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A mancare è evidentemente la generazione di mezzo, quella dei genitori dei ragazzi e dei figli dei reduci che, sebbene presenti nella trama, non ricoprono mai un ruolo centrale, pur con le modalità molto diverse che distinguono, per esempio, i genitori di Edoardo e Rapata.

Il legame diretto che si crea fra il giovane maori ed il nonno è infatti facilitato dall’assenza anche concreta dei genitori separati, che per praticità decidono di affidarlo al nonno materno durante l’infanzia. In particolar modo la contrapposizione fra le due generazioni, si esprime nel conflitto evidente tra Charlie e l’ex-genero, padre assente e disinteressato, il cui impegno giovanile per i diritti dei maori era decaduto sempre più in una militanza fatta di parole e alcol. Non è l’orgoglio di Charlie, apostrofato come traditore del suo popolo, amico dei pakeha per non dire servo a causa del suo passato da soldato, a scatenare l’allontanamento decisivo tra il piccolo Rapata e il padre:

Ma poi era successa quella cosa inaspettata. Poco prima di arrivare alla porta Charles Maui Hira si era bloccato. Qualcosa che aveva sentito dire, no anzi urlare, da suo padre o dai suoi compagni di bevute, l’aveva fatto fermare. E aveva gridato anche lui. Aveva persino lasciato andare la mano di Rapata voltandosi e tornando indietro di alcuni passi. «Se tu osi ancora una volta pronunciare questo di fronte a mio nipote, se tu osi ancora una volta metterlo a contatto con quella merda di uomini che ti sei portato dietro, ti giuro che non te lo farò mai più vedere»

(R.M., p. 64) «Quello che gridavano gli amici di tuo padre, era il saluto dei tedeschi. Sieg Heil! Ma loro non lo sanno nemmeno pronunciare. Si credono forti, perché provocano i pakeha, perché gettano ridicolo sulla nostra storia andando in giro a bere e a picchiare conciati in quel modo, con i simboli del nemico, con il suo elmetto calato in testa a un bulldog inglese. Ma sono loro a essere ridicoli, ridicoli e un disonore. Non potevo lasciare che urlassero quella cosa, è un insulto a tutti i ragazzi che sono morti, capisci?»

(R.M., p. 66)

Il padre di Rapata – il cui nome non viene mai fatto – rappresenta l’esito estremo e peggiore della mancanza di memoria: oltre ad essere un padre assente e disinteressato, simboleggia la generazione che ha dimenticato e stravolto la storia, che si aggrappa a un ideale consunto per nutrire la propria rabbia e che evidentemente non può trasmettere nulla al figlio. Differente è la figura della madre, a cui Rapata è molto legato e in cui ravvisa i segni dell’orgoglio addirittura eccessivo di Charlie, ma che comunque rimane

136 un’immagine sullo sfondo, al più una figura di raccordo fra Rapata e il nonno, dal momento in cui è proprio lei ad inviargli la lettera scritta da Charlie dopo la prigionia, recentemente ritrovata.

Nella storia di Edoardo manca invece la contrapposizione schematica fra le due generazioni, che sono invece rappresentate in un nucleo unito intento a crescere il ragazzo nella memoria della storia polacca; a emergere è invece la madre, Flavia, l’unica a conoscenza delle vicende accadute in questura al figlio, che appoggerà nella sua scelta di andare a Montecassino, pur non comprendendo completamente l’importanza del viaggio.

È probabilmente nel personaggio di Flavia che è possibile rintracciare il significato della presenza-assenza della sua generazione, che è poi quella dell’autrice stessa; i personaggi racchiusi in questa fascia appaiono nella narrazione, ma non agiscono direttamente, poiché spetta ai ragazzi costruire il proprio percorso, come Charlie, Irka e Samuel intrapresero il loro molti anni addietro. La funzione che spetta agli adulti rappresentati non è di esempio, ma di guida, incarnando una figura di raccordo fra i due poli lontani e lavorando nell’ombra, seguendo e al più aggiustando le strade dei ragazzi, come l’autrice fa con i suoi personaggi.

Ed infatti gli ultimi genitori a comparire sono Gianni Steinwurzel e l’autrice stessa ed in loro si comprende al meglio questa apparente rinuncia all’azione: entrambi si ritrovano in età adulta a seguire le tracce ormai quasi perdute dei propri padri, reali o metaforici; dietro questa scelta sta il rimpianto di non averlo fatto prima ed il desiderio di colmare una distanza mai compresa. Quei giovani degli anni ’40 una volta scampati alla guerra e tornati alla normalità spesso hanno voluto dimenticare, o almeno non raccontare, facendo il possibile per vivere e far vivere ai propri figli una vita normale:

Per questo non possiamo fare altro che condividere il dispiacere di non aver mai chiesto nulla ai nostri genitori, ai nostri padri, quando erano ancora vivi e, se soltanto avessimo insistito, forse qualcosa ce l’avrebbero raccontato pure.

Forse noi eravamo troppo giovani, loro ancora troppo indaffarati nel loro andare avanti, lavorare e costruire senza fermarsi […]

(R.M., p. 358)

A questo senso di colpa si unisce il senso della mancanza per non aver vissuto una storia altrettanto grande, quello che Giglioli ha definito il trauma dell’assenza di trauma, che fa sì che i figli dei sopravvissuti, cresciuti in modo tanto diverso, si costruiscano anche un’identità diversa, lontana dalla storia dei padri:

137 Nulla di tutto questo sarebbe potuto accadere se non avessi avuto

quattro anni nel 1968. Era semplicemente il periodo che contribuiva affinché ai bambini venissero offerti certi giocattoli e certi libri, mentre dalla mia famiglia e persino dalla città di Monaco non mi giungeva nessuna diretta influenza della contestazione, neppure l’eco. […] Quando, con la fine dell’infanzia, venni a sapere quale fosse il popolo perseguitato al quale realmente appartenevo, era ormai tardi. Non è possibile ridisegnare attraverso un’informazione il perimetro di un sentire preesistente al tempo stesso così preciso e così vasto.

(R.M., p. 145)

Il percorso intrapreso una volta adulta per colmare questa distanza, parallelo a quello intrapreso da Gianni, non può che essere difficile e lacunoso, poche sono le informazioni che è ancora possibile reperire, ma è soprattutto la propria memoria la trappola più insidiosa, nella quale si sovrappongono ricordi e fantasie, e dalla quale con fatica emergono particolari un tempo inascoltati.

Ripercorrendo la vita di Emilio Steinwurzel e confrontandola con quella di suo padre, l’autrice comprende che la sovrapposizione fra i due, nata spontaneamente nelle prime pagine, non è casuale: aver dipinto il proprio padre come un reduce di Cassino, stabilitosi in Italia per amore, ricalca i rimpianti stessi dell’uomo e di tutti i sopravvissuti della Shoah.

Samuel Steinwurzel è quel che un numero infinito di ebrei polacchi hanno rimpianto per tutta la vita non essere stati. Non dovrà mai rimproverarsi di averla scampata fuggendo sotto falsa identità, nascondendosi nei boschi o nelle caverne come gente della preistoria, in cucce di cane, in botole sotto il pavimento pensate per tenerci il carbone e le patate, come roba riposta nelle dispense o nel fondo degli armadi. O aver avuto l’immeritatissima fortuna di sopravvivere da schiavi, meno che schiavi, involucri di pelle e ossa obbedienti alle norme del ghetto e alla legge del lager. Per cui rimane questo tarlo, il tarlo della loro impotenza, della loro umiliazione come uomini, uomini giovani che non hanno potuto fare niente per difendere le loro mogli o le loro madri, i loro figli, i fratelli più piccoli, gli anziani.

(R.M., p. 309) Perché mio padre quella storia la invidiava. Perché mio padre, con gli altri suoi amici italiani che erano stati in Jugoslavia o addirittura in Val d’Ossola coi partigiani, aveva raccontato che anche lui era stato da qualche parte nei boschi, con i russi o con i polacchi, a combattere contro i nazisti.

Però non era vero. L’ho scoperto per caso un giorno, dopo che era già morto, come ho scoperto poco prima del suo funerale che era falsa tutta la sua identità: nome e cognome, data di nascita corrispondente a quella in cui avevamo sempre festeggiato il suo compleanno.

138 Milek o Emilio ero quel che mio padre avrebbe voluto essere, il suo

doppio immaginario a cui tutto questo libro e dedicato.

(R.M., p. 361)

Dalla sovrapposizione fra i due uomini nasce la narrazione, la scelta di riallacciare i fili della memoria attraverso l’uso della finzione, che permette di giungere alla risoluzione del rapporto filiale, donando ai propri padri la storia che meritavano e di aprirsi ad una funzione genitoriale: spetta alla generazione intermedia raccogliere le poche tessere di memoria rimaste e riassemblarle in una storia nuova che i propri figli, in senso lato, possano ripercorrere e nuovamente contaminare e ricostruire.

In questo consiste l’importanza di una memoria viva che Rapata scopre nel corso del suo viaggio e che ricalca il percorso di scrittura dell’autrice:

Doveva fidarsi di suo nonno e di se stesso, fare un atto di fede in quella trama creata a quattro mani, riconoscendovi il suo invisibile moko facciale. […] Pur tramandandosi negli stessi disegni, il moko si adattava alla faccia di chi lo porta, e in più il lavoro dei muscoli lo rendeva sempre diverso: questa era la differenza fra una memoria viva e una memoria morta.

(R.M., p. 105) Eppure a questo incrocio, mi ritrovo in un punto di possibile, vertiginosa, terribilmente oggettiva convergenza fra la mia storia immaginaria e reale e quella accaduta una sessantina d’anni fa a esseri umani in carne e ossa. […] Non si può immaginare nulla di vero senza trovare un appiglio in ciò che si ha dentro, ma i disegni incisi nell’anima sono, a modo loro, astratti più di una mappa, impersonali quanto un documento, e io ora non posso fare a meno di figurarmeli a immagine e somiglianza di un moko che confonde nelle sue spire un più recente tatuaggio: uno dei numeri da A-9800 ad A-9806 che mia madre, dopo la guerra, si è fatta togliere dal braccio.

(R.M., pp. 145-46)

L’interpolazione di realtà e creazione corrisponde a una scelta di responsabilità, che dimostra come anche la trasmissione della memoria non possa non avvalersi della finzione, unico modo in cui può continuare a vivere. L’invenzione narrativa, dimostrando la propria necessità nello spinoso contesto della memorialistica, vuole ribadire la propria legittimità, ricordare come qualsiasi invenzione non può essere considerata avulsa dal Reale, da cui nasce e soprattutto in cui vuole continuare ad agire.

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