• Non ci sono risultati.

La violenza simbolica del sesso: dare forma al corpo

Capitolo 2. Il dominio nel corpo: Judith Butler e la performatività del simbolico

2.2. La violenza simbolica del sesso: dare forma al corpo

Il lavoro storico attraverso cui Bourdieu pensa la costituzione dell’habitus, è espressione di una sensibilità vicina a quella con cui Butler pensa la sessualizzazione del corpo, la quale passa attraverso l’attribuzione di un genere:

In this way, Bourdieu underscores the place of the body, its gestures, its stylistics, its unconscious “knowingness” as the site for the reconstitution of a practical sense without which social reality would not be constituted as such. The practical sense is a sense of the body, where this body is not a mere positive datum, but the repository or the side of incorporated history.110

L’habitus come storia incorporata, non è distante dal corpo sessualizzato e vissuto come portatore di un genere, analizzato da Butler. Esattamente come l’habitus, il genere è una struttura strutturata e strutturante a sua volta. La sua attribuzione non è vissuta passivamente dal soggetto, ma diventa il principio stesso della sua soggettivazione:

Subjection is, literally, the making of a subject, the principle of regulation according to which a subject is formulated or produced. Such subjection is a kind of power that not only unilaterally acts on a given individuala s a form of domination, but also activates or forms the subject.111

                                                                                                               

110 J. Butler, Performativity’s Social Magic, in Bourdieu, A critical Reader, Blackwell publishers, Oxford,

1999, cit. pag. 114.  

Non solo principio di dominio, l’azione performativa del genere, diventa l’unica modalità attraverso la quale il soggetto pensa se stesso e si rende visibile agli altri. Lungi dall’essere vissuta come un’imposizione, diventa una sorta di seconda natura, al di fuori della quale è impossibile pensarsi come corpi.

Il genere è performativo nella misura in cui è una performance teatrale, una messa in scena, ma anche nella misura in cui rappresentandosi, si fa esistere. Il corpo non è un dato biologico e positivo, ma ci si presenta come già da sempre condizionato. Il nostro corpo non è mera materialità ma materialità inserita e costituita dal sociale, non solo nell’immagine che ne diamo, ma anche nella maniera personale che abbiamo di esperirlo.

Il corpo non ha niente a che fare con l’organismo, non condivide niente con i suoi organi, non è una progettualità finalizzata; come dice Deleuze “Il corpo senza organi non si oppone agli organi, ma, con i suoi “organi veri” che devono essere composti e disposti, si oppone all’organismo, all’organizzazione organica degli organi”112). Non è con il corpo in quanto organismo, in quanto entità ordinata e gerarchizzata che giochiamo nel sociale. Se investiamo in un campo, lo facciamo come nuclei di materialità che si aprono a quel campo e che da quel campo vengono attraversati e ri- disposti. Il nostro corpo (vissuto come Lieb, il corpo proprio) è prodotto da discorsi, reticoli e tecniche di potere, alle quali il corpo si oppone ma che incarna a sua volta. L’azione sociale è performativa non solo dello spazio sociale inteso nella sua dimensione collettiva, ma soprattutto dei corpi che vengono da quest’azione performativa costruiti nella loro stessa materialità.

Quest’aspetto della riflessione, Butler lo condivide con Bourdieu, soprattutto per quanto riguarda la tematizzazione della performatività creante il discorso sociale e                                                                                                                

112 G. Deleuze, F. Guattari, Come farsi un corpo senza organi?, Millepiani II, Castelvecchi, Roma, cit.

ufficiale. Il discorso performativo è, secondo il sociologo, efficace e può adempiere alla sua funzione, in quanto è un atto di magia sociale. Esattamente come nella distinzione proposta da J. L. Austin, il discorso performativo, distinto da quello assertivo, non si situa sul piano della verità e della falsità, non è cioè, l’espressione linguistica di uno stato di cose. Può essere felice o infelice, ben riuscito ed efficace o inefficace poiché la sua funzione è quella di creare asserendo. Enunciati di questo tipo si spostano dalla dimensione prettamente linguistica e originano un terreno in comune con quello dell’azione: implicano altri discorsi, hanno senso solo in circostanze specifiche, sono plastici e relazionali nella loro stessa essenza, rendono complesso e ci spingono a pensare la complessità, poiché:

…più ci pensate, alla verità e alla falsità, più trovate che pochissime delle asserzioni che facciamo sono semplicemente vere o false. Di solito c’è il problema se sono obiettive o meno, se sono adeguate o meno, se sono esagerate o meno. Sono troppo approssimative, o sono perfettamente precise, accurate eccetera? “vero” e “falso” sono etichette generali di una dimensione di valutazione in cui si danno valutazioni diverse che tutte hanno qualcosa a che fare con la relazione fra ciò che diciamo e i fatti.113

Gli enunciati performativi, per funzionare, hanno bisogno di riferirsi a qualcos’altro che sia accettato già come vero, sono retrospettivi. Rendono ragione in questo senso, di quell’investimento complesso che è lo spazio sociale nel quale, come secondo la teoria bourdeusiana, non si agisce o si subisce semplicemente, non si fa dal nulla e non si distrugge nel nulla.

La dimensione sociale che ci caratterizza, comporta atti di fiducia, misconoscimento e una serie di credenze che ci spostano rispetto alle nostre intenzioni coscienti. Butler discute molto su come Bourdieu metta in relazione il discorso performativo con la                                                                                                                

teoria dell’habitus, e lo critica poiché ritiene che il sociologo operi una dicotomia che allo stato teorico aveva fortemente rifiutato.

Se Bourdieu definisce il corpo come l’oggetto sul quale si opera e viene poi incorporato tutto il lavoro performativo della società e dei discorsi, com’è possibile che egli tenga poi separati, facendo due analisi distinte, la performatività linguistica e quella sociale? Bourdieu riconosce nel corpo la sedimentazione di azioni rituali, lo riconosce cioè, nella sua memoria incorporata. È solo tramite e con il corpo che l’agente di Bourdieu gioca il sociale alla stregua di quella che Butler chiama identificazione mimetica, ovvero di quel processo di acquisizione che è una conformazione pratica, prima che teorica, alle strutture strutturanti del campo.

Quest’identificazione non è pensata come un’imitazione, non comporta la consapevolezza di chi la attua; è piuttosto un essere implicati e condizionati da sempre nel contesto nelle nostre disposizioni. Bourdieu riconosce nel corpo tutto una dimensione culturale e attribuisce alle sue disposizioni la dimensione storica di una sedimentazione capace di essere per quel corpo una seconda natura, ovvero un’abitudine che si insinua nel profondo della possibilità di conoscere, esperire e partecipare al mondo nel quale siamo implicati. L’aspetto interessante, ma anche contraddittorio dell’habitus è, secondo Butler, la sua struttura formata e allo stesso tempo per-formante.

Se l’habitus si inclina a certe azioni, le rende più probabili, le perpetua con maggiore facilità secondo la propria storia, come può non essere completamente determinante e determinato? La filosofa non muove a Bourdieu le semplici accuse di determinismo che gli sono state ampiamente e facilmente imputate. Innanzitutto riconosce l’importanza del nucleo concettuale da lui teorizzato: l’habitus non sta in relazione diretta con il campo, quanto con il senso del gioco che la presenza in quel campo rende necessario. È

figlio delle regole, delle strategie che animano e strutturano il campo, che non esiste come entità astratta ma solo nel suo essere agito.

Con questo spostamento il corpo viene percepito in tutta la sua complessità e messo in relazione con gli sguardi costitutivi degli altri, le loro intenzioni, le loro volizioni. Se l’habitus è quindi quell’intelligenza sedimentata che va a costituire il corpo dal momento in cui gioca nel campo, ciò presuppone anche il campo come condizione di possibilità dell’habitus. L’habitus e il campo stanno in una relazione formativa che accade come un evento epistemologico. Pensare l’habitus in questi termini, permette un’operazione filosoficamente fondamentale per Butler: far vacillare una categoria dal suo interno, smascherandone le sue falle. La caratteristica più importante secondo Butler, dell’acquisizione mimetica di una norma, che scaturisce dal discorso performativo, è che essa sia anche, corrispondentemente, la condizione della resistenza possibile a questa norma:

…the mimetic acquisition of a norm is at once the condition by which a certain resistance to the norm is also produced; identification will not “work” to the extent that the norm is not fully incorporated or, indeed, incorporable. The resistance to the norm will be the effect of an incomplete acquisition of the norm, the resistance to mastering the practices by which that incorporation proceeds.114

Dal momento in cui l’acquisizione mimetica è un processo di identificazione che non ha niente a che fare con la coscienza, mette anche in atto una discrepanza. Identificandoci realizziamo anche la nostra differenza con l’altro che funziona da modello, gli somigliamo mettendo in pratica però quegli scarti, quelle non-corrispondenze che fanno la differenza e ci costituiscono. Identificarsi non significa essere identici. Se è vero che

                                                                                                               

incorporiamo una norma, essa rimane qualcosa di non completamente assimilabile, ed è in questa discrepanza che si annida il germe della resistenza alla norma.

L’opporsi alla norma, il resistergli, può avvenire perché la norma non è mai completamente nostra, o meglio perché noi non siamo la norma, benché la relazione con essa ci renda soggetti. Per questo secondo la filosofa, ogni volta che Bourdieu parla del misconoscimento, parla di necessità di un soggetto e di un campo che sono, anche se in minima parte separati e separabili. Il non-riconoscimento di un’azione sociale in quanto tale, è un operazione gnoseologica inversa, e presuppone un incontro tra un soggetto, anche se condizionato, e un campo che, anche se lo caratterizza, gli rimane esterno, come un oggetto di conoscenza. Com’è possibile, si chiede, che il soggetto sia completamente fondato dal campo, se rimane comunque un soggetto che questo campo incontra? In realtà, Bourdieu ci ha insegnato a pensare al di la di questi dualismi, infatti, come Butler riconosce, dobbiamo non solo pensare la costituzione del soggetto, ma anche la costituzione del campo come qualcosa di complesso e complessizzabile, perché il campo non si da senza la doxa e l’habitus che non solo vi partecipano, ma lo generano. Più che di soggetto infatti, Butler sa di dover parlare di corpo come soggetto- oggetto, di una storia incorporata che non si pone contro o a favore di un dominio oggettivo, ma che è l’espressione dell’oggettività del contesto come la condizione formativa del suo esserci, del suo essere presente a quell’universo.

Se il dominio soggettivo delle disposizioni e quello oggettivo del campo, sono collegati, sono anche irriducibili l’uno all’altro. Infatti più che una fondazione dell’uno o dell’altra, dobbiamo pensare al campo e all’habitus all’interno del sistema di riferimento dell’eccedenza. Ammettere che si fondino a vicenda, non implica la riduzione dell’uno all’altro, possono fondarsi a vicenda e restare in una relazione di

stretta dipendenza sia semantica che ontologica, senza essere l’uno lo specchio dell’altro.

L’irriducibilità del campo all’habitus, è espressa anche da Butler sotto la forma dell’irriducibilità della norma alla sua incorporazione. Se è vero che la norma disciplina il corpo, lo forma, lo struttura lo plasma, ciò non significa che ci sia un’assuefazione completa dell’uno sull’altro. Tra il corpo e la norma che lo crea esiste una relazione, stretta e serrata ma pur sempre una relazione, che in quanto tale realizza una vicinanza e una distanza al tempo stesso:

…un regime di verità si limita a fornire la cornice al cui interno ha luogo la scena di riconoscimento […]. In questo senso allora noi non siamo “decisi” in modo deterministico dalle norme, sebbene le norme ci forniscano la cornice e costituiscano il punto di riferimento costante di ogni tipo di decisione che possiamo prendere.115

La norma agisce tramite il simbolo che di per sé allude, rimanda, lascia intendere, sposta. In questa non corrispondenza esatta tra corpo, norma e simbolo, possiamo pensare il riconoscimento in un senso diverso, prendere le mosse dall’orizzonte che ci definisce e affermare un atto che ci performi altrimenti. Il regime di verità della norma può essere criticato attraverso un’attività riflessiva che, benché assoggettata, si affermi come un’esigenza di soggettivazione. Se Bourdieu assegnava alla sociologia questo ruolo, Butler lo riconosce alla filosofia nella misura in cui non è solo critica intellettuale, ma proponimento etico.

La critica diventa per Butler un esercizio etico nel quale io stessa come soggetto mi metto in discussione. La questione normativa diventa già subito una questione etica. La lotta critica contro le norme diventa una lotta etica per il riconoscimento. Per resistere

                                                                                                               

però, dobbiamo riconoscere il momento il cui il discorso legittimo si costituisce come tale, in cui la performatività si attua.

Secondo Butler, Bourdieu, ha riconosciuto nella pratica linguistica un’efficacia che deriva dal campo e non dal discorso pronunciato in quanto tale, quindi dal codice di semantizzazione che questo discorso accoglie, ma fa poi l’errore di tenere separate le pratiche linguistiche da quelle sociali, come fossero momenti indipendenti e non indaga fino in fondo la performatività del discorso linguistico, azione per Butler imprescindibile.

Nominare significa far esistere, richiamare all’attenzione, dare identità, ma Bourdieu sembra riprodurre nella separazione fra linguistico e sociale, quelle dicotomie che ha, nelle sue analisi, cercato di scardinare. L’habitus linguistico della performatività è, per Bourdieu, l’habitus dei discorsi ufficiali, quelli che legittimano e autorizzano. È in questo tipo di discorsi che emerge la natura sociale del linguaggio, poiché l’autorità di un discorso non proviene dal contenuto specifico o dalla sua forma, ma dal contesto, dalla “magia sociale” che lo mobilita, lo riconosce e gli crede.

Nel testo bourdeusiano Langage et Pouvoir symbolique, Butler riscontra delle ambiguità quando si parla dell’eterogeneità interna al linguaggio. Il problema è costituito a suo avviso, dal fatto che Bourdieu sembra dotare lo status di eterogeneità di caratteri ontologici. Il termine status, accostato a quello di eterogeneità, è quantomeno qualcosa di ambiguo, che sembra voler sostanzializzare un contrasto che non aveva, secondo la filosofa, necessità di essere posto. Così facendo, Bourdieu torna a separare, per quanto riguarda la performatività dei discorsi legittimi, le disposizioni linguistiche dal campo linguistico. Quando il sociologo parla dell’habitus linguistico, cosa intende? Esiste un habitus linguistico diverso da quello sociale? È l’habitus qualcosa di sostanziale e non più relazionale? Sembra che Bourdieu si riferisca a una capacità

linguistica infinita che si attualizza e limita nella capacità sociale di usarla in certi contesti dati. Quello che Butler ritiene problematico nell’analisi di Bourdieu, è il suo tentativo di rendere sostanziale il linguaggio pur definendolo come un atto di magia sociale (che quindi dal sociale dipende e in virtù del quale esiste).

Se il soggetto è sempre all’interno del condizionamento del campo, e questo condizionamento si struttura nell’habitus, perché per quanto riguarda il linguaggio, Bourdieu pone il soggetto che si posiziona in maniera esteriore e strumentale con il linguaggio stesso? Il senso pratico di Bourdieu, per esempio, dovrebbe essere, ad avviso di Butler, già una nozione complessa e varia di per sé e, nelle pratiche e strategie sociali, dovrebbe già essere implicito l’utilizzo della performatività linguistica come strumento. Perché allora il discorso ricopre un ruolo particolarmente importante tanto da sembrare tratto fuori dalla relazionalità costitutiva in cui Bourdieu chiama tutto in causa? Sembra che il linguaggio vada a costituire il contesto sociale dall’esterno e così facendo, rischia di riprodurre il modello base/sovrastruttura secondo il quale la linguistica diventa qualcosa di epifenomenico. Gli atti performativi, in che misura, come e perchè, possono allora essere degli atti di magia sociale che devono tutto al codice nel quale sono inseriti e tramite il quale vengono poi decodificati? Sempre in Langage et pouvoir symbolique, si afferma che l’uso del linguaggio (più che il linguaggio stesso) riproduce ed è organizzato attraverso sistemi di differenze che riproducono la divisione sociale.

La performatività diventa importante e significativa, realizzandosi, solo nei discorsi di autorità: nei discorsi legittimi. Quindi Bourdieu lega la questione della per-forma, del far esistere, principalmente ai discorsi pubblici a quelli che, non solo fanno esistere, ma istituzionalizzano pronunciando. Butler s’interroga anche su quest’aspetto:

If the performative must compel collective recognition in order to work, must it compel only those kinds of recognition that are already institutionalized, or can it also compel a critical perspective on existing institutions?116

La performatività obbliga a riconoscere collettivamente e quindi a legittimare, nell’ottica bourdeusiana. Ma questo significa che debbano essere necessariamente riconosciuti eventi, fatti, realtà già istituzionalizzate, oppure si tratta anche della possibilità di riconoscere collettivamente la prospettiva critica di queste istituzioni? È possibile, in merito alla performatività, compiere un atto di magia sociale che faccia esistere e riconoscere un atteggiamento critico?

È in ciò che Bourdieu non mette a punto fino in fondo, che Butler rintraccia l’atteggiamento etico che urge adottare. Il punto principale dell’analisi di Bourdieu, è che l’efficacia performativa del linguaggio, non derivi dal discorso in quanto tale, ma dalle condizioni istituzionalizzate che producono e ricevono le pratiche linguistiche. La sacralità dell’oggetto linguistico è esterna ad esso in questo senso. Il dominio nel sociale, non si limita al momento dell’atto linguistico e rituale che lo legittima. Questo perché il momento della riconoscenza pubblica è un momento discontinuo e verticale che legittima appunto, una struttura che si crea continuamente in maniera orizzontale nel campo. Bourdieu descrive l’habitus e il rito di istituzionalizzazione, che si attua tramite il discorso performativo, nei termini temporali della stratificazione storica; mentre il campo e il dominio oggettivo, sono descritti nei termini spaziali della compresenza. È forse questo lo status di eterogeneità del linguaggio di cui prima abbiamo parlato? Butler ci ricorda, in questo testo, che non sono performativi solo gli atti di riconoscimento ufficiale. Esistono tutta una serie di atti performativi interni

                                                                                                               

all’habitus, che ne costituiscono la permanenza, che non sono frutto di un discorso ufficiale.

La performatività è in larga parte una modalità pratica di costituzione e ricostruzione del soggetto, proprio perché è capace di far esistere senza determinare a priori il contenuto di quest’esistenza. La mancanza di sostanzialità, al di là di un primo momento di smarrimento, è anche l’occasione di cui abbiamo bisogno:

In this sense that the performative calls to be rethought not only as an act that an official language-user wields in order to implement already authorized effects, but precisely as social ritual, as one of the very “modalities of practices [that] are powerful and hard to resist precisely because they are silent and insidious, insistent and insinuating […] the social performative is a crucial part not only of subject formation, but of the ongoing political contestation and reformulation of the subject as well. In this sense, the performative is not only a ritual practice: it is one of the influential rituals by which subjects are formed and reformulated.117

Quando Austin cerca di definire la specificità degli atti linguistici performativi, rimarca la difficoltà di distinguere nettamente gli enunciati descrittivi da quelli performativi. La maggior parte delle asserzioni di cui ci serviamo, sono ambigue:

Spesso troviamo da un lato un enunciato performativo evidentemente puro e dall’altro enunciati ad esso chiaramente connessi che non sono performativi ma descrittivi. Inoltre, ci sono numerosissimi casi intermedi che non sappiamo affatto classificare con sicurezza. Alle volte sono chiaramente usati in un modo, altre volte nell’altro modo, ma altre ancora sembrano rilevare una positiva ambiguità.118

                                                                                                               

117 Ivi, cit. pag. 125.  

L’enunciato performativo si estende, in una certa misura, oltre i suoi limiti, crea una

Documenti correlati