensibili o vengano in rilievi dichiarazioni solo presunte mendaci, e si favoriscono il contenzioso giuri- sdizionale e la cessazione immediata di attività di c.d. start-up che la liberalizzazione da sempre sottesa alla ratio dell’art. 19 dovrebbe viceversa agevolare.

Sul potere di controllo ex post i pareri del Consiglio di Stato sui due decreti attuativi della delega dell’art. 5 della l. “Madia” hanno sollevato profili problematici, anche pratici, che mette conto richiamare. Secondo il Consiglio di Stato la nuova formu- lazione dell’art. 21-nonies, che fissa in diciotto mesi il termine “ragionevole” per intervenire in autotutela, ossia per l’eventuale esercizio dei poteri conformativi o

inibitori indicati al 3° comma, è un termine massimo, decorso il quale si assiste ad una vera e propria estinzione del potere.

Il primo punto fissato dal parere n. 839/2016 è che il limite dei diciotto mesi è funzionale ad una « ... regolamentazione attenta ai valori della trasparenza e della certezza », in nome dei quali « ... il legislatore del 2015 ha fissato termini decaden- ziali di valenza nuova, non più volti a determinare l’inoppugnabilità degli atti nell’interesse dell’amministrazione, ma a stabilire limiti al potere pubblico nell’in- teresse dei cittadini, al fine di consolidare le situazioni soggettive dei privati »: si tratta, quindi, di una vera e propria fattispecie tipica di decadenza dal potere; una novità davvero notevole, che scardina il dogma della inesauribilità del potere amministrativo e mina alla radice la teoria — in verità minoritaria e cresciuta giustappunto all’ombra dell’autotutela decisoria — dei poteri impliciti (con rica- dute pratiche notevoli, ad esempio sul regime di invalidità dell’atto, se nullo o annullabile; cfr., sul punto, i commenti di CHIEPPA e DEODATO, infra, rispettiva- mente sub artt. 21-septies e 21-nonies); entro questo termine, chiarisce il Consiglio di Stato, deve assistersi alla « ... compiuta adozione degli atti di autoannullamento o, nel caso della SCIA, degli atti inibitori, repressivi o conformativi » (§§ 8.1.1 e 8.1.2). Anche in sede giurisdizionale il Consiglio di Stato, in sede di prima applicazione della riforma del 2015, ha affermato che « con la precisazione esatta del termine massimo di consumazione del potere di autotutela decisoria, il legislatore ha inteso accordare una tutela più pregnante all’interesse dei destinatari di atti ampliativi alla stabilità e alla certezza delle situazioni giuridiche da essi prodotte, costruendo un regime che garantisca la loro intangibilità una volta decorso inutilmente il periodo di operatività del potere di annullamento d’ufficio dei relativi titoli “am- pliativi” (che diventano, così, non più rimuovibili dall’amministrazione, anche quando illegittimamente adottati) » (Cons. St., VI, n. 341/2017).

A questa regola generale si ispira — sempre secondo l’alto Consesso — « ... l’abrogazione del comma 2 dell’art. 21, che prevedeva l’applicabilità delle più gravi sanzioni per l’assenza originaria di titolo ogni qual volta gli strumenti del silenzio assenso e della DIA fossero stati impropriamente utilizzati o, addirittura, ogni qual volta le attività avviate in forza degli stessi fossero in contrasto con l’impianto normativo (situazioni che, in presenza di un titolo espresso, avrebbero goduto delle garanzie dei limiti dell’autotutela). Ora, opportunamente, la riforma del 2015 ha abrogato tale disposizione e ha coerentemente chiarito che i limiti, moti- vazionali e temporali, all’adozione di atti di annullamento d’ufficio valgono anche per gli interventi inibitori, ripristinatori o conformativi successivi al decorso del termine ordinario di controllo (60 o 30 giorni) sulle attività intraprese con la SCIA » (parere n. 839/2016, § 8.1).

Un secondo punto di rilievo sta nell’affermazione che l’art. 21-nonies è per la SCIA una « ... ‘disciplina di riferimento’ ...: un potere inibitorio, repressivo o conforma- tivo da esercitarsi ... motivando sulle ragioni di interesse pubblico e sugli interessi dei destinatari e dei controinteressati — oltre che, ovviamente, entro un “termine ragionevole”, che deve essere “comunque non superiore a diciotto mesi” ... » (parere n. 839/2016, § 8.2.1). Il che è quanto dire che i poteri conformativi, repressivi o inibitori di cui al comma 3° dell’art. 19 possono essere esercitati anche

dopo lo spatium dei sessanta giorni dalla ricezione della s.c.i.a, a condizione che ricorrano i presupposti della norma generale sull’autotutela.

Un terzo profilo, dibattuto anche dalla recente dottrina, consiste nella esigenza, avvertita dal Consiglio di Stato, che i decreti attuativi tenessero conto di una esigenza di coordinamento tra artt. 19, 21 e 21-nonies.

Il Consiglio di Stato (§§ 8.3 e 8.4 del parere n. 839/2016 e § 1.3.1 del parere n. 1784/2016) si è così chiesto « ... quale sia il dies a quo per la decorrenza dei diciotto mesi dell’art. 21-nonies, comma 1 »; se cioè quello della presentazione della SCIA ovvero quello coincidente col decorso del termine per l’esercizio del potere ordi- nario di verifica. A tale quesito ha fornito risposta l’art. 2, co. 4° del d.lgs. n. 222/2016, stabilendo che “nei casi del regime amministrativo della Scia, il termine di diciotto mesi di cui all’articolo 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, decorre dalla data di scadenza del termine previsto dalla legge per l’esercizio del potere ordinario di verifica da parte dell’amministrazione competente. Resta fermo quanto stabilito dall’articolo 21, comma 1, della legge n. 241 del 1990”, ossia la non conformabilità dell’attività avviata sulla base di dichiarazioni false e l’ipote- tico reato di falso ideologico in atto pubblico. Sul punto la Commissione Speciale aveva anche ipotizzato l’ammissibilità della prima soluzione in quanto « ... il dato letterale (che opera un riferimento sostanziale alla “attribuzione di vantaggi eco- nomici”) e la scelta del legislatore del settembre 2011 di non attribuire all’inerzia dell’amministrazione valenza di diniego di contestazione dell’utilizzo della DIA/ SCIA potrebbero, però, indurre a ritenere corretta la prima soluzione » (parere n. 839/2016, § 8.3); tuttavia, l’attribuzione di vantaggi economici presuppone una stabilizzazione in termini di efficacia della fattispecie che per la s.c.i.a. si produce soltanto col decorso del termine assegnato alla p.a. per il controllo: va quindi condivisa la scelta del Governo.

Il Consiglio di Stato si è anche chiesto « ... se il limite temporale massimo di cui all’art. 21-nonies debba applicarsi anche all’intervento in caso di sanzioni per dichiarazioni mendaci ex art. 21, comma 1 (unica norma residua dopo l’abroga- zione del comma 2), ovvero se l’art. 21 debba considerarsi come un’ulteriore deroga a tale limite, aggiuntiva rispetto a quella prevista al comma 2-bis dello stesso art. 21-nonies » (ibidem), aggiungendo peraltro che, in questa seconda ipotesi, « ... dovrebbero, però, essere specificati quali siano i poteri ulteriori esercitabili ex art. 21, comma 1, rispetto a quelli di intervento ex post alle condizioni dell’art. 21- nonies, posto che entrambe le norme sembrano riferirsi, nel caso di SCIA, all’ac- certamento della mancanza o della ‘falsità’ dei requisiti, su cui fondare i più volte richiamati poteri inibitori, repressivi o conformativi ». Ora, mentre il comma 2-bis dell’art. 21-nonies prevede che “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’ammini- strazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”, l’art. 21, co. 1 stabilisce che “in caso di dichiarazioni

mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato”.

La dottrina si è divisa sull’interpretazione di queste disposizioni, attestandosi sostanzialmente su due posizioni contrapposte: una prima è orientata nel soste- nere che il comma 2-bis dell’art. 21-nonies, applicandosi tout court alla s.c.i.a. in virtù del richiamo espresso al comma 4° dell’art. 19, consente l’esercizio di poteri inibitori, decorsi i diciotto mesi di rito, solo ove vengano in giuoco condotte oggetto di reato accertato con sentenza definitiva (SANDULLI M.A., Postilla, 2 s., DEODATO, Commento all’art. 21-nonies, infra, § 3), dovendosi in tal modo escludere ogni possibilità di applicare l’art. 21, co. 1, oltre il termine di diciotto mesi, diversamente vanificandosi la ratio della riforma, volta a stabilizzare gli effetti della s.c.i.a. in favore dell’affidamento del privato: di guisa che, l’insanabile contrasto tra artt. 19, co. 4 e 21-nonies co. 2 bis, da un lato, ed art. 21 co. 1, dall’atro, impone un intervento normativo chiarificatore. Secondo altra ed opposta corrente di pen- siero dalla riforma non emergerebbe alcun “trattamento differenziato di favore per la SCIA” sicché l’avere il legislatore del 2015 (proprio al co. 2-bis dell’art. 21- nonies) ribadito la salvezza del d.P.R. 445/2000 — e quindi anche l’ipotesi della decadenza dai “benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”, nella specie dalla legge, mercé la s.c.i.a. — in assenza di alcuna clausola di “compatibilità” con la nuova normativa, andrebbe interpretata in termini di prevalenza assoluta di tale normativa sulle altre regole contenute nell’art. 21-nonies” (LIPARI, 20); si è inoltre osservato che, subordinandosi i poteri inibitori al giudicato penale, si creerebbe una sorta di pregiudizialità che aggraverebbe l’azione amministrativa con le inefficienze e le lentezze della giustizia penale, consolidando un atteggiamento di sfiducia nei confronti degli autonomi poteri conoscitivi dell’amministrazione sulla non veridi- cità (dei presupposti) della segnalazione (BOSCOLO, Commento all’art. 21, infra, § 2). Viceversa, secondo il primo orientamento, premessa l’impropria qualifica di “san- zioni” sub Titolo VI del d.P.R. 445/2000, « al di là del nomen, la misura mira evidentemente a impedire che il provvedimento che abbia illegittimamente attri- buito “benefici” sulla scorta di false dichiarazioni possa espletare i suoi effetti. Esso è dunque fondato, analogamente all’annullamento, su un’illegittimità originaria del titolo. Sicché, a pena di frustrare gli obiettivi della riforma, i benefici di cui l’inciso vuole far salva la decadenza per falsa dichiarazione, a prescindere dall’es- sere “effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudi- cato” non possono essere né quelli attribuiti da provvedimenti autorizzatori, né, in ogni caso quelli attributivi di “vantaggi economici”, che il comma 1 è diretto a stabilizzare » (SANDULLIM.A., Postilla, 2).

È certo che il Governo non ha aderito all’invito del Consiglio di Stato di dar sèguito ad un coordinamento chiarificatore tra le disposizioni citate (pur avendo indicato, nella relazione illustrativa dello schema del secondo decreto delegato, che “la conformazione non è mai possibile — e la norma risulta speciale e applicabile senza limiti di tempo — nei casi di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni

riconducibili alla fattispecie penale di cui all’articolo 483 del codice penale accer- tata con sentenza di condanna passata in giudicato”: sul punto v. infra, BOSCOLOe DEODATO); ed è un fatto che anche chi sostiene il secondo orientamento — quello, cioè, volto ad affermare la primazia del potere amministrativo di inibire le attività avviate sulla base di mendacio a prescindere dal giudicato penale — è critico nei confronti del comma 1° dell’art. 21, « ... per il suo contenuto palesemente con- traddittorio con la riforma » (LIPARI14).

Le norme, tuttavia, sono in vigore, ed è compito dell’interprete fornirne una lettura ispirata a coerenza applicativa, ma, ancor prima, costituzionalmente orien- tata. Il comma 2-bis dell’art. 21-nonies, richiamato al comma 4° dell’art. 19, attri- buisce all’amministrazione il potere discrezionale (“può”; così anche TROPEA, 160) di inibire l’attività oltre il termine di diciotto mesi quando essa sia stata avviata sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci, che siano effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato; sono quindi sempre fatte salve le valutazioni discrezionali in punto di improbabile affidamento del segnalante (giacché il falso-reato presuppone il dolo specifico ed esclude ogni idea di affida- mento) e di valutazione sulla prevalenza di un interesse pubblico specifico, attuale e concreto, prevalente su quelli privati in conflitto (dell’esercente l’attività e del- l’eventuale terzo denunciante) tale da giustificare la cessazione dell’attività (sulla discrezionalità del potere di riesame postumo ex art. 19, co. 4°, v. LIPARI, 12; DEODATO, infra, § 4): questo potere discrezionale si legittima giustappunto alla stregua della forza del giudicato penale, che qualifica la condotta fraudolenta del privato e ne sancisce ab imis il contrasto col principio di autoresponsabilità. L’art. 21 comma 1°, viceversa, prescinde da un accertamento passato in giudicato, affidando da un lato all’amministrazione il dovere di non conformare l’attività in caso di dichiarazioni mendaci (comunque del mendacio si sia acquisita prova), dall’altro, in ossequio al principio di legalità e tipicità, equiparando la falsa dichia- razione dei presupposti legittimanti al falso ideologico in atto pubblico (contra, SANDULLIM.A. Il codice dell’azione amministrativa: il valore dei suoi principi e l’evoluzione

Nel documento Art. 18 bis (pagine 44-52)