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Capitolo 2. Il dominio nel corpo: Judith Butler e la performatività del simbolico

3.4. Il genere che domina

Benjamin, ritiene che l’organizzazione della nostra società sia di genere maschile e non neutra come si pretende. La presenza delle donne, e le posizioni che occupano, non ne alterano la struttura o le regole che rimangono prevalentemente maschili.

Le istituzioni pubbliche e i rapporti di produzione sfoggiano una condizione di non-genere apparente, a tal punto sembrano impersonali. Eppure è proprio questo carattere oggettivo […] che si riconosce come caratteristica del potere maschile […]. Per quanto invisibile, la struttura del dominio di genere si materializza ugualmente nella razionalità che pervade i nostri rapporti economici e sociali. L’apparente neutralità di genere è una specie di mistificazione, analoga a quella che Marx definì feticismo della merce – un’illusione originata dagli stessi rapporti sociali.168

Nell’analisi del dominio maschile, Benjamin si allontana da un terreno specificatamente psicanalitico e fa delle riflessioni più ampie che, a mio avviso, la avvicinano molto alle conclusione tratte da Bourdieu nell’analizzare lo stesso tema. La neutralità apparente della società è una mistificazione, una strategia sociale che impedisce, in quanto non evidente, di attuare tecniche di resistenza.

L’individuo protagonista della civiltà occidentale, è, come ci rileva per esempio Marcuse, un individuo che nega la dipendenza, che abbraccia e incarna l’ideale borghese dell’autonomia. La sua libertà non è libertà insieme ad altri, ma a discapito e nonostante gli altri. Quest’individuo, è frutto di un’astrazione: è colui che si dimentica le possibilità della sua esistenza, le condizioni che lo hanno portato ad essere quello che storicamente è. Una libertà così intesa è ottenuta nella forma della privazione, è vuota di                                                                                                                

ogni relazione con gli altri. Secondo Benjamin, un determinato tipo di libertà e un certo tipo di individuo come protagonista dell’universo sociale, sono stati pensati e sono diventati modelli, solo in seguito alla tacita accettazione di una struttura di genere.

Secondo la struttura sociale, accettata e mai teorizzata o problematizzata, l’individuo, come nucleo psicosociale è colui che non-è la donna, che non gli appartiene, a cui non è legato e che sta completamente fuori da essa. Come principio psicologico, l’individualità autonoma deriva da una differenziazione rispetto alla madre, che nel caso maschile, si risolve spesso nel senso di un rifiuto di ciò che la madre è e di ciò che rappresenta in quella società. Il carattere astratto dell’individuo nasce dal rifiuto dei limiti che la dipendenza dall’altro gli impone. Quest’individuo dunque, lungi dall’essere l’Uomo in generale, è un uomo prodotto storicamente, figlio della storia culturale e dell’interpretazione di essa, è il maschio occidentale, l’homo faber, il borghese che sfida i limiti della scienza e lo fa in quanto uomo.

Il femminismo, ha respinto il presupposto moderno secondo il quale individualità e razionalità sono universali, e ha mostrato come nell’individualità ci sia l’azione contingente e particolare del genere, e quindi, della società. L’individuo non è neutro (non lo potrebbe mai essere), è maschio. La neutralità è il segno della mascolinità. Se mettiamo in discussione questa pretesa di imparzialità, ci accorgiamo di quanto questo modo di stare al mondo sia solo uno dei possibili.

L’Io moderno è l’Io conoscente della scienza: colui che attraverso la ragione, fronteggia un mondo che gli si da come un oggetto. Con la stessa struttura psichica, l’uomo ha vissuto i suoi legami interpersonali, alla stregua di un soggetto che conosce un oggetto, che lo esperisce, ma di cui non riconosce la somiglianza. L’io moderno è quello fichtiano che pone un Non-Io, che lo incontra come ciò che lui non è, ma contemporaneamente, non lo conosce nella sua alterità, ma come proiezione di se stesso

su di lui. Con Freud si è inaugurata proprio questa sensibilità, se vogliamo metodologica, secondo cui l’altro diventa importante nella misura in cui rappresenta qualcosa per me, in quanto è il mio ideale dell’io, la mia identificazione. Pensare alla relazione soggetto-oggetto come l’unica possibile, significa ribadire un’opposizione che può essere cambiata solo nella forma del ribaltamento; il maschile o il femminile devono assumere un ruolo passivo secondo cui un termine ottiene il diritto di esistere e l’altro lo crea attivamente.

Considerare invece la relazione intersoggettiva fra soggetto e soggetto, non permette solo di rendere meno forte e chiusa la contrapposizione, ma ci consente di reimpostare il senso stesso dell’attività del soggetto:

Quando la psicanalisi passa dal paradigma originario soggetto-oggetto a un paradigma intersoggettivo, noi modifichiamo impercettibilmente il significato dell’attività; la concepiamo non più nel contesto di una complementarietà polare ma come una simmetria tra due partner attivi. Ciò consente di ridefinire i termini della questione: per vago che possa essere il loro contenuto, mascolinità e femminilità non stanno più nella medesima relazione formale, separate da un confine fisso e invalicabile.169

Lo spostamento e il decentramento rispetto al sé, sono solo il primo passo della risemantizzazione più completa che il paradigma relazionale soggetto-soggetto, richiede. L’unico modo per riconfermare l’esigenza teorica di quest’operazione, è continuare a riflettere costantemente sul dominio, che è psicologico, sociale, politico e di genere insieme. L’atto del conoscere, atto oggettuale per eccellenza nella visione intrapsichica, può essere esperito come una comunione, una collaborazione e non necessariamente come il controllo su una conquista fatta in solitudine. Collaborare anziché sfidare l’oggetto è la prova della particolarità e contingenza della definizione di                                                                                                                

conoscenza data dalla scienza moderna e costituisce un esempio dell’egemonia del paradigma maschile. Qui, l’altro non è un sé diverso e simile a me che mi si propone nella sua particolarità, ma è un altro generalizzato, universale e quindi, vuoto.

La differenza dell’altro, la sua individualità non ottiene senso nei termini dell’empatia, del riconoscimento della sua soggettività come qualcosa di altro dalla mia, ma comunque simile. La sfera pubblica fino ad adesso è stata pensata come un insieme di atomi e non è stata teorizzata l’esistenza di uno spazio intersoggettivo che realizzi il senso di questi atomi come aperture verso gli altri.

Anche nella riflessione di Hannah Arendt, che pure dà grande importanza alla sfera pubblica, la dimensione collettiva ha senso in quanto realizza la politicità di ogni singolo individuo che si pretenda tale. La dimensione politica è la dimensione più profonda del soggetto, e perdendola, si perde la dimensione di essere umani, ma lo si fa in quanto singoli. Lo spazio pubblico è da sempre uno spazio maschile e le sue dinamiche si compiono con la stessa logica del paradigma maschile di un soggetto che conosce un oggetto. L’uomo è legittimato a muoversi nel pubblico, nello spazio che può diventare intersoggettivo (e che quindi non lo sarà mai), invece la donna è colei che ha il compito di contenere, accudire individui che poi saranno autonomi nella sfera privata, ma non le è riconosciuto lo statuto di soggetto.

Quando nel capitolo precedente ho analizzato il testo di Butler La Rivendicazione di Antigone, abbiamo ripercorso anche l’interpretazione che Hegel da della figura di Antigone. Essa è appunto una figura, un’astrazione priva di corpo, rappresenta la femminilità che a sua volta rappresenta la parentela, colei che è esclusa dalle leggi dello stato, che prepara i figli a queste leggi e che poi si annulla. Nel movimento dialettico hegeliano l’elemento femminile esiste per essere negato, per essere sintetizzato e scartato dalla leggi più generali dello stato e del pubblico. La donna è colei che è

costitutivamente fuori dal pubblico, dallo spazio collettivo. La madre è ridotta ad essere un’appendice dell’altro, lo strumento di cui il figlio si serve per negare poi qualsiasi dipendenza con il negativo che lei rappresenta. L’ideale sentimentale della madre che si sente realizzata ad essere madre, il sentirsi nate per questo, non è la giustificazione di questa struttura, ne è casomai il prodotto. Il bambino, secondo Jessica Benjamin, ha bisogno della madre non in quanto donna, ma in quanto altro che lo limita, da cui dipende a dal quale prendere le distanze.

L’assegnazione di un genere all’”altro” dal quale i bambini si differenziano, è una scelta storica. I bambini che hanno un solido attaccamento alla madre, possono acquisire anche altre figure di riconoscimento, imparando così, a gestire e saper esperire il paradosso delle identificazioni multiple, operando un moto verso il complesso, che integri anziché ridurre le differenze. E anche qualora possa essere assegnato un genere alla maternità, resta necessario supportare il ruolo attivo della madre affinché essa possa rappresentare l’altro, fronteggiarlo come persona reale e non oggetto creato dalla sua onnipotenza. Un rapporto riuscito con la realtà non ha bisogno di figure ideali, anzi, le esclude. È solo attraverso soggetti concreti, imperfetti, particolari che l’individuo vive nella dimensione sociale e psicologica che gli è propria. Accettare il fallimento nella sua reversibilità, nelle possibilità che dischiude, significa non ridurre il mondo a un intero perfetto, vuol dire rinunciare alla perfezione effimera della simmetria per cedere a posizioni multiple e irriducibili. Il soggetto non verrà sconfitto solo se e quando sarà in grado di riconoscere la presenza dell’altro e gli altri senza volerli controllare. La madre che esiste oltre suo figlio è una madre che va via ed è capace di tornare, che lo espone ad una realtà permettendogli di fronteggiarla e viverla senza esserne assorbito.

Dobbiamo ricordarci che la struttura sociale che ha permesso e permette questa configurazione è, propriamente, una struttura di genere, una struttura fallologocentrica.

Scoprire il genere, renderlo esplicito, de-mistificarlo nella sua apparente neutralità è la prima possibilità di resistenza che dobbiamo darci. Non basta la riorganizzazione formale dell’accudimento, abbiamo bisogno di cambiamenti sostanziali per spezzare la polarità del genere. La polarità di genere toglie alle donne la soggettività e agli uomini la possibilità di essere riconosciuti. Pensare l’oggetto è in parte indispensabile per quell’unità dell’Io a cui, come dicevamo, la psicanalisi non può rinunciare, ma è anche una perdita enorme poiché ci priva della condivisione da cui, in quanto soggetti insieme ad altri, non possiamo prescindere.

Smascherare il dominio significa rimettere in gioco termini e relazioni, pensarli e ripensarli facendo vibrare i simboli, fare un lavoro genealogico e poi politico. È ancora una volta da ciò che è già presente come scarto nella storia, che possiamo trovare gli strumenti per condurre la nostra battaglia. Nelle risposte che la psicanalisi non ci dà e nelle domande che ci obbliga a porre si trova l’occasione per far emergere quello che il linguaggio non è stato in grado di formulare:

In effetti, l’uscita dalla passività è strutturata come resistenza. Soggetta ai propri sintomi e prigioniera del proprio corpo, la paziente può tuttavia mobilitarsi contro la resa della sua coscienza. E dunque il passo decisivo che è all’origine della psicoanalisi ha il marchio dell’ambiguità.170

Il nostro compito è recuperare le premesse sepolte dalla e nella storia e farle parlare di nuovo, ripensando loro e insieme noi stessi. L’urgenza etica, e politica, è quella di parlare tramite il simbolo delle sue contraddizioni, portare alla luce, rendere esplicito quello che è stato non detto dalla storia.

                                                                                                               

Abbiamo un compito metodologico e gnoseologico che è quello di renderci sensibili all’invisibile, a riconoscere l’arbitrio oltre la necessità e a lottare per il cambiamento. L’azione politica ed etica diventa adesso quella di saper leggere “sotto”, come ci spinge a fare Deleuze:

Una voce parla di qualcosa. Si parla di qualcosa. Allo stesso tempo ci viene mostrata un’altra cosa. E infine ciò di cui si parla è sotto ciò che si vede. Questo terzo punto è molto importante. Capite bene che è proprio questo che il teatro può fare.171

Il teatro, luogo rappresentativo per eccellenza, può assurgere proprio a questa funzione: quella di mettere in scena il visibile per parlare dell’invisibile, di spostare continuamente i termini del discorso per metterlo in crisi, per teorizzare, esperire e agire negli spazi che si aprono grazie alle sovrapposizioni non perfette.

Se possiamo rappresentare la storia, le storie, i discorsi, siamo anche capaci di farne la genealogia e ripensarli sempre nei fallimenti che scongiurano o che rendono possibili.

                                                                                                               

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