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La conservazione della memoria: i giovani

All’incrocio spaziale si sovrappone l’oscillamento temporale: la narrazione si sposta in continuazione dai giorni della battaglia e gli anni della guerra alla contemporaneità. Ciò permette che si avvicendino personaggi di diverse epoche, e colpisce quindi che i protagonisti siano sempre giovani, quelli di oggi e quelli degli anni ‘40. Rapata ed Edoardo sono i giovani cresciuti nel culto della memoria di Montecassino, ma sono anche coloro che corrono il pericolo di dimenticare.

È la storia di Edoardo in particolare a rappresentare la generazione che rischia di perdere interesse per la storia del proprio popolo, non per superficialità, ma per l’inevitabile distanza che neanche i continui racconti della famiglia possono evitare: la presenza insistita della grande Storia in casa, il gareggiare dei nonni polacchi e italiani per determinare quali siano stati i più vessati - e a risultare vincitori sono sempre i primi - uniti alle ripetute visite al cimitero militare e all’abbazia di Cassino hanno stancato Edoardo. Particolarmente significativa è quindi la collocazione della sua storia, accanto a quella di Irka, che invece custodisce gelosamente la memoria della propria gioventù e la condivide con l’autrice: Edoardo rappresenta la reazione al continuo ritorno al passato generato dal culto della memoria e il tentativo di essere nel presente e nel futuro.

L’impegno che Edo riversa nella ricerca dei polacchi scomparsi rivela proprio questo: la ricerca di un’identità italo-polacca che non esista soltanto nei racconti dei nonni, ma che abbia motivo di esistere nella contemporaneità. L’avventura, la piccola quête che costituisce la prova di formazione di Edoardo, il rito di passaggio attraverso cui superare il lutto per il proprio candore29 perduto in questura, lo riporta però nel luogo del

29 Edoardo Bielinski è oltretutto detto “il Bianco” nell’ambiente studentesco: “Si era persino

ritrovato con un soprannome nuovo che sembrava un vero e proprio nome di battaglia. Quel nome, in verità, era già saltato fuori prima, ma era rimasto confinato alla sua classe e non è nemmeno chiaro da dove fosse uscito: se da uno scambio in cui qualche smorfiosa si era presa la troppa confidenza di un «a ‘Biondooo!!!»

130 passato per eccellenza. Il passato del suo popolo, dei polacchi stabilitisi in Italia in particolare, e della propria infanzia: quando il diciottenne Edoardo cerca un luogo per mettersi alla prova, è il passato a venirgli incontro, fornendogli il campo di battaglia su cui condurre la propria impresa.

L’impresa è destinata a fallire, pare sempre più improbabile incontrare qualcuno legato agli scomparsi: come un fulmine a ciel sereno piomba quindi la storia di Ania, una giovane ballerina arrivata in Italia con la promessa di lavorare come modella per potersi poi pagare gli studi presso la prestigiosa Julliard di New York, caduta vittima dello sfruttamento della prostituzione ed infine trovata morta. Edoardo viene avvicinato dal nonno della ragazza, che gli racconta la storia di come la famiglia sia rimasta distrutta dalle vicende della povera Ania, di cui non capisce o si sforza di non capire la sorte. Edoardo rimane profondamente scosso dall’incontro con l’uomo, che segna la chiusura della sua missione: una conclusione dolorosa è necessaria per accettare la realtà e completare quindi il percorso di formazione del ragazzo, il cui futuro prende direzioni imprevedibili. A fine estate infatti, decide di partire per compiere i propri studi a Stoccolma, per seguire una ragazza svedese conosciuta proprio durante la vacanza a Montecassino.

Rapata giunge in Italia in occasione della commemorazione ufficiale, prendendo il posto del nonno che aveva atteso quel viaggio per tutta la vita; si chiede però più volte se abbia senso affrontare un simile pellegrinaggio attraversando il mondo, per prendere parte a una celebrazione superficiale e quasi carnevalesca. Come Edoardo, anche Rapata ad un certo punto della sua vita si è sentito investito dai troppi racconti del nonno, da quella guerra sempre evocata ad esempio di virtù, ma una volta arrivato nel luogo in cui si era consumata la battaglia, confrontando i propri ricordi con le narrazioni di un gruppo di reduci, la memoria riemerge non per glorificare ulteriormente i soldati, ma per andare ad arricchire il ricordo di Charlie.

Dopo la cerimonia ufficiale Rapata arriva casualmente alla stazione di Montecassino, che ricorda essere uno dei luoghi ricorrenti nelle narrazioni del nonno: all’interno trova infatti un gruppo di quattro reduci maori intenti in un rituale di commemorazione dei commilitoni scomparsi. I quattro si ricordano bene di Charlie, ed

e lui, di botto, «Biondo lo chiami tuo fratello» per mitigare in «semmai Bianco, ché questo significa Bielinski», o se avesse qualche appiglio la versione del Pascucci per cui Edoardo era «il Bianco», mentre lui e gli amichetti suoi erano «i Rossi»”. R.M., p. 196.

131 invitano così Rapata ad unirsi a loro, per poi scambiarsi racconti sulla vita del vecchio compagno.

Charlie Maui Hira aveva raccontato spesso al nipote come gran parte della forza dei maori stesse nella loro unità: all’interno delle divisioni si trovavano spesso appartenenti alla stessa famiglia o alla stessa tribù e anche quando questo non accadeva subentrava un senso di appartenenza più grande, infatti erano i compagni stessi a diventare una whanau. Charlie si era arruolato solo, contro il parere della famiglia che non comprese né gli perdonò mai la scelta di rischiare la vita per il paese di qualcun altro, e infatti i quattro reduci lo ricordano come un soldato valoroso, attento ai compagni, ma nel complesso isolato dal resto della divisione.

Per gli stessi motivi, una volta rientrati in Nuova Zelanda mancherà la volontà di continuare a frequentarsi:

«[…] Io, noi tutti, tuo nonno lo conoscevamo, ma non benissimo. Dopo la guerra era venuto alle prime riunioni, poi scomparve. Sapemmo da padre Huana che sua moglie si era ammalata e infine era morta. Tornò anni e anni dopo e poi di nuovo fece perdere quasi ogni contatto. Ma non ci stupimmo molto. Era piuttosto un’eccezione che un Ngati Walkabout, per quanto si fosse mostrato valoroso in guerra, avesse voluto conservare tanto spirito di corpo. In pratica immaginavamo che tu fossi una specie di scusa […] Non abbiamo mai pensato che avremmo potuto andarlo a trovare, magari non io, ma quelli che si sono trasferiti vicino a Aukland. E nemmeno ci è venuto in mente di includerlo nell’elenco dei morehu invitati dal governo per questo viaggio. Lo sapevi, questo?»

(R.M., p. 126)

Il ritratto del severo e intransigente Charlie Maui Hira acquista così nuove sfumature per Rapata: un uomo solo, che sceglie di crescere il nipote precludendosi la possibilità di rifarsi una vita, rinunciando a cercare e frequentare gli uomini con cui aveva combattuto e che lui considerava la sua whanau a fronte di una famiglia che con lui aveva lasciato cadere i rapporti una volta finita la guerra. I racconti del nonno rivelano finalmente la nostalgia di un’appartenenza trovata nel momento drammatico della guerra, fondata sulla scelta comune di migliaia di giovani spesso non ancora maggiorenni di combattere una guerra lontana, addirittura rinforzata dalla prigionia e poi perduta in tempo di pace, nel momento in cui le maglie dei rapporti si assottigliano e si spezzano.

Il monolitico Charles diventa una figura quasi struggente nella sua continua rievocazione quasi quotidiana della vita del battaglione, nel tentativo di istruire il nipote secondo i valori dell’impegno e del dovere per lui intrinsecamente legati all’esperienza

132 militare. A precisare ulteriormente il ritratto che va abbozzandosi, Rapata viene a conoscenza di una lettera inviata dal giovane Charlie alla famiglia una volta libero dalla prigionia e in procinto di imbarcarsi per la Nuova Zelanda: per la prima volta appare tutta l’incertezza e la delusione del soldato superstite, distrutto dal senso di inutilità di quella guerra per cui si era imbarcato volontario.

Una cosa però vorrei dirvela subito, anche se mi costa. Da quando sono caduto prigioniero, ho dubitato molte volte della mia scelta di arruolarmi. Vi ho pensato con rabbia nei confronti di me stesso, dandovi ragione, dicendomi che non c’era motivo perché noi dovessimo morire per quelle terre di ghiaccio.

(R.M., p. 133)

A far vacillare Charlie non è stata tanto la guerra, quanto l’orrore visto durante la prigionia:

Le guardie, le SS che fucilavano i polacchi o i russi venendo dietro le colonne dei prigionieri evacuati. Per non parlare degli hurai che hanno sterminato. […] alla fine li vedemmo. Il giorno prima che cominciasse la nostra marcia, passò davanti alle nostre baracche una colonna di uomini vestiti di una sorta di lacero pigiama grigio, ai piedi zoccoli di legno. Camminavano fra SS, guardie e cani. Dopo ho fatto l’abitudine anche a quella vista: sui bordi delle strade incontravamo spesso gruppi congelati di hurai uccisi. Sia uomini che donne, ma alcuni così magri che dai loro crani rasati non avresti potuto indovinarlo. Quella gente ammazzata non doveva essere né toccata né sepolta. Che tipo di esseri umani riesce a inventarsi questo?

(R.M., p. 134)

Rapata comprende che il luogo più oscuro della vita di Charlie, quello in cui le sue certezze furono smentite e i suoi valori messi alla prova, non fu la guerra, ma la prigionia in Polonia; riemergono nei suoi ricordi non i racconti, bensì i silenzi e i momenti in cui la narrazione, divenuta troppo cruenta o dolorosa, si interrompeva, segnale della volontà di dimenticare o di non rendere partecipe il nipote di tanta atrocità.

Come aveva fatto, si chiedeva Rapata, a non accorgersi, anche quando era ormai più grande, che suo nonno finiva sempre i suoi racconti lì, nell’ombra, e subito dopo si ritirava. Che persino i ricordi più gloriosi erano oscurati da quell’ombra? Come aveva fatto a non rendersi conto che c’erano cose che gli aveva detto, sì, ma di cui non parlava? La prigionia, per esempio, anche se a scuola aveva imparato che proprio nel campo E 535 di Milowitz i prigionieri kiwi producevano un giornale, il «Tiki Times», di cui la Nuova Zelanda ancora si vantava.

133 Decide quindi che il luogo in cui rendere veramente omaggio alla vita di Charlie non è Montecassino, ma Milowitz, come l’istinto gli aveva suggerito fin dall’inizio,30 e così parte per colmare in prima persona le lacune dei racconti del nonno:

Avrebbe liberato il prigioniero e continuato la loro guerra, la loro guerra di liberazione, perché non esisteva un’altra scelta.

(R.M., p. 136)

La conservazione della memoria si trasforma per Rapata da compito dovuto alla propria gente e alla patria – secondo gli insegnamenti di Charlie – a omaggio personale al ricordo del nonno, recupero, attraverso la Storia, di un’immagine ancora più significativa e importante dell’uomo che l’ha cresciuto.

Una strada diversa è quella percorsa da Andy Gupta, il migliore amico di Edoardo: indiano di origine, appartiene ad una famiglia benestante e cosmopolita – il padre è un manager di Bulgari – che fa di Andy un ragazzo buono ma slegato dal mondo, che pur vivendo a Roma fin dall’infanzia parla inglese come prima lingua e italiano solo se necessario. Eppure Edoardo chiede proprio a Andy di accompagnarlo, e l’arrivo in un luogo così storico metterà in luce le differenze tra i due, non senza qualche attrito. In particolar modo Edoardo non capisce e stigmatizza il disinteresse dell’amico nei confronti delle truppe indiane che parteciparono alla battaglia:

«Ma che cosa te ne importa dell’abbazia? Me lo sai dire con parole tue che non sembrino tratte dalla guida del Touring? Perché devi sempre fare il primo della classe e non vai piuttosto a rendere omaggio agli indiani crepati qui come da qualche giorno ti sto proponendo?»

«Perché a me interessa di più l’abbazia, d’accordo? Perché francamente di vedere la tomba di qualcuno, solo perché è nato in India, who cares?»

(R.M., p. 209)

Andy in realtà trova il modo di interessarsi agli eventi storici condensati a Montecassino, ma non attraverso gli indiani, bensì proprio nella storia del generale Anders: l’autobiografia dell’ufficiale polacco diventa una sorta di romanzo, una storia

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“Forse avrebbe dovuto fare di testa sua, non andare a sorbirsi i discorsi e le preghiere, usare i soldi avanzati per cercare quel che restava della miniera in Polonia dove il nonno aveva trascorso la prigionia, luogo di cui Rapata non sapeva nulla tranne che la valuta di scambio più preziosa si chiamava «papiroski». «Sigarette» […]. Sì, forse Rapata avrebbe dovuto decidere il contrario di quel che avrebbe fatto Charles Maui Hira. Anziché presenziare alla glorificazione ufficiale, seguire l’ombra. Tradire la sua memoria, ma per salvarlo”. R.M., p. 42.

134 avventurosa che lo coinvolge come un film, ma nella quale comunque non riesce ad immergersi completamente.

Forse avevo bisogno anch’io di immaginare qualcosa di diverso da quelli che sono i miei spaghetti, volevo anch’io sognare qualcosa di eroico. Solo che non è la mia dimensione. Quel vostro modo di stare dentro la storia fino al collo, di lottarci fino all’ultimo sangue. – anche voi per generazioni, da nonno a nipote – in fondo non lo capisco. Mi piace, così come mi è piaciuto molto il tuo esperimento davanti al cimitero, ma non mi appartiene.

(R.M., p. 274)

Tutto ciò Andy lo spiega all’amico qualche tempo dopo, rievocando anche l’episodio in cui, finalmente in visita all’abbazia, il ragazzo aveva abbandonato il museo per ammirare un nido di rondini:

Anch’io capisco certe cose, ma per un’altra strada. Per esempio quella delle rondini. Quando stavo lì a guardare quel nido piazzato sotto la volta del corridoio, mi veniva immediato pensare che ai tempi della battaglia non avrebbe potuto esserci. Eppure, almeno quando ci avevano combattuto i soldati del generale Anders, era maggio. […] Così mi sono chiesto: ma dove stavano le rondini, in tempo di guerra? E ho ripassato a mente tutti gli scenari della seconda guerra mondiale, almeno quelli che abbiamo studiato a scuola: Europa, Nordafrica, Russia, Indocina, Pacifico. Ho visto questi stormi di poveri uccelli neri impazziti, in tutto il mondo. Capisci, Edo: per avere il senso preciso di quel che mi stava raccontando il vostro generale, io sono passato attraverso le rondini.

(R.M., p. 274)31

Andy, proveniente da un mondo così slegato dalla Storia, trova un modo personale per inserirvisi, aderente alla propria sensibilità; il problema della memoria, vissuto con insofferenza da Edoardo e in modo complesso da Rapata, si sposta con il giovane indiano sul piano della leggerezza e della poesia: Anand ricostruisce una propria mappa delle battaglie non attraverso gli occhi degli uomini e delle donne che si spostano nel conflitto e che dal basso levano lo sguardo a guardare i bombardieri, ma ammirando spaventato dall’alto la distruzione portata dagli uomini, che impedisce a stormi di rondini disperate di trovare rifugio.

31 Andy Gupta che si interroga sulle sorti delle rondini in guerra, può forse ricordare uno dei

protagonisti della letteratura giovanile: il giovane Holden che vagando a New York senza trovare il coraggio di tornare a casa dopo essere stato espulso per l’ennesima volta, chiede “Mi saprebbe dire per caso dove vanno le anitre quando il lago gela?”, in J.D. Salinger, Il giovane Holden, Torino, Einaudi, 1961, p. 183.

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