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Il dominio nel simbolico. Un itinerario nel pensiero di Bourdieu, Butler, Benjamin.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in Filosofia e Forme de Sapere Tesi di Laurea Magistrale

Per una critica del dominio

Un itinerario nel pensiero di Pierre Bourdieu, Judith Butler e

Jessica Benjamin

Candidata: Relatore:

Carlotta Caciagli Prof.ssa Paola Bora

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Indice 1

Introduzione 3

Capitolo 1: Il dominio nel sociale: itinerario nel pensiero di Pierre Bourdieu 1.1. Pierre Bourdieu. Questa non è un’autobiografia 13

1.2. Decodificando Bourdieu: concetti introduttivi 17

1.2.1. Lo spazio sociale 1.2.2. Classi e gruppi di agenti: pensare il collettivo 1.2.3. Una microfisica del simbolico: la teoria dei campi 1.2.4. L’habitus e la storicità della natura 1.2.5. Giocare il sociale: il senso pratico 1.2.6. Illusio e Capitale 1.3. Una sociologia del dominio: violenza simbolica, legittimità e misconoscenza 57

1.4. Modi e forme di dominio 71

1.4.1. L’esempio del dono 1.4.2. Il dominio maschile 1.5. Restare aperti alla resistenza. Una teoria non sviluppata 98

Capitolo 2. Il dominio nel corpo: Judith Butler e la performatività del simbolico 2.1. Rivendicando Antigone: ovvero il simbolo che vacilla 110

2.2. La violenza simbolica del sesso: dare forma al corpo 124

2.3. Il corpo legittimo e dissimulato: dimenticarne la storia 136

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Capitolo 3: Il dominio nell’Io: Jessica Benjamin e le relazioni d’amore

3.1. Il dominio intrapsichico: la relazione soggetto-oggetto 166

3.2. Limitare il sé. Le relazioni di non-dominio 174

3.3. La differenziazione intersoggettiva: la relazione soggetto-soggetto 188

3.4. Il genere che domina 192

3.5. Ripensare il desiderio femminile: tecniche di resistenza 199

Note conclusive 211

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Introduzione

Questo lavoro di tesi si configura come un itinerario attorno alla tematica del dominio e all’interno del pensiero di tre autori: Pierre Bourdieu, Judith Butler e Jessica Benjamin. È opportuno spiegare in via preliminare quale siano gli obiettivi e gli oggetti concettuali che mi interessa far emergere dalla seguente trattazione. Innanzitutto non vi è la pretesa di ripercorrere tutti gli aspetti delle analisi rispettivamente sociologiche, filosofiche e psicanalitiche dei tre; ma esiste invece una scelta di fondo che mi ha permesso di fare emergere e analizzare quei concetti che sono stati funzionali alla mia ricerca.

Il mio lavoro va letto perciò come frutto di una scelta metodologica e teorica ben precisa, e non secondo uno spirito di completezza e finitudine. Il nucleo concettuale attorno al quale ruota la tesi è quello del dominio e, successivamente, delle possibilità della resistenza. Analizzare l’uno non può non comportare parlare dell’altro, data la loro costitutiva interdipendenza e il loro implicarsi a vicenda.

Prendere in considerazione le analisi svolte da questi tre autori, mi ha permesso di pensare al dominio e alle sue possibili negazioni come a un’urgenza teorica, e pratica insieme, che si realizza nella forma dell’interdisciplinarietà.

Mi sono accostata al pensiero di Pierre Bourdieu in realtà non molto tempo fa, lo scorso inverno, durante il mio soggiorno con il programma Erasmus, in Francia, a Rouen, dove ho avuto modo di partecipare a molte conferenze e giornate di studi dedicate al sociologo francese. La conoscenza del pensiero di Judith Butler e Jessica Benjamin invece, viene da un po’ più lontano, ed ha caratterizzato il mio percorso accademico durante questi cinque anni universitari, in maniera piuttosto importante. In un certo senso quindi, una ricerca simile costituisce per me la conclusione di un

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percorso di studi ma anche lo stimolo intellettuale per non chiuderlo mai del tutto, per non giudicarlo finito e completo in sé.

La tesi risulta divisa in tre capitoli: il primo si concentra prevalentemente su riflessioni più strettamente dipendenti dalle opere di Bourdieu, il secondo su quelle relative a Butler e il terzo fa riferimento a Benjamin. Il primo capitolo è il più corposo, poiché riferirsi ad alcuni concetti utilizzati dal sociologo francese necessita di chiamarne in causa altri che sono da questi dipendenti. Il lessico di Bourdieu è fortemente codificato, quindi mi sono vista costretta a fare una panoramica sul suo pensiero, scegliendo poi di soffermarmi e approfondire gli aspetti delle sue analisi più strettamente collegati alla mia ricerca.

Ho deciso di fare riferimento a questi tre autori, perché ritengo che le loro particolari risposte, permettano di far emergere considerazioni relative al dominio e alla resistenza, capaci di farmi analizzare il problema da un punto di vista sociologico, filosofico e psicanalitico insieme: mettendo in pratica il superamento di una visione dicotomica e la realizzazione di un’interdisciplinarietà che non è importante solo da un punto di vista metodologico ma che diventa parte integrante dell’atteggiamento etico che si vuole proporre come risposta al dominio stesso.

È necessario per tanto, leggere gli studi che in questa tesi vengono presentano, non con lo scopo di rintracciare delle simmetrie nette o dei parallelismi fra i pensieri di questi tre autori, ma nell’ottica di un arricchimento e di un’intersezione di concetti, tesa a mettere in discussione, criticare e aprirci a possibilità nuove su cui penso sia importante per noi oggi riflettere.

Per lo stesso motivo, anche se i tre protagonisti della mia tesi condividono un rapporto significativo con Michel Foucault, ho scelto di trattare le rispettive analisi come relativamente indipendenti rispetto alle riflessioni del filosofo francese. Nella mia

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tesi, il pensiero capitale di Foucault rimane un riferimento importante e uno sfondo teorico imprescindibile ma spesso nascosto; questo perché ho inteso parlare delle opere dei tre nella loro parziale autonomia, metterle in gioco in un’ottica di complessità e non in una che li riduca a “scuse teoriche” per parlare di qualcos’altro. La scelta che ho fatto di prendere in considerazione Bourdieu, Butler e Benjamin, può sembrare arbitraria in alcuni momenti, ma credo che questa preferenza ci dia non solo la possibilità di analizzare la questione attraverso punti di vista diversi, ma che ci metta anche di fronte alla necessità di trattare questi punti di vista come irriducibili l’uno all’altro, spingendoci a pensare in termini comparativi e trasversali.

Il linguaggio usato da Bourdieu in quanto sociologo, è sicuramente diverso da quello usato da Butler in quanto filosofa e da Benjamin in quanto psicanalista, ma proprio in questa diversità, che pure riconosce delle similitudini potenti, si annida la possibilità di un’esperienza teorica importante per mantenerci attenti, vigili e svegli su un tema che, per costruzioni storiche e antropologiche precise, tende a nascondersi e farsi dimenticare come urgenza politica ed etica. I concetti fondamentali che permettono di far parlare Bourdieu, Butler e Benjamin all’interno di una stessa discussione sul dominio e sulla resistenza, sono i concetti di simbolico, violenza simbolica, misconoscimento e legittimità, che verranno sviscerati e “fatti parlare” nel corso della tesi.

Ma ancora di più, in via preliminare è l’impostazione teorica dei loro lavori che li avvicina in maniera significativa: è fondamentale, per dare delle risposte, porre le giuste domande, farlo cioè abbandonando la tentazione parlare tramite degli aut-aut, di strutturare un discorso come una scelta da compiere fra due alternative e rendere complesso il quadro di riferimento. Dobbiamo pensare e pensarci oltre i dualismi che hanno a lungo schiavizzato il pensiero occidentale e riconoscerci nel nostro essere

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implicati, presi dentro, trascesi e messi in gioco in una dimensione complessa che ci obbliga a vedere sempre oltre, al di là e al di sotto del semplice schieramento che crediamo di dover assumere. È necessario pensare i confini nella possibilità semantica di cambiarli e reimpostarli, riconoscerli come arbitri che si sono storicamente dati ma che possono essere altrimenti. È necessario riconoscersi come costruzioni storiche e culturali, come sedimentazioni di azioni che non derivano dalla nostra volontà ma che in questo senso ci trascendono. Dare conto di sé da un punto di vista filosofico e psicanalitico non può essere separato dal dare risposta a un Io sociale:

E tuttavia non esiste nessun “io” che possa concepirsi come assolutamente separato dalle condizioni sociali del proprio emergere, nessun “io” che non sia implicato in un quadro di norme morali che lo condizionano, che cioè, in quanto norme, possiedono un carattere sociale che eccede ogni significato meramente personale e distintivo. […] In realtà, quando l’“io” tenta di dar conto di sé, quando cioè tenta di restituire un racconto che includa le condizioni del suo stesso emergere, dovrà necessariamente diventare un teorico sociale.1

L’Io è sempre un Io sociale, un Io costitutivamente permeato dal contesto che non solo lo modifica, ma lo rende possibile. Parlare del dominio e della resistenza non è mai un fatto solo privato, solo mentale o solo pubblico, ma è sempre tutto questo insieme. Resistere al dominio, significa innanzitutto porre le giuste domande su come una certa relazione, un modello di pensiero, si sia strutturato all’interno della società, fissandosi in uno stato di dominio. In prima e in ultima istanza è fondamentale chiederci quali siano le condizioni di possibilità che hanno reso una certa azione, e la sua conferma, un’azione plausibile ed effettiva. La domanda che pervade e anima la critica, è la stessa domanda che permette la resistenza e che anche io, ho cercato di porre continuamente come continuum delle mie analisi: come questo è stato storicamente possibile?

                                                                                                               

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Il dominio è tale, per tutti e tre questi autori, solo in seguito all’operazione di misconoscimento che nega la violenza fisica che ne è alla base e ne afferma un’altra di tipo diverso, nascosta e dolce: la violenza simbolica. Il simbolo per sua definizione realizza la forza performativa dell’invisibile che è sotteso al visibile: nasconde, mostra e allude a una dimensione altra che realizza la materialità dei corpi su un piano che non è materiale, ma appunto, simbolico.

In questo passaggio si realizza il dominio, sia da un punto di vista collettivo che individuale. La violenza simbolica permette di negare un dato come storico e arbitrario e di affermarlo come naturale, biologicamente dato, quindi legittimo. La legittimità è in definitiva, un sopruso e abuso dimenticato, che si forma, prima ancora di essere introiettato come struttura mentale, nella socialità dei rapporti umani. La drammaticità della nostra condizione di esseri umani, è che lo spettro della nostra dominazione incombe sempre perché permesso dalla dimensione simbolica, che è anche la condizione del nostro darsi come esseri sociali. Lo spazio sociale si dà nella misura in cui si è in grado (e si sente il bisogno) di negare un dato naturale e affermarne uno arbitrario; la proibizione dell’incesto descritta da Lévi-Strauss è alla base della cultura perché realizza proprio questo passaggio, reso possibile dal simbolo. Abbracciando la definizione che ne da Baudrillard:

Il simbolico non è né un concetto, né un’istanza o una categoria, né una “struttura”, ma un atto di scambio e un rapporto sociale che mette fine al reale, che risolve il reale e allo stesso tempo l’opposizione tra il reale e l’immaginario.2

Il passaggio dalla natura alla cultura, nella quale siamo da sempre già inseriti come esseri umani, avviene attraverso il simbolo, attraverso la sottrazione di noi stessi ai                                                                                                                

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determinismi della natura. Si entra nella storia e ci si rimane, attuando e confermando un’azione simbolica che ci nega come determinati e afferma i nostri atti come liberi, volontari. Se esiste una costante nella storia degli esseri umani, è proprio il continuo tentativo di strapparsi dai determinismi per affermare il possibile. L’azione di violenza che sta alla base del dominio deriva proprio dal misconoscimento dell’arbitrio della storia e della società e dal rivendicare un’azione in base alla sua naturalità intrinseca che ne giustificherebbe quindi, la legittimità.

Senza saperlo giustifichiamo la naturalità delle istituzioni inserendoci sempre in una dimensione simbolica che per sua definizione nega la natura. La società occidentale è sia da Bourdieu che da Butler che da Benjamin, riconosciuta come una società strutturata attraverso un dominio maschile che si basa sul riconoscimento dell’amore eterosessuale risolto tramite la triade edipica, come l’unico legittimo perché naturale. Sempre citando Baudrillard:

Tutto parla d’un processo simbolico opposto a un processo inconscio. Ciò che non emerge da nessuna parte nell’ordine primitivo, perché tutto vi è suddiviso e risolto socialmente, è la triade biologica della famiglia, sovradeterminata psichicamente raddoppiata nello psichico dal nodo dei fantasmi, il tutto coronato da questo quarto termine puramente “simbolico”: il fallo.3

Si permette il dominio nella misura in cui si è in grado di rifarsi al biologico, al reale, ma solo usando una violenza simbolica che questo reale, per definizione, nega. Quest’operazione di misconoscimento (nel linguaggio di Bourdieu) o di dissimulazione (nel linguaggio di Butler) che afferma una certa legittimità, è lo strumento teorico e pratico che sta alla base della strategia del dominio.

                                                                                                               

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In tutti e tre gli autori, si definisce una sorta di schema per il quale, la dimensione simbolica rappresenta l’orizzonte di possibilità del dominio e della resistenza; il misconoscimento e la legittimità sono gli strumenti attraverso i quali, la violenza simbolica che sta alla base del dominio, può affermarsi; e l’atteggiamento critico che pensa oltre i dualismi diventa la possibilità etica e teorica che abbiamo per reagire a questo dominio, per dire la nostra.

Bourdieu, riflettendo sulle condizioni di possibilità della società, Butler su quelle della materialità del corpo e Benjamin sulla possibilità della relazione di riconoscimento fra due soggetti, ci spingono attraverso percorsi diversi e simili a chiederci quali siamo strategicamente le domande che possiamo porci per rispondere a quest’azione violenta che, volente o nolente, ci caratterizza.

L’esigenza metodologica di pensare in termini relazionali e non sostanziali diventa quindi anche un’azione etica di resistenza, tesa a cercare delle risposte nella forma della critica vigile e costante sui limiti che ci definiscono e ci attuano nella nostra possibilità. Questa diventa, anche all’interno della mia tesi, una dichiarazione metodologica e di proponimento etico che ho tenuto presente e cercato di far emergere, oltre che nel contenuto delle mie analisi, anche nel modo con cui sono state condotte, realizzando il superamento dell’impostazione duale anche con il linguaggio attraverso il quale questo intento è stato veicolato.

La posizione di dominati e quella di dominatori è appunto una posizione, si struttura nello spazio, non è una realtà ontologica che ci appartiene alla stregua di un’essenza. Se il simbolico permette l’instaurarsi del dominio nella forma della ripetizione, pone anche l’azione della resistenza nella forma della possibilità. Negli scarti della norma, in quello che l’azione simbolica non riesce a recuperare, si annida la possibilità di una nuova simbologia, che non si configuri come una negazione di quella vecchia, ma che ne

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riprenda le possibilità inesperite e si affermi come l’esigenza etica di qualcosa di diverso. Se fra i dominatori e i dominati non esiste una differenza sostanziale ma relazionale, di posizione e di spostamento, così non esiste un’opposizione antitetica fra l’azione critica con la quale è opportuno approcciarci al dominio, e l’urgenza di un proponimento etico che affermi qualcosa di diverso.

Parlare di dominio pone in maniera costitutiva il problema della resistenza, di un atteggiamento pratico e teorico insieme, che non imponga un semplice ribaltamento o un cambiamento formale ma che permetta di pensarci nella dimensione dello spostamento continuo dei nostri limiti, sui nostri limiti, nei confini che ci determinano. Là dove, soprattutto nel pensiero di Butler, la performatività operata dal simbolico è la premessa di una violenza sul corpo, c’è anche la possibilità di recuperare lo stesso strumento volgendolo verso un atto diverso che anziché edificare, scardini, rompa, metta in discussione e riattivi tutte quelle possibilità che la storia, con il suo procedere, il suo scegliere e reificare sembra aver chiuso una volta e per tutte. Siamo permeati, costituiti, attraversati dal sociale, siamo sempre all’interno di un condizionamento perenne. Dunque non basta prendere coscienza di noi stessi, un’azione che resista deve fare qualcosa di più.

L’azione etica di cui abbiamo bisogno è appunto quella di una critica costante che ci permetta di riposizionarci sempre rispetto al ruolo in cui siamo inchiodati. Non basta chiamarsi fuori da un orizzonte che, anche nella forma dell’esclusione, continuerebbe a definirci. Urge posizionarci nel simbolico vedendone le potenzialità ulteriori, ripensandoci non come unità che fronteggiano un mondo che si dà, ma nella nostra implicazione costante e reciproca, accettandoci per i limiti che ci definiscono ma strappandoci alle determinazioni che ne derivano. Dovremmo essere in grado, in via preliminare ma anche come atteggiamento pratico, di vivere all’esterno di noi e poi

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all’interno, sperimentando la dimensione dell’asimmetria, rinunciando a tutti quei dualismi che, benché rassicuranti, rappresentano la condizione del dominio che abbiamo subito, esercitato ma soprattutto non riconosciuto come tale.

In conclusione, in questa tesi, il mio obiettivo è, oltre quello di illustrare un percorso preciso di ricerca attraversando il pensiero dei tre autori in questione, anche quello di attualizzare la metodologia dichiarata necessaria da Bourdieu, ovvero quella del superamento delle dicotomie, dello spostamento costante e del pensare sempre all’interno e oltre. Bisogna tenere presente che porre delle domande è già in parte, proporre delle risposte che valgono proprio perché si attuano nella forma della possibilità. Scegliere di privilegiare le prime rispetto alle seconde significa inserirsi in un orizzonte di pensiero che non cerca la risoluzione ma il mantenimento di aperture che si oppongono alla conclusione delle finitudine.

Chiederci, da un punto di vista politico ed etico cosa potremmo fare, in parte è già fare qualcosa, come dichiara Luisa Murano in un suo articolo:

Questo cambiamento della forma della domanda fa vedere alcune cose che altrimenti non si vedono. Vuol essere un cambiamento dello sguardo e più esattamente di prospettiva: dall’aspettarci o dal richiedere alla società dei cambiamenti all’assumere in proprio, in prima persona, il partire da sé.4

La mia intenzione è di riuscire, nel corso di questa tesi, ad operare un cambiamento di questo tipo: far emergere quelle che, a mio avviso, sono state le domande che hanno riattivato il concluso della storia e riattualizzarle oggi, in vista di un’azione etica che valga per noi oggi.

                                                                                                               

4 L. Muraro, La sapienza di partire da sè. Cambiare forma della domanda e riuscire a leggere quello che accade, in Saperi femminili nella scienza e nella società, cit. pag. 40.

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Questo lavoro è sicuramente pieno di concetti, spunti di riflessioni e critiche molto variegate e complesse che spesso possono far pensare a una pretesa ingiustificata di tenere insieme il tutto. Ritengo inevitabile un’operazione di questo tipo perché i concetti che chiamo in causa sono relazionali per loro definizione, implicano altre nozioni, le superano, le trascendono, le modificano e modificano se stessi attraversandole. In questo senso, sono i concetti stessi, a chiedere un’operazione metodologica di questo tipo: che metta in gioco e porti dentro.

Fare un’analisi teorica significa al contempo, fare un’azione pratica che ci chiama in causa non rispondendo a un progetto finito nella forma del dispiegamento, ma in quella dell’azione non mai completamente trasparente a se stessa e neppure esaustiva. D’altronde il vero grande pericolo della storia è proprio l’esaustività: la resistenza può darsi in maniera efficace solo nella forma del recupero degli scarti che realizza. E, se in questa tesi, decido di sacrificare un po’ di sistematicità, ciò è funzionale a fare emergere un orizzonte metodologico ed etico che forse, necessariamente, alla completezza si oppone.

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CAPITOLO I

Il dominio nel sociale: Itinerario nel pensiero di Pierre Bourdieu.

1.1. Pierre Bourdieu, Questa non è un’autobiografia5

Ripercorrere le tappe fondamentali della vita, accademica e privata, di Pierre Bourdieu, lo considero un lavoro necessario, non per tracciare una semplice biografia intellettuale, ma perché, come lui stesso ammette, il suo contributo filosofico e teorico è figlio di posizioni sociali particolari che, stratificatesi attraverso il tempo, ne sono state l’orizzonte di possibilità.

Pierre Bourdieu nasce il 1 agosto 1930, a Denguin, un piccolo villaggio nei pressi di Béarn, alle pendici dei Pirenei. L’estrazione popolare di Bourdieu (il padre era un agricoltore locale) ha caratterizzato in maniera indicativa il suo percorso accademico, determinando il suo sentimento di esclusione e insieme appartenenza all’ambiente universitario e caratterizzando l’atteggiamento mentale al limite, sia della sociologia che della filosofia. Il percorso culturale di Bourdieu è da subito caratterizzato da una discontinuità, da un elemento di cesura: rompe con l’orizzonte rurale nel quale era nato per entrare in quello della scuola e del sapere colto del corso preparatorio per l’ammissione all’École Normale Supérieure di rue d’Ulm nel 1951. La scuola, da sempre frequentata da figli di genitori già facenti parte di quell’élite, pone il giovane Bourdieu in una condizione di apolide, di straniero, di “oblato”6, rispetto a quel nuovo

                                                                                                               

5 Relativo al testo Esquisse pour une auto-analyse, Raisons d’agir, Paris, 2004, trad. it. Questa non è un’autobiografia, Elementi di autoanalisi, Feltrinelli, Milano, 2005.  

6 Il termine di oblato viene riferito a Bourdieu da Giorgio Marsiglia nel suo testo Pierre Bourdieu, una teoria del mondo sociale, Cedam, Padova, 2002. Il termine è usato da Bourdieu stesso in Homo

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contesto sociale e contribuisce a creare, il suo spirito critico, coinvolto e distante allo stesso tempo, caratteristico del suo atteggiamento filosofico e sociologico. È durante l’École, che Bourdieu matura l’intolleranza per un eccessivo tradizionalismo e accademismo tipici dell’offerta formativa francese, che lo portano ad indirizzarsi piuttosto verso i corsi di epistemologia e storia della scienza.

In questi anni sono fondamentali le influenze del pensiero dell’epistemologo Gaston Bachelard e del filosofo della scienza George Canguilhem, ma anche della fenomenologia di Husserl, Heidegger e Merlau-Ponty e in una certa misura, diviene significativa anche la figura di Sartre, se non per un’adesione convinta alla filosofia del soggetto, almeno per il ruolo di intellettuale impegnato proposto dal filosofo esistenzialista al quale Bourdieu si sentiva, in un primo momento, vicino. Nel 1955 consegue l’agrégation, licenza per l’insegnamento liceale e universitario, che gli permette di insegnare per un anno filosofia nel liceo di Moulins. Nello stesso anno progetta la stesura di una tesi di dottorato sulla fenomenologia sotto la supervisione di Canguilhem, che però non vedrà la fine per la decisione di Bourdieu di abbandonare la filosofia per la sociologia, disciplina alla quale si avvicinerà nel ruolo di etnologo7. Dal 1956 al 1958 Bourdieu eseguirà il servizio militare in Algeria, proprio mentre la guerra d’indipendenza era al culmine del suo svolgimento. Sarà proprio quest’esperienza, a produrre molte delle ricerche che lo impegneranno per lunga parte della sua vita, come appunto, lo studio dell’Algeria e della società Kabilia.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    academicus e in La Noblesse d’État, per rilevare la condizione di esterno nella quale si è sempre sentito

in rapporto al mondo accademico di cui faceva parte.  

7 Dobbiamo tenere presente che negli anni cinquanta in Francia, la sociologia non era ritenuta una

disciplina tanto prestigiosa quanto la filosofia e molti autori hanno letto in questo passaggio un intento trasgressivo del sociologo. L’entrare a far parte delle scienze sociali come etnologo, caratterizza Bourdieu ancora una volta come uno straniero, come uno studioso al limite, dentro e fuori il contesto specifico nel quale era immerso. L’etnologia infatti, era, fra tutte le scienze sociali, quella tenuta maggiormente in considerazione. Benché Bourdieu si sia chiamato fuori dalla categoria dei filosofi, si sentirà comunque sempre, in una certa misura, di farne parte.  

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Finito il servizio militare, deciderà di restare per altri due anni in Algeria, come assistente della facoltà di lettere all’università di Algeri. Questi due anni, successivi al servizio militare, lo accostano al punto di vista propriamente sociologico e contribuiscono in maniera rilevante alla formazione della sua particolare metodologia di ricerca sociologica e antropologica. È proprio lo studio dell’universo della società kabyle che induce Bourdieu a pensare all’oggettivazione operata dal sociologo come un problema epistemologico importante. Nel 1960 rientrerà definitivamente in Francia dove, grazie alla vicinanza con Raymond Aron che lo vuole come suo assistente alla Sorbona, diventa ufficialmente un sociologo. Bourdieu approfondirà in questo periodo la conoscenza di Durkheim e Weber, sviluppando una lettura personale e critica dei due studiosi. Nel 1962 ottiene l’insegnamento di sociologia all’università di Lille e nel 1964 diventa direttore della sezione di scienze sociali dell’École Pratique des Hautes Études, nomina che darà al sociologo le basi istituzionali per condurre e sviluppare le proprie ricerche. Sempre nel ’64, gli viene affidata la direzione del Centre de Sociologie Européenne che sotto la sua guida diventa il punto di incontro di un gruppo di collaboratori a lui molto vicini. Lavori come Les Héritiers, sono figli di ricerche che si sono sviluppate proprio in questo centro. Nel 1970 viene pubblicata La Réproduction, testo cardine che rappresenta la summa delle ricerche condotte nel decennio che si stava chiudendo.

Gli anni settanta vedono Bourdieu impegnato nell’elaborazione di quella “Teoria della pratica” che sarà poi uno dei nuclei concettuale della sua sociologia e che si esplicherà nel 1980 con Le sens pratique, testo fondamentale sia dal punto di vista dell’elaborazione teorica che da quello della riflessione metodologica (aspetti che nel pensiero di Bourdieu devono restare necessariamente collegati). Nello stesso periodo Bourdieu inizia a pensare ed elaborare la sua teoria dei “campi” che sfocerà in una serie

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di ricerche empiriche che saranno pubblicate a partire dal 1975 nella rivista Actes de la recherche en sciences sociales fondata e diretta da lui. Nel 1979 esce La Distinction nella quale sono espresse le maggiori concettualizzazioni di Bourdieu nel campo dell’educazione e dei consumi culturali. Nel 1982, all’apice della cultura e del riconoscimento accademico, è chiamato a succedere Aron alla cattedra di sociologia del Collège de France, ruolo che ricoprirà fino al 2001. Nel 1987 e nel 1992 vengono pubblicati due testi che permetteranno la diffusione del suo metodo sociologico, Choses dites e Réponses. Homo academicus, nel 1984, sarà invece, il testo che servirà a chiarire molto del suo controverso rapporto con l’istituzione accademica. Questi, sono anni d’intensa produzione letteraria, nei quali Bourdieu esprimerà molte questioni maturate nel corso degli anni e che non avevano ancora trovato una piena attuazione. Fondamentali, per esporre i punti chiave della sua teoria dell’azione, sono le conferenze tenute all’École Pratique des Hautes Études che Bourdieu radunerà nel testo Raisons pratiques nel 1994. In seguito, vi sarà la stesura del testo Méditations pascaliennes del 1997 nel quale Bourdieu traduce, in un linguaggio più strettamente filosofico, molte delle sue concezioni sociologiche per proporre l’esigenza di una stretta collaborazione fra le due discipline.

Altro importante traguardo è rappresentato dal testo Les structures sociales de l’économie (2000), frutto di una serie di indagini di mercato inquadrate in un’esposizione di antropologia economica. Nell’ultima fase della sua produzione, sono da segnalare testi come La domination masculine (1998) nel quale il rapporto uomo- donna è analizzato alla luce della sua teoria del potere simbolico, e La misère du monde (1993), in cui si trattano varie esperienze di miseria sociale della contemporaneità. È negli anni novanta che Bourdieu si dedica anche all’aspetto, se vogliamo etico del fare

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sociologia, iniziando a vedere questa disciplina nella sua carica liberatrice, capace di portare alla luce le forze sociali che sono state a lungo ignorate nella loro storicità.

Molte possibilità della ricerca sociologica di Bourdieu rimarranno per lui inesplorate: il sociologo morirà il 23 gennaio 2002 a Parigi dove è oggi sepolto nel cimitero di Pére Lachaise.

1.2. Decodificando Bourdieu: Concetti introduttivi.

Benché questa tesi si sviluppi, come ho spiegato nell’introduzione, attorno alle opere di tre autori, è principalmente in riferimento alle ricerche e teorie di Bourdieu che intendo condurre la mia analisi. Quello che mi sono proposta di fare, non è un’esposizione esaustiva della sociologia di Pierre Bourdieu, né un tentativo di ripercorrere le sue idee in maniera organica. Per questo il mio lavoro può risultare poco sistematico e a tratti confuso. Tale mancanza di disciplina è data in parte dalla difficoltà di trattare nozioni e concetti in relazione a più autori, in parte dalla complessità del lavoro sociologico di Bourdieu che spesso, sfugge per sua costituzione a tentativi di organicità e sistematizzazione. Questa premessa per spiegare che non c’è, nel mio lavoro, una pretesa di completezza per quanto riguarda le tematiche indagate da Bourdieu o l’esplicazione di tutte le sue elaborazioni, ma c’è piuttosto una scelta di fondo che mi fa leggere e soffermarmi su quei concetti e quegli aspetti che mi sono funzionali a far emergere quelle domande (e risposte) che mi hanno più interessato e che rendono ragione, a mio avviso, del senso ultimo del lavoro di Pierre Bourdieu, da un punto di vista filosofico e non solo.

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Cos’è la società? Come si struttura? Quali sono i principi, le motivazioni, le dinamiche con le quali l’essere umano agisce nello spazio sociale? In che relazione stanno? Che tipo di rapporti mettono in atto? Quanto c’è di libertà e quanto di determinazione nel nostro essere sociali? In che modo possiamo cambiare o perpetuare la nostra posizione all’interno dell’universo sociale? Queste sono alcune delle domande attorno alle quali si sviluppa il pensiero e la ricerca di Pierre Bourdieu, ma non sono le sole. Qual è il ruolo del sociologo? Quali sono le sue possibilità, le risposte che può dare? A cosa serve la sociologia? Come può liberarci? Come può riconoscersi nella sua storicità senza distruggersi? Qual è il metodo attraverso il quale possiamo anche solo pensare di fare sociologia? Quali sono le reimpostazioni metodologiche alle quali il sociologo deve sottostare per costruire una sociologia di tipo diverso? Le domande ontologiche non possono mai essere separare da quelle metodologiche in Bourdieu, e le sue intuizioni e risposte sono sempre epistemologiche e gnoseologiche allo stesso tempo.

Per quello che ho potuto, all’interno dei limiti di una tesi che necessariamente rimane confinata nell’ambito teorico, ho cercato di attualizzare il superamento di una visione dualistica e rigida che tradirebbe il senso dell’analisi di Bourdieu. Sono dunque l’aspetto e le implicazioni più profondamente filosofiche della sua sociologia ad interessarmi, ma sempre nella loro componente relazionale, sempre in quanto domande e tematiche filosofiche che si confrontano con la psicologia, la sociologia, la scienza. Molti studiosi hanno ritenuto che la teoria sociologica di Pierre Bourdieu ruotasse attorno a dei concetti, numerabili sulle dita di una mano, che costituirebbero i nuclei tematici innovativi attraverso cui leggere le sue considerazioni sociologiche. Prima di avvicinarci alle opere di quest’autore complesso – proprio perché non confinabile all’interno di una singola disciplina – è necessario fare delle scelte metodologiche e

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rivedere il nostro approccio epistemologico verso i suoi testi, come lui non manca di suggerire. Infatti, anche se molti dei temi su cui Bourdieu si sofferma, non sono nuovi, soprattutto nel panorama culturale della Francia degli anni settanta (le teorie del potere per esempio), è del tutto nuova la lettura e l’atteggiamento critico con il quale vengono da lui interpretati e collocati all’interno delle sue teorie8.

Il concetto stesso di teoria e teorizzazione deve essere usato con estrema cautela in questa sede, perché rischia di distorcere o contraddire tutto il senso del suo lavoro. Quando Bourdieu parla di “Teoria della pratica”, e non in maniera marginale e sporadica, enuncia una delle chiavi di lettura dell’universo sociale che è una delle più caratteristiche della sua analisi. Facendo una teoria della pratica, Bourdieu dichiara l’esigenza di non ridurre mai la pratica ad essere l’incarnazione deliberata di un momento teorico ma a trattarla in tutta la sua autonomia e indipendenza. La logica che anima la pratica, che è fondamento dell’agire dell’uomo nella società, segue un percorso e delle costanti proprie, che non sono riducibili a una spiegazione teorica e perciò, astratta. Fare una teoria della pratica, deve significare domandarsi quali siano le modalità, le significazioni, le esigenze e i perché dell’agire dell’uomo attraverso la società e, quindi, nella storia, e non cercare di semplificare la complessità dell’azione umana attraverso una decodificazione teorica, leggendola cioè, come la realizzazione di un momento razionale e astratto. Tra l’elaborazione teorica e la messa in atto della pratica, esistono delle relazioni complesse di spostamenti e rimandi, di implicazioni ed

                                                                                                               

8 La vicinanza per esempio tra Bourdieu e Michel Foucault, può sembrare evidente soprattutto quando il

sociologo parla di esplicitamente di relazioni di potere e si inoltra nella tematica della sessualità. Se è vero che per molti aspetti è possibile condurre un discorso in parallelo sui due pensatori, sono piuttosto contraria ad una loro lettura troppo ravvicinata ed è per tale motivo che ho cercato di dirigere questa tesi verso un’impostazione di ricerca di tipo diverso. Non perché un confronto non sia possibile o utile, quanto piuttosto per scongiurare il rischio nel quale si incorre troppo sovente, ovvero quello di appiattire o ridurre le teorie bourdieusiane su quelle del filosofo francese. Nonostante la sensibilità che li avvicina, ho cercato di rifarmi il meno possibile al lessico foucaultiano, citando Foucault non molto spesso, per rimarcare l’autonomia e l’autosufficienza del pensiero di Bourdieu che, benché deva molto a conoscenze ampie e varie, può e deve essere analizzato senza stampelle concettuali che lo vogliano legittimare o giustificare.  

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esclusioni che fondano in maniera costitutiva sia l’uno che l’altra. Il modo nel quale agiamo nella società non è semplicemente razionale o privo di logica, è un misto dell’uno e dell’altra, è qualcosa di complesso e dettagliato non riducibile ad un atto razionale e cosciente. Parlando dell’esigenza di una teoria della pratica, Bourdieu si sposta su un terreno che non è propriamente dell’una e dell’altra, situandosi proprio in quello scarto che secondo lui è caratteristico della nostra dimensione sociale. Possiamo capire tutto ciò, se accettiamo di ri-semantizzare le nostre prospettive, le nostre domande, i nostri concetti e se siamo disposti a situarci oltre quelle dicotomie che, secondo Bourdieu, hanno a lungo impedito di comprendere le norme attraverso le quali, l’uomo si costituisce come agente sociale, impedendoci di porci le vere domande. Per comprendere le motivazioni che sottendono all’azione dell’uomo nella società, dobbiamo abbandonare un’altra dicotomia classica, quella tra soggettivismo/oggettivismo e rinunciare all’impostazione dualistica che è stata a lungo cara alla tradizione filosofica.

L’essere umano non agisce in piena libertà nella società, non è semplicemente un soggetto che conosce ed esperisce una realtà che gli si oppone come data; e non è nemmeno un oggetto semplice di conoscenze o progetti altrui. Tra le due istanze, ne esiste una terza, in cui si attua un’interazione di fondo, di tipo relazione, ancestrale e costitutiva che Bourdieu spiegherà con alcuni dei suoi concetti fondamentali, come quello di Habitus, di Campo e di Capitale. Lo spazio sociale è complesso e complessizzabile proprio perché esiste, oltre alla nostra esigenza di dividere e codificare, uno scarto che resiste alle riduzioni e ci determina nel nostro essere storici. Possiamo avvicinarci a Bourdieu solo se siamo in grado di rinunciare a questa esigenza di semplificazione e pensare in termini comparativi, se siamo disposti a porre in primis le giuste domande piuttosto che a cercare le giuste risposte, solo se siamo capaci di

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pensare l’essere umano nella sua dimensione propriamente filosofica, sociologica, storica e antropologica insieme.

1.2.1. Lo spazio sociale

La construction d'une théorie de l'espace social suppose une série de ruptures avec la théorie marxiste. Rupture avec la tendance à privilégier les substances—ici les groupes réels dont on prétend définir le nombre, les limites, les membres, etc.— au détriment des relations et avec l'illusion intellectualiste qui porte à considérer la classe théorique, construite par le savant, comme une classe réelle, un groupe effectivement bilisé ; rupture avec l'économisme qui conduit à réduire le champ social, espace multidimensionnel, au seul champ économique, aux rapports de productionéc onomique, ainsi constitués en coordonnées de la position sociale ; rupture enfin avec l'objectivisme, qui va de pair avec l'intellectualisme, et qui conduit à ignorer les luttes symboliques dont les différents champs sont le lieu et qui ont pour enjeu la représentation même du monde social et notamment la hiérarchie au sein de chacun des champs et entre les différents champs.9

Bourdieu pensa lo spazio sociale attraverso una serie di rotture e presuppone la ri-semantizzazione di concetti storicamente noti. È necessario, secondo Bourdieu, rinunciare a considerare le classi teoriche come classi reali, alla stregua del marxismo; rompere con l’economismo che riduce il campo sociale al campo economico e infine prendere nuovamente le distanze rispetto all’oggettivismo, che ignora il peso e l’importanza delle lotte simboliche nella costituzione di quest’universo condiviso.

È piuttosto difficile che Bourdieu utilizzi il termine “società”. Si legge più spesso l’espressione “spazio sociale”, “universo del sociale” o “i campi del sociale”, e non                                                                                                                

9 P. Bourdieu, Espace social et genèse des classes, in Actes de la recherche en sciences sociales, 1984,

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soltanto per un motivo stilistico, ma perché questa scelta di linguaggio esprime la scelta concettuale di pensare alla società e di analizzarla, non in termini sostanzialistici ma relazionali:

Le mode de pensée substantialiste qui est celui du sens commun – et di racisme – et qui porte à traiter les activités ou les préférences propres à certains individus ou certains groupes d’une certaine société à un certain moment comme des propretés substantielles, inscrites une fois pour toutes dans une sorte d’essence biologique ou – ce qui ne vaut pas mieux – culturelles, conduit aux mêmes erreurs dans ka comparaison non plus entre sociétés différentes, mais entre périodes successives de la même société.10

Pensare alla società in termini sostanziali, significa fare un’astrazione, considerarla immobile, statica, iscritta una volta per tutte all’interno di un’essenza, biologica o culturale, che ne costituisce il senso; questo esprime la necessità del teorico che a posteriori la tematizza, senza rendere ragione delle modalità del suo farsi. L’esigenza di pensare in questi termini nasce da un intellettualismo caratteristico, secondo Bourdieu, di una tradizione filosofica, quella scolastica, fondata sul riconoscimento delle dicotomie: universale - particolare, res cogitas – res extensa, teoria- pratica, che lascia fuori, taglia tutta una serie di sfumature e differenze che sono invece costitutive della nostra dimensione umana, sia come soggetti etici sia come agenti sociali.

L’atteggiamento sostanzialistico opera una riduzione: non ci permette di riflettere in termini comparativi, ci induce a guardare alle varie organizzazioni come figure più o meno arretrate della nostra particolare struttura sociale. Questo procedimento indebito, preclude al sociologo quelle stesse possibilità che è invece suo compito analizzare11.

                                                                                                               

10 P. Bourdieu, Raisons pratiques. Sur la théorie de l’action, Seuil, Paris, 1994, cit. pag. 18.  

11 Tale atteggiamento è espressione di una particolare figura intellettuale, analizzata esempio da

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L’incapacità di pensare la differenza come costitutiva della nostra dimensione di esperienza, è sintomo di una più ampia e costitutiva incapacità simbolica di vivere tale differenza senza il bisogno di ridurla o correggerla.

La dimensione sociale, come vedremo meglio in seguito, è quella propriamente simbolica e imparare a gestire il simbolo, a pensare attraverso forme metaforiche dovrebbe avere in realtà la funzione di dotarci di strumenti capaci di collocarci in una visione delle cose orizzontale piuttosto che verticale. Fare i conti con il simbolo deve significare accettare l’impossibilità di ridurre i molteplici significati ad una sola manifestazione possibile, ammettere la simultanea espressione di sensi e opzioni che non necessariamente sono esauribili in un unico registro semantico. La nozione di spazio sociale, ha bisogno di quella di scarto e differenza che invece il termine “società” vorrebbe correggere o relegare. Tradizionalmente, la società e quindi noi all’interno di essa, ci siamo adoperati per relegare, confinare, porre lontano dagli occhi e dal cuore quegli elementi di disturbo che potevano metterne in questione uno svolgimento corretto e piano.

I manicomi, le carceri, sono istituti che sorgono lontano dai centri abitati, ai margini della città, nelle periferie. Questo perché si è pensata la deviazione, l’incorreggibilità come una perversione, come l’errore naturale che bastava confinare per dimenticare e non come la messa in discussione e il limite della struttura che le accoglie e in base alla quale vengono definite “devianze”. Non siamo stati storicamente in grado di rapportarci ai cosiddetti “scarti” guardandoci in faccia e ammettendoli come una parte costitutiva della nostra umanità.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    nel corso soprattutto del 900 si sono misurati con realtà sociali e culturali diverse, senza tuttavia essere in grado di pensare la differenza senza ridurla a un’idealizzazione di uno dei due soggetti in gioco.  

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Cette idée de différence, d’écart, est aufondement de la notion même d’espace, ensemble de positions distinctes et coexistantes, extérieures les unes a les autres, définies les unes par rapport aux autres, par leur extériorité mutuelle et par des relations de proximité, de voisinage ou d’éloignement et aussi par des relations d’ordre, comme au-dessus, au-dessous et entre ; nombre des propriétés, des membres de la petite- bourgeoisie peuvent par exemples se déduire du fait qu’ils occupent une position intermédiaire entre les deux positions extrêmes sans être identifiables objectivement et identifiés subjectivement ni à l’une ni à l’autre.12

Il concetto di posizione, diventa fondamentale in Bourdieu. Se lo spazio sociale è tale perché vi sono degli agenti che lo effettuano, la sua struttura non è determinata tanto dalla specificità dell’agente, quanto dalle posizioni che gli agenti occupano e dalle relazioni che le une intrattengono con le altre. La sociologia di Bourdieu è meglio definita come una topologia sociale, nella misura in cui analizza le modalità, le regolarità e le discontinuità attraverso le quali gli agenti e i gruppi di agenti vanno ad occupare e sono definiti dalle posizioni relative all’interno di questo spazio. Non è azzardato, a mio avviso, pensare allo spazio sociale, come qualcosa di simile alla comunità monadologica di Husserl13.

Gli individui sono insieme nel mondo in una relazione di apertura dell’uno verso l’altro ed è questa apertura che li definisce uomini, che aggiunge ad un contenuto minimo e privato di esistenza tutte le strutture dell’esterno, strutture che vanno a definire la parte più pregnante dell’ uomo. Un individuo è una monade, un’unità indivisibile che esiste come nucleo fondante ma non è ancora uomo se non si apre in una comunità che è quella umana. Comunità fatta di monadi, di nuclei in se esistenti ma che si realizzano solo nel loro guardarsi reciproco, nel loro aprirsi le une di fronte alle                                                                                                                

12 Ivi, cit, pag. 20.  

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altre proprio in quello spazio di distanza che permette a una relazione di costituirsi come tale, senza trasformarsi nell’arbitrario adattamento di un termine sull’altro. Io e mondo nella visione husserliana si appartengono reciprocamente, il senso dell’Io si struttura nel mondo, e il mondo è strutturato nel suo senso perché vi sono molti Io che lo intenzionano. La “comunità monadologica” è un essere-nel-mondo insieme, un particolare tipo di rapporto che pone la libertà come relazione e che nello stesso tempo carica di senso e responsabilità questa relazione. Realizzo il mio essere uomo solo se altri mi riconoscono tale e nello stesso momento in cui mi riconoscono tale, essi esperiscono con me il mondo su cui insieme ci affacciamo. Non esiste mondo se non ci sono altri che lo esperiscono con me. La relazione di Husserl non è più quella fichtiana di un Io che pone un Non-Io, ma quella di un Io che fa esperienza di un altro Io che non pone, ma che gli si dà. In questa esperienza l’Io smette si essere il centro indiscusso del proprio mondo e si decentra, esce da sé per prendere in considerazione qualcos’altro, per affacciarsi su quelle connessioni di senso che sono appunto le connessioni tra l’una e l’altra monade. Il noi monadologico è formato da più Io che si fronteggiano e che trovano il senso del proprio Io proprio in questo fronteggiarsi come apertura paritaria dell’uno verso l’altro.

A questa visione Bourdieu aggiunge qualcos’altro: la comunità non è solo questione di relazione tra due Io, ma anche della loro disposizione nello spazio che occupano. Bourdieu non utilizza i termini di Soggetto o Io, ma le caratteristiche della monade husserliana aiutano a teorizzare la concezione non sostanziale dell’universo sociale che è anche di Bourdieu. Agire il sociale e nel sociale, è una questione di posizioni. Ma a differenza della comunità monadologica, il campo sociale si caratterizza come un campo di forze:

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C’est-à-dire comme un ensemble di rapports de force objectifs qui s’imposent à touts ceux qui entrent dans ce champ et qui sont irréductibles aux intensions des agents individuels ou même aux interactions directes entre les agents. 14

Lo spazio sociale è costituito da rapporti di forza che si impongono come oggettivi agli agenti implicati, nel senso che non sono direttamente dipendenti dalla loro azione immediata. Escono dall’intenzione dell’agente come un prodotto che, nel momento in cui non dipende solo dalla sua azione, gli sta di fronte come un oggetto. Tali rapporti di forza sono presenti anche allo stato soggettivo come categorie di percezione di questi rapporti, ed è proprio in questa incorporazione che si manifesta la loro forza, ovvero nella capacità di oggettivarsi non solo all’esterno dell’agente come strutture date e indipendenti da noi, ma anche al suo interno come strutture soggettive della coscienza, cioè come disposizioni. Da quest’incorporazione dipende la percezione degli agenti dei rapporti sociali nei quali sono implicati e che contribuiscono a costituire. I rapporti di forza che animano il campo sociale, sono legati alla posizione che ogni agente, o gruppo di agenti, occupa nella topografia di questo spazio, si affermano in un’oggettività localizzata, parziale e sociale.

Quello che esiste, che è reale (dunque anche oggettivo), è quindi uno spazio di relazioni nel quale gli agenti si posizionano, e nel quale agiscono con un rapporto che è propriamente una relazione di potere, che a sua volta è caratterizzata in base alle differenti posizioni che gli agenti occupano e contribuiscono a creare all’interno di uno specifico campo di forze. Lo spazio sociale, si caratterizza come dimensione di relazioni di potere. Forse con una vicinanza sensibile a Foucault, Bourdieu pensa che la nozione stessa di spazio sia di per sé una nozione relazionale, e che ogni relazione sia in realtà

                                                                                                               

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una relazione di potere, o meglio una relazione convertibile in un potere simbolico, concetto che vedremo meglio in seguito.

Gli agenti e i gruppi di agenti, esistono nella misura in cui occupano una posizione differenziale rispetto ad altri. Ogni singolo agente è al tempo stesso dipendente e indipendente rispetto a una collettività che ne realizza la possibilità di esistenza e di espressione. Rimane da chiedersi se il gruppo a cui Bourdieu pensa, sia semplicemente la somma di più agenti, o se abbia alcune delle peculiarità che lo avvicinano alla “classe” anche marxianamente intesa.

1.2.2. Classi e gruppi di agenti: pensare il collettivo.

Il termine classe, utilizzato da Bourdieu comunque non troppo frequentemente, si riferisce ad un insieme di agenti che occupano all’interno di un microcosmo sociale, quindi di un campo, posizioni vicine, e che quindi hanno condizioni simili, disposizioni e interessi più o meno equivalenti. Il termine classe è utilizzato solo come un’esigenza teorica in seguito al bisogno del sociologo di definire, di tracciare una linea in un certo senso. Non le vengono attribuite le caratteristiche della concretezza e della realtà storica.

Ce qui existe, c’est un espace social, un espace de différences dans lequel les classes existent en quelque sorte à l’état virtuel, en pointillé, non comme un donné, mais comme

quelque chose qu’il s’agit de faire.15

Parlare di classe è un’esigenza intellettuale che si manifesta a posteriori, quello che esiste è la differenza, le differenti posizioni che determinano l’orizzonte relazionale                                                                                                                

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(rapporti di vicinanza e lontananza) come l’unica realtà dello spazio sociale. E’ attraverso un principio di visione e divisione che si costruisce e costituisce il nostro scenario sociale. Non esistono classi, quello che esiste è una lotta per la classificazione. Come abbiamo detto, la posizione che occupiamo nello spazio sociale, non solo contribuisce a determinare il nostro modo di agire e le aspettative con qui lo facciamo, ma costruisce anche il modo in cui il sociale, con un procedimento inverso, entra a far parte di noi; struttura la percezione del reale-sociale nel quale siamo immersi:

…exister dans un espace, être un point, un individu dans un espace, c’est différer ; or, selon la formule de Benveniste parlant du langage, << être distinctif. Etre significatif, c’est la même chose>> […] La différence ne devient signe et signe de distinction […] que si on lui applique un principe de vision et de division qui, étant le produit de l’incorporation de la structure des différences objectives […], est présent chez tous les agents. 16

Se la differenza si da, la distinzione si fa. La percezione legata a una posizione è relativa al riconoscimento di fronte agli altri, alla percezione che gli altri hanno della nostra posizione. Ottenere il diritto di differenziare, ovvero di classificare, significa ottenere il diritto di imporre come legittima la percezione di una determinata struttura sociale, e farlo pubblicamente. Categorizzare significa conoscere pubblicamente, ri-conoscere e far riconoscere una determinata differenza (che mi caratterizza) come distinta rispetto alle altre ed è per questo che:

La connaissance du monde social et, plus précisément, les catégories qui la rendent possible, sont l’enjeu par excellence de la lutte politique, lutte inséparablement théorique et pratique pour le pouvoir de conserver ou de transformer le monde social en conservant ou en transformant les catégories de perception de ce monde.17

                                                                                                               

16 Ivi, cit. pag. 24-25.  

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La lotta politica, pratica e teorica insieme, degli agenti mira alla conquista di questo diritto di classificare, ovvero di imporre le categorie di distinzione come legittime, per aggiudicarsi la possibilità di cambiarle o perpetuale, cambiando così l’assetto del sociale stesso. In definitiva si lotta affinché la nostra azione possa essere performativa dello spazio sociale.

Poter classificare significa poter affermare una certa visione del mondo come dominante. La “verità” del mondo sociale è una lotta tra gli agenti per accedere a questo diritto, ed esserne gli unici detentori, per imporre la modalità con la quale la differenza possa evidenziarsi nel sociale come distinzione, e nell’agente come percezione della differenza. Le classi non sono come in Marx caratterizzate soprattutto dall’elemento economico, o almeno non lo sono in maniera esclusiva. Sono piuttosto classi simboliche. La posta in gioco nelle lotte sociali, non è di tipo economico, è di tipo simbolico e strutturale: si lotta per il riconoscimento della nostra visione del mondo come la visione legittima, si lotta per distinguersi.

Questo potere di classificazione e di categorizzazione, è al tempo stesso anche un potere di nominazione. Come in Foucault, nominare significa far esistere, separare, determinare; nominando le differenze, esse vengono gerarchizzate, imposte come necessarie, come naturali, vengono tolte dalla contingenza della storia. Differenziando, si crea un disegno sociale, ci si appropria di un’organizzazione, si fa esistere una classe. Per comprendere la portata di questo concetto, è necessario rompere con il linguaggio marxiano e marxista, perché:

Le succès historique de la théorie marxiste, la première des théorie sociales à prétention scientifique qui se soit aussi complètement réalisée dans le monde social, contribue ainsi à faire que la théorie du monde social la moins capable d’intégrer l’effet de théorie – qu’elle a plus aucune autre exercé – représente sans doute aujourd’hui le plus puissant obstacle au

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progrès de la théorie adéquate du monde social auquel elle, en d’autres temps, plus qu’aucune autre contribué.18

1.2.3 Una microfisica del simbolico: la teoria dei campi

La prospettiva attraverso la quale Bourdieu studia l’universo sociale e con la quale elabora le sue teorie sociologiche è una prospettiva microfisica, collocata, specifica e particolare, che realizza la sua ragion d’essere in quanto costituisce l’analisi minuziosa dei sottoinsiemi che compongono l’organizzazione sociale19. Quest’atteggiamento, non è solo un fatto metodologico: rispecchia la struttura stessa del reale.

Lo spazio sociale è formato da tanti spazi specifici, da dei piccoli universi relazionali più o meno autonomi, con poste in gioco e lotte particolari, che Bourdieu chiama “campi”. I campi si costruiscono storicamente in base all’azione degli agenti che vi sono impegnati ed è caratterizzato da una serie di rapporti di forza specifici. Sono caratterizzati dall’essere plastici e dinamici, ma non creabili in ogni singolo momento partendo dal grado zero.

La teoria dei campi è senza dubbio uno degli aspetti più innovativi del pensiero di Bourdieu, ma anche uno dei più complicati, rivisto e ridefinito più volte dall’autore stesso, forse perché di difficile spiegazione in quanto comporta e da senso a tutta una serie di concetti complessi come quello di habitus, di capitale e di strategia che sono fondamentali di tutta la sua analisi. Il campo è agito da attori che in esso lottano e fanno esperienza, ma resta un campo di relazioni oggettive, strutturato in base alle posizioni che gli agenti coinvolti occupano al suo interno, relazioni che sono di alleanza, di

                                                                                                               

18 Ivi, cit. pag. 12.  

19 Questo particolare atteggiamento metodologico è, a mio parere, uno dei punti di contatto maggiori con

la filosofia di Foucault che, anche se non viene mai espresso dall’autore in maniera esplicita, rappresenta uno dei suoi riferimenti più presenti, almeno come sensibilità di fondo.  

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complicità, di cooperazione, di conflitto. La dimensione relazionale del campo, non comporta una contraddizione con la sua oggettività:

Il campo è una rete di relazioni oggettive (di dominio, di subordinazione, di complementarietà o di antagonismo ecc.) fra posizioni […]. Ogni posizione è oggettivamente definita in base alla sua relazione oggettiva con le altre posizioni, o, in altri termini, in base al sistema della proprietà pertinenti, vale a dire efficienti, che permettono di situarla rispetto a tutte le altre nella struttura della distribuzione globale delle proprietà.20

Ciascun campo, qualunque sia la sua struttura specifica, si presenta come un campo di lotte in cui gli agenti sono impegnati a difenderne o demolirne la struttura in base al potere di categorizzazione che hanno a loro disposizione, è un campo di lotta e forza insieme. Se è vero che tendenzialmente il campo è un microcosmo equilibrato, non dobbiamo dimenticare che rimane dinamico e non ha mai una forma definita e definitiva; l’equilibrio di adesso è il risultato di lotte precedenti, la perenne trasformazione è la sua unica costante. Pensare in termini di campo ci mostra come la dimensione della nostra esperienza sia frutto di sedimentazioni storiche lunghe e complesse, che del campo ne costituiscono l’oggettività.

Bourdieu fa un’analogia fra il campo e il gioco. In ogni campo si gioca un gioco specifico, che funziona secondo determinate regole, che prevede delle azioni e reazioni e che ha una posta in gioco particolare. Esistono delle regole di base (presenza di giocatori, esistenza di regole, necessità di un piano di gioco) comuni a tutti i vari giochi, ma gli esiti e le mosse sono estremamente variabili e in parte libere. Tutti i campi, al di là della posta in gioco specifica, ne condividano una: il potere simbolico, l’autorità nel

                                                                                                               

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campo, il diritto di nominare e gerarchizzare, la possibilità d’imporre la propria percezione del mondo, ovvero, come vedremo meglio in seguito, il diritto di dominio.

Benché il campo, così come lo spazio sociale in generale, siano costituiti dalla differenza delle posizioni degli agenti coinvolti, c’è necessariamente una complicità oggettiva fra tutti coloro che vi sono impegnati e risiede nella credenza comune del valore della posta in gioco. Perché un agente decida di impegnarsi nella lotta specifica di un campo, è necessario che riconosca l’importanza e il prestigio del premio finale.

L’antagonismo delle varie posizioni, che ci fa parlare di lotta, rende paradossalmente gli agenti complici. In base a questa complicità ontologica di fondo, le relazioni fra le varie posizioni non si attuano mai attraverso una violenza esplicita, ma si giocano attraverso delle strategie, che restano di opposizione, ma in una maniera molto più sottile e meno evidente. Se si gioca in maniera apertamente violenta, chi perde viene distrutto, umiliato e ucciso, e al vincitore non resta nessuno da dominare, che riconosca la sua vittoria. La lotta sociale può perciò compiersi solo attraverso la sofisticata violenza simbolica, che lungi dal contrapporsi a quella fisica, ne è piuttosto l’espressione non meno reale e corporea. Bourdieu nel corso delle sue analisi si è soffermato sull’analisi di campi specifici, come per esempio il campo letterario, che sono, secondo lui, esemplificativi della maniera di strutturarsi del sociale.

L’autonomia di Bourdieu rispetto alle tesi di Michel Foucault si mostra, per esempio, nella concezione del campo letterario: se il filosofo francese ha avuto il grande merito di pensare un testo, un’opera letteraria nella sua dimensione intertestuale, in altre parole di relativizzare la sua posizione all’interno del campo specifico, ha anche fatto l’errore di considerare questa dimensione d’intertestualità come autosufficiente. Per Bourdieu invece il contesto condiziona e costituisce le entità che ne sono implicate, ma non è una

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“cosa” non è sostanziale, non esiste di per sé, ma nel suo essere struttura strutturata, parla attraverso gli agenti che lo animano.

Secondo lo stesso principio, i campi sono si autonomi, ma non mai fino in fondo, non sono mai svincolati e indipendenti rispetto al campo sociale più ampio che ne costituisce la condizione di possibilità:

…resta il fatto che un campo autonomo non si sviluppa in un vuoto sociale: esistono delle condizioni di negative dello sviluppo.[…] Dire che c’è un campo vuol dire che quando parlo, o scrivo, da sociologo, o quando scrivo da filosofo, il mio sguardo ovviamente è sulla realtà, ma il mio sguardo è anche sull’universo di altri produttori, che sono i miei concorrenti.[…].Insomma, per capire la produzione di ognuno occorre sapere la posizione che questi occupa nello spazio del campo, e come si situa in relazione agli altri.21

Come la posizione degli agenti all’interno del campo è relativa e ottiene il suo senso dall’essere in relazione con le posizioni degli altri agenti che strutturano il campo; così ogni campo specifico si struttura in base alla posizione che lui stesso e gli altri campi specifici occupano nel campo più generale che è quello sociale.

1.2.4 L’habitus e la storicità della natura

Le nozioni che abbiamo usato fino ad adesso, rischiano di sembrare delle scatole chiuse senza l’introduzione di un concetto tanto fondamentale quanto controverso dell’analisi di Bourdieu, quello di habitus.

                                                                                                               

21 Intervista a Bourdieu dal titolo Ragione e storia del 14/5/1994 con Sergio Benvenuto, in Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, Raieducational (http://www.emsf.rai.it/interviste.html).  

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Tutoraggio Analisi

Si scriva esplicitamente l’espressione della funzione inversa di g, specificandone

“Figli” associati viene impostata a NULL(ovviamente se non ho specificato il vincolo che debba essere NOT NULL). Esempio: se cancello un cliente, l' id_cliente degli