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La differenziazione intersoggettiva: la relazione soggetto-soggetto

Capitolo 2. Il dominio nel corpo: Judith Butler e la performatività del simbolico

3.3. La differenziazione intersoggettiva: la relazione soggetto-soggetto

Nell’analisi di Benjamin il dominio è intrinsecamente legato al tentativo di negare l’indipendenza dell’altro, e quindi allo sforzo per mantenerlo sotto il nostro controllo, riconoscendolo solo come prodotto della nostra onnipotenza mentale. La prima relazione di dipendenza fra il genitore e il bambino, la drammaticità della sua risoluzione sta proprio nel fatto che il bambino deve accettare che la madre non esista in sua funzione, lottare per l’indipendenza e farsela riconoscere proprio da coloro dai quali ha più fortemente dipeso.

Il mantenimento della tensione è l’unica azione psichica e relazionale che conduce all’indipendenza come atteggiamento pratico e teorico di vita. L’equilibrio all’interno del sé, scaturisce da una relazione che nasce e si sviluppa fuori dal sé: quella fra il sé e l’altro. Il riconoscimento è il momento più difficile del processo di differenziazione. La dialettica del controllo si nega da sola: se nego l’altro non c’è nessuno che riconosca me, quindi anche io stesso sarò poi distrutto dal processo che voleva rendermi sovrano.

La vera indipendenza implica il mantenimento della tensione fondamentale fra questi impulsi contraddittori, vale a dire l’affermazione del proprio sé e il riconoscimento dell’altro. Il dominio è la conseguenza del rifiuto di questa condizione. La tensione verso l’altro, era già un concetto noto a Hegel e a Freud: se l’uno vede la streben come il motore del processo dialettico, l’altro vede nel desiderio sessuale la tensione non mai

realizzata di pulsioni che, proprio perché non mai pienamente soddisfatte, permettono la costruzione di un apparato di sublimazione che sarà la base di tutte le relazioni sociali e di tutti gli interessi dell’individuo.

Nessuno dei due però, pensa il mantenimento possibile di questa tensione, teorizzano entrambi come necessario il suo crollo, o la sua risoluzione. La dipendenza viene vista come una resa, una rinuncia, una sottomissione. Per Freud in particolare, la tendenza al dominio è naturale: le pulsioni non si limitano per loro costituzione, lo fanno per mezzo del principio di realtà. È la costrizione proveniente dell’esterno che mette un freno all’Es, che altrimenti sarebbe dominante. In definitiva, le pulsioni e la realtà sono trattate separatamente, considerate nella loro indipendenza reciproca. Anche per Hegel il dominio è naturale: la lotta per il riconoscimento che si attua attraverso la figura dello spirito servo-padrone, non può mantenersi in eterno nello stato di potenza, ma deve risolversi nella vittoria della tesi sull’antitesi, per poi essere superata, lasciando dietro di sé l’aspetto “perdente” della storia. La figura servo-padrone, diventa importante in psicologia, perché descrive un rischio che spesso non sappiamo gestire. Porre la relazione con l’altro nei termini del dominio del padrone e della sottomissione del servo, significa pensare solo due posizioni rispetto alle molteplici che l’io potrebbe assumere, comporta l’assunzione di una relazione di potere già strutturata e cristallizzata, diventata già lo stato di dominio che pretende di spiegare.

Un’impostazione tale ci impone una scelta in termini dualistici che ci vedrà autonomi o schiavi. Il dualismo della relazione servo-padrone, riassorbe continuamente tutti i tentativi di allontanarci, perché limita la nostra possibilità di agire su di una linea retta che procede o nel senso di un dominio dell’altro o di una sottomissione di sé. Questo schema riduce il vero senso della questione del riconoscimento e della sottomissione e non teorizza la complicità fra dominatori e dominati, che è invece condizione della sua

possibilità. Accettando di sottometterci all’altro, realizziamo anche un nostro desiderio, che è quello di sentirsi definiti, di non essere esposti senza qualcuno che ci protegga, che ci dia un ruolo. Sottomettendoci, diventiamo oggetti, e questa condizione è tanto alienante quanto rassicurante.

Se Bourdieu sostiene una complicità ontologica fra le due posizioni, per Benjamin è altrettanto importante non sottovalutare il permesso che i dominatori ottengono da coloro che sottomettono. L’oppressione è scelta, anche se non consciamente, dai dominati. La psicanalisi ha dimenticato, secondo Benjamin, tutto l’universo di relazioni e rimandi intersoggettivi, che permettono le azioni poi intrapsichiche. La questione del dominio non riguarda l’azione di un soggetto attivo su un oggetto passivo; è piuttosto frutto di una relazione che si nega come tale bloccandosi in una figura. Si struttura in uno spazio di apertura.

Per questa reificazione c’è bisogno ancora una volta della complicità di tutte e due le parti in causa, una complicità che potremmo definire ontologica e gnoseologica che permette di parlare lo stesso linguaggio, di vincere o perdere all’interno dello stesso codice di valori. Esattamente come nel potlach descritto da Mauss, per vincere o perdere al gioco dei doni, è prima di tutto essenziale che le parti in causa siano inscritte nello stesso sistema simbolico, che considerino la posta in gioco come un premio importante da ottenere, quindi, è necessario che entrambe riconoscano l’importanza della lotta dell’altro.

La sottomissione è la risposta a un bisogno di riconoscimento che ha avuto una risoluzione semplicistica a livello interpersonale, è la risposta a una domanda posta come un aut-aut. Ponendoci la questione del dominio dobbiamo avanzare anche quella della resistenza. Contemplare solo due posizioni, quella di padrone o di schiavo, esprime un bisogno di definizione profondamente radicato nell’animo umano. Avere

una posizione sicura ci mette a riparo dal paradosso inaccettabile di rimanere soli, sfuggendo così da un vuoto, al quale però ritorniamo.

La solitudine è uno stato primordiale che ci espone al rischio della nostra stessa dissoluzione. L’unica chance che abbiamo di sopravvivere e di negare la solitudine, è quella di riconoscerci dipendenti da altri:

Qual è lo stato dell’individuo umano in cui l’essere emerge dal non essere? Quali sono le basi della natura umana in termini di sviluppo individuale? […] Una descrizione di questa condizione deve implicare un paradosso. All’inizio vi è uno stato di solitudine fondamentale. Nello stesso tempo questa solitudine può esistere soltanto in condizioni di massima dipendenza. […] Lo stato che precede quello di solitudine, è uno stato di non vita.167

La solitudine è sempre in mezzo a qualcosa, è sempre nella dipendenza da qualcuno, ed è legata al bisogno di giustificare la propria presenza agli occhi di altri, al riconoscimento che cerchiamo negli altri. La psicanalisi dovrebbe sforzarsi di ripensare la questione del dominio e inserirla in un contesto di reciprocità anziché in uno di ritorsione e controllo, in modo da insegnare a vivere, a livello cognitivo ed emotivo, la differenza. L’onnipotenza mentale, cui non è dato un freno, ci esclude dal mondo e realizza la solitudine a cui cerchiamo di sfuggire.

Senza un mondo esterno che ci limita, l’interiorizzazione subentra allo scambio e ci isola, ci blocca ancora prima di calarci in un paradosso che non siamo in grado di gestire. La psicanalisi, oggi più che mai, dovrebbe aiutare a compiere un lavoro marginale, di spostamento e messa in discussione dei limiti, sui limiti e oltre ai limiti, nelle ramificazioni periferiche che escludono e, escludendo, ci caratterizzano ancora di più.

                                                                                                               

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