È possibile inseguire le tracce della ricerca di un padre in diversi personaggi. In primo luogo il Direttore che, come si è visto, allaccia con la protagonista un rapporto conflittuale, determinato dall’inconciliabilità di posizioni ma soprattutto dalla scelta di non scendere a patti l’uno con la visione dell’altro. È un rapporto quasi adolescenziale: la giovane donna vuole che il padre la prenda in considerazione come una figura alla pari, potrebbe anche rinunciare a convincerlo delle sue idee, non può però accettare che questi non la giudichi al proprio livello.
Il secondo personaggio che ha nei confronti della donna un atteggiamento paterno è Lajos, che a differenza del Direttore ha un atteggiamento di protezione, come a voler salvaguardare la donna da quel che potrebbe scoprire, dagli effetti della guerra, comportandosi “da nonno premuroso, il tuo dolce bisnonno”.78
Passeggiamo io e il vecchio, come due conoscenti impegnati in una chiacchierata frivola lungo il viale di una città europea. Mi precede di qualche passo, e tiene il ritmo: facendo attenzione che il distacco minimo non si modifichi. Retaggio patriarcale, o desiderio di fronteggiare la prima pallottola che fenderà l’aria?
(S.P., p. 221)
In Lajos la protagonista cerca un legame con la storia, non solo per comprendere cosa è accaduto ma per riallacciarsi a un passato “mitico”, il passato della Jugoslavia unita titina:
« […] Te la ricordi?»
«Come no? Vuoi che te la canti»
La intoniamo insieme: la filastrocca antifascista, bei tempi andati, fratellanza e unità, pioniri maleni mi smo vojska prava, Tito sarà un figlio di puttana ma è il nostro figlio di puttana.
(S.P., p. 213)
78
S.P., p. 214. E ancora: “Mi sfiora la guancia con un dito” (S.P., p. 209) e “Si rannicchia accanto a me, mi prende fra le braccia” (S.P., p. 217).
81 Ma Tito è morto e un lungo capitolo è dedicato a questo evento nel corso della sesta giornata: Tito viene a più riprese definito il Padre, un padre che non si vuol lasciar andare, che ha tra terrore e tenerezza “tenuto a bada” i propri figli per trentacinque anni:
La nazione segue il Padre, trepida e si inclina, freme e teme. “Tito è immortale” possiamo leggere sui muri di Belgrado. La nazione indugia, in attesa di comunicati ufficiali; azione e reazione non pianificata, estesa veglia collettiva a onde lunghe: in ogni casa rimane acceso un apparecchio radio, a scandire la fine del prode partigiano, del Maresciallo pluridecorato, del deus ex machina, del Creatore.
(S.P., p. 192) Il 28 aprile, alle 17 e 26, il Padre della Nazione entra in coma. I cittadini che ricordano orazioni fuorilegge, sommessamente borbogliano: entrano nelle moschee di Bosnia, nelle cattedrali cattolico-romane di Zagabria, nelle basiliche cattoliche ortodosse di Belgrado. Padre Nostro che sei nei cieli, Ti-to che sei in terra, Ti-to fra gli uomini di buona volontà, TI-TO. In serbocroato, TI significa tu, you. In serbocroato TO significa quello, that. Tu sei quello. You are the one. Tu sei il prescelto per guidarci, intoccabili, fra i continenti contrapposti in procinto di nuclearizzarsi; tu sei il prescelto che racconto, ogni notte fino all’ultima notte, prima del sonno, la favola della Fratellanza e dell’Unità.
(S.P., p. 193)
Come un padre che mette a dormire i bambini, così Tito ha raccontato alla Nazione una favola, che si dissolve al momento della sua morte. Ma nello stesso capitolo alla narrazione della morte del Padre segue il racconto di un abbandono coniugale: una donna lasciata dal marito nel pomeriggio del 4 maggio 1980, il giorno della morte di Tito. La donna non condivide l’attesa della nazione e invece che dalla morte del Padre quel giorno è segnato dall’abbandono del compagno.
(La donna che ebbi occasione di intervistare a Vrdnik, Direttore, era sempre vissuta in un mondo estraneo all’evento che aveva devastato l’immaginario collettivo jugoslavo. Aveva altri fiori).
(S.P., p. 196)
Alla morte di Tito viene accostato un evento privato, che non influenza e non è influenzato dalla grande Storia: dalla Nazione e dall’immaginario collettivo si passa al privato, alla piccola storia di ognuno. I due racconti coincidono temporalmente ma si succedono narrativamente, come a darsi il cambio, come se la vita privata, l’individualità della persona rimasta in secondo piano rispetto alla grande Storia, riemerga con la morte del Padre, che è anche la fine simbolica della grande ideologia.
82 La perdita dell’ideologia equivale alla perdita di un filtro di lettura univoco della realtà: la protagonista, orfana di un pensiero forte, deve crearsi uno strumento di lettura personale e particolare - da qui la scelta del punto di vista serbo - ma nel corso degli eventi cede brevemente alla tentazione di tornare indietro, di riallacciarsi nostalgicamente ai canti partigiani e al motto “Fratellanza e Unità”.
L’immagine di un padre che fornisca strumenti univoci per interpretare la realtà emerge anche quando la protagonista sogna il proprio padre biologico, che prepara alla figlia bambina un presepe laico, ricolmo di oggetti quotidiani accanto alle immagini religiose, da un carro armato giocattolo a un gatto fatto di mollica di pane:
Infine sparge tanti, tantissimi tappi di sughero. Sono mille: papà li conserva da sempre. Saturano il presepe che non è un presepe: è una zattera, è un’astronave proletaria, è triste. Nel sogno, mio padre non si muove in punta di piedi; lo scricciolo si sveglia. La bocca spalancata per contenere la meraviglia. «Cos’è?» chiedo. «È il tuo presepe» risponde «Ti ho fabbricato il mondo». Afferra la stella cometa e crack, non ha più coda: come il gatto di pane. La appende sopra il paesaggio, con il nastro adesivo, accanto all’orologio da parete. «E quella cos’è?» io domando. «Quella è la stella polare» risponde mio padre nel sogno che sognavo, Direttore.
(S.P., p. 75)
La protagonista sogna che il padre le fabbrichi un mondo, anche caotico, indefinito e triste, ma un mondo già pronto, facile da comprendere, che ha ben chiara una stella cometa, un punto di riferimento, anche se attaccato sommariamente con lo scotch. Il sogno del padre, segue un’allucinazione: la protagonista vede l’ultimo giorno di guerra, i cadaveri per le strade, l’esercito dei vinti e quello vittorioso. Trova un uomo, il Generale, che dichiara la sconfitta e nel quale la donna cerca rifugio, un ordine che le salvi la vita, una guida:
Io penso che ho corso attraverso quest’alba cangiante, che mi sembra di aver corso da sempre e per sempre; non ho che da aggiungere: «Io sono ai suoi ordini». […]
«Io mi sono salvata correndo» gli mento «mi ordini di riprendere a correre, la prego»; con dolcezza, lo dico; […] Il silenzio si riempie di raffiche e canti dell’esercito bianco: si prepara, coi suoi muscoli vivi, a stuprare una città che di nome fa Mitrovica.
È a questo punto e non oltre che il Generale mi strattone in avanti e mi ordina: «Andiamo».
83 Alla fine dell’assedio, durante la notte che la protagonista crede essere l’ultima notte di guerra, la donna sottolinea la difficoltà di essere sola, di dover affrontare la realtà con le proprie forze e la mancanza di un padre:
Fine dell’ultima notte. Avrei voluto un padre, un angelo custode, un guerrigliero in veglia al mio capezzale; invece, mentre le donne dormono altrove, a questo appuntamento con la fine io vado sola.
(S.P., p. 198)
La ricerca del padre si configura talvolta in un recupero del passato come rifugio e consolazione, come un luogo storico in cui risulti più facile dare un’interpretazione agli eventi; ma anche nel ricorso alla Storia come strumento interpretativo da utilizzare nel presente, per fuoriuscire dalla sensazione di incomprensibilità del reale, che non riesce ad essere risolta nella contemporaneità. L’incomprensibilità di questo presente, in cui la troppa informazione aggrava la perdita dei vecchi riferimenti culturali, perfettamente rappresentata dal groviglio della recente storia balcanica, tanto “comunicata” quanto incompresa, cerca soluzione nel ricorso al passato, talvolta consolatorio, ma più spesso utilizzato come chiave conoscitiva, mezzo per tentare una lettura del presente.