• Non ci sono risultati.

Gaspare Planetta, ascari o ciclista?

Nel documento Dino Buzzati scrittore-giornalista (pagine 191-195)

Analizzando il racconto L’assalto al grande convoglio, uscito su «Il Convegno» il 25 febbraio 1936, lo si può in effetti collegare, non a uno, ma a due successivi articoli, L’ascari Ghilò leone e Un nonno un po’ pazzo pedala sulla scia dei campioni, pubblicati su il «Corriere della Sera» rispettivamente il 21 settembre 1939 e il 23 maggio 1949. In particolare, si tratta della riproposizione da parte di Buzzati all’interno di queste due cronache dello stesso spunto narrativo, ovvero il momento della morte del brigante Gaspare Planetta.

In L’assalto al grande convoglio Planetta, una volta uscito dal carcere, scopre di aver perso il ruolo di capo della banda di banditi che vive nascosta nel bosco. Solo un giovane di nome Pietro, ignaro del fatto che il vecchio brigante è stato spodestato,

190

decide di seguirlo nel suo rifugio presso Monte Fumo. Planetta, oltre all’età avanzata, è malato e, sentendosi ormai verso la fine, guida l’ultimo disperato attacco al Gran Convoglio. L’esito ovviamente, dato il numero soverchiante di cavalleggeri di scorta, è fatale per entrambi i briganti, che però, in punto di morte, scorgono all’orizzonte i rinforzi mandati esclusivamente per loro:

Il ragazzo voltò la testa e sorrise: «Avevi ragione» balbettò. «Sono venuti, i compagni. Li hai visti, capo?»

Planetta non riuscì a rispondere ma con un supremo sforzo volse lo sguardo dalla parte indicata. Dietro a loro, in una radura del bosco, erano apparsi una trentina di cavalieri, con il fucile a tracolla. Sembravano diafani come una nube, eppure spiccavano nettamente sul fondo scuro della foresta. Si sarebbero detti briganti, dall’assurdità delle divise e dalle loro facce spavalde.

Planetta infatti li riconobbe. Erano proprio gli antichi compagni, erano i briganti morti, che venivano a prenderlo.35

Buzzati quindi fantastica, per questo glorioso personaggio caduto in disgrazia, una degna fine: i grandi fantasmi del passato gli si fanno a presso per accompagnarlo nel suo ultimo viaggio.

L’immagine viene riutilizzata con lo stesso scopo nel momento della morte del giovane ascari di nome Ghilò, che in una ricognizione a cavallo rimane ucciso da un colpo di fucile.

In Etiopia, dopo la conquista italiana, erano rimasti attivi numerosi gruppi di ribelli, gli sciftà. Buzzati, come abbiamo detto nel primo capitolo, partecipò, come inviato speciale ad Addis Abeba, ad alcune di queste missioni del reparto cavalleggeri e restò coinvolto anche in uno scontro, in cui morì appunto l’ascari, suo attendente.

Fu uno degli episodi di guerra più memorabili per Buzzati, come testimonia il brano qui riportato, tratto da Un autoritratto di Panafieu:

E mi è toccato – non di combattere, perché non ero armato – di partecipare, poiché cavalcavo con loro, a una carica contro questi ribelli. È stata una cosa bellissima. Sembrava uno dei racconti di cosacchi o qualche episodio di guerre dell’Ottocento. Romanticamente perfetto!... L’ambiente, gli spari, la galoppata… Una cosa stupenda!...36

Leggiamo ora dall’articolo il momento della morte del giovane ascari:

35 DINO BUZZATI, I sette messaggeri, cit., p. 45. Le prossime citazioni tratte da questo racconto verranno segnalate con la sigla R seguita dal numero di pagina.

191

«Ghilò, Ghilò! » chiama Drogo cercando intorno tra gli ascari, ma nessuno risponde: coomàandi, come finora è sempre avvenuto. Egli chiede allora a un graduato: «Tassammà, sciumbasi! » grida a tutta voce. «Tassammà, dove stare Ghilò? » E lo sciumbasci dice: «Ghilò stare morto». Ghilò stare morto sull’erba e a due passi il cavallo pascola, aspetta che lui si rialzi. Invece l’ascari non si muove, la sua candida anima è uscita dall’involucro nero e sta navigando lassù, non forse diretta alle supreme sfere ma almeno al cielo degli spiriti semplici e buoni.37

La stessa Marie Hélène Caspar, curatrice dell’edizione di questo testo, raccolto in L’africa di Buzzati, vede nel brano che citeremo successivamente un richiamo, oltre alla morte di Sebastiano Procolo in Il segreto del Bosco Vecchio, anche alla morte di Planetta, quando scorge appunto gli illustri briganti del passato. Faccio notare anche l’uso dello pseudonimo Drogo da parte di Buzzati, che sottolinea il legame spesso individuato da Caspar tra le cronache africane e il Deserto.

L’anima dell’ascari è comunque volata al cospetto del supremo generale:

In alto, sempre più in su, fino a che dinanzi a Ghilò, che è morto ma che sogna ancora, compare improvvisamente un ufficiale alto e bellissimo, tutto ricoperto d’argento, deve essere per lo meno generale tanto splendida è l’uniforme.38

Così come il fantasma di Gaspare Planetta pieno di gioia non si preoccupa più del «suo povero corpo, che giaceva raggomitolato al suolo», allo stesso modo l’anima dell’ascari fugge veloce, lasciando i compagni a raccogliere «il suo corpo vuoto» per darne degna sepoltura. Entrambi sono felici e non pensano più alle sofferenze della vita, anzi, Ghilò finalmente potrà trasformarsi in leone, animale del quale fa una brillante imitazione. In Un nonno un po’ pazzo pedala sulla scia dei campioni, abbiamo visto che Buzzati divaga dalle notizie principali del Giro per raccontare la storia di Vito Ceo, bracciante di Bari, che si è accodato ai campioni con la sua bicicletta e si dichiara deciso a completare anch’egli tutte le tappe che lo separano da Milano.

Il personaggio suscita una notevole simpatia, sia nei partecipanti al Giro, sia nei lettori di Buzzati, che non possono fare a meno di prendere a cuore la vicenda del “nonno un po’ pazzo”. Vito Ceo sostiene in passato di essere stato un grande ciclista:

Un matto, un maniaco, un mistico della bicicletta, una specie di cavaliere errante? Sua moglie – perché Vito Ceo ha moglie, due figli e una nipotina – che

37 MARIE HÉLÈNE CASPAR, L’Africa di Buzzati, cit., p. 105.

192

cosa dice? «Quella è grossa, mangia e beve» risponde lui, estraendo di tasca misteriosi documenti unti e bisunti a dimostrare la qualità di ciclista veterano.39

Egli afferma per di più di aver battuto ai suoi tempi il record ciclistico Nuova York – Los Angeles. È un veterano come Planetta, soppiantato da giovani che non lo riconoscono più come un importante ciclista (se lo è mai stato), ma che decide comunque di compiere l’ultima grande impresa. Conclusa la tappa, sul far della sera, quando all’orizzonte ancora non compare, Buzzati ripensa ancora al vecchio ciclista:

Mi pare di scorgerlo nel cuore del negro bosco che avanza barcollando, goffo, ridicolo ed eroico. Coraggio vecchio Ceo. Tu non lo vedi, ma le ombre dei grandi campioni morti sono venute e con spettrali gambe pedalano evanescenti velocipedi. Anch’essi, vecchi, cadenti, stanchissimi e un poco pazzi. Ti scortano in silenzio.40

I grandi fantasmi del passato anche in questo caso sbucano dal bosco e vanno incontro al «Don Chisciotte trasferitosi nel corpo di Sancho Pancia»,41 per rendere omaggio alla sua temerarietà, proprio come i compagni di Planetta:

I briganti morti se ne stavano silenziosi, evidentemente commossi, ma pieni di una comune letizia. Aspettavano che Planetta si muovesse. (R, 45)

L’onore che viene loro concesso determina la levatura morale di questi bizzarri personaggi.

Gaspare Planetta, Ghilò e Vito Ceo sono presentati da Buzzati, anche tramite riferimenti espliciti, come tre grandi cavalieri eroici. Non si tratta di un semplice paragone per renderne la dimensione epica: i tre protagonisti possiedono davvero una loro cavalcatura. Infatti, Gaspare Planetta, insieme agli altri briganti, ha anche modo di ritrovare il proprio cavallo, Polak, al quale era profondamente affezionato, mentre Ghilò sappiamo che faceva parte dei cavalleggeri. Per l’articolo dedicato al Giro, la bicicletta è da considerarsi la degna ‘cavalcatura’ per Vito Ceo, definito da Buzzati un «cavaliere errante», anche perché una simile analogia cavalleresca compare in altri articoli della serie.

39 DINO BUZZATI, Dino Buzzati al Giro d’Italia, cit., p. 50.

40 Ivi, p. 53.

193

Lo sfondo militare è in tutti i testi più o meno marcato: dal carattere ufficiale che assume nell’articolo africano, allo scontro fuorilegge del racconto; senza contare che l’intera epopea del Giro è costituita da una serie di metafore belliche.

Si tratta di soldati fuori dal comune, che non appartengono a nessun esercito ordinario, come i briganti di L’assalto al grande convoglio:

Facce spaccate dal sole, lunghe cicatrici di traverso, orribili baffoni da generale, barbe strappate dal vento, occhi duri e chiarissimi, le mani sui fianchi, inverosimili speroni, grandi bottoni dorati, facce oneste e simpatiche, impolverate dalle battaglie. (R, 45)

Ma essi invece incarnano a pieno l’ideale di «eleganza militare», descritto da Buzzati nell’omonimo racconto:

Negli occhi di molti si era accesa la febbre, altri portavano fasciature di piaghe, dietro a noi sul terreno restavano brandelli di tela e cuoio. Ma io vedevo attorno a me soldati di statura grandissima, con uniformi ricamate d’oro, fasce di mille colori, lance e sciabole di argento puro. Essi guardavano dinanzi a sé, sorridendo, e le loro barbe luccicavano al sole.42

Nel documento Dino Buzzati scrittore-giornalista (pagine 191-195)

Documenti correlati