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Genova: flussi migratori e questione abitativa Un contesto, molti “abitare”

Nel documento L'abitare migrante (pagine 65-90)

L’abitare è, al contempo, un concetto ed un evento. È una costruzione, culturale, innanzitutto, e sociale attraverso la quale è organizzata la risposta ad una serie di bisogni, di diverso ordine, che riguardano il corpo, l’intimità, la separazione tra pubblico e privato (Sennett, 2009), l’appartenenza alla comunità (Filjakow, 2016) ed ad un nucleo familiare (o ad un “focolare”), nonché le forme dell’interazione sociale e dell’assetto urbano. Ed è, al tempo stesso, un fenomeno in continuo divenire che implica una trasformazione incessante della persona e dello spazio, della vita e degli oggetti, in relazione all’evolvere del contesto storico e sociale. Da una parte si riferisce allo spazio e al mondo fisico-oggettuale, rispetto al quale esprime una relazione di possesso, di appartenenza, di appropriazione, dall’altra si riferisce al tempo, alla formazione di abitudini, consuetudini, ritmi di vita, identità e quotidianità (Vitta, 2008). L’abitare, riguarda il corpo, o meglio la presenza (e il movimento) dei corpi nello spazio e nel tempo ma non parla solo di persone, individui, famiglie ma anche del rapporto tra le persone, delle pratiche di convivenza e dello stare insieme, del rapporto tra le persone e il territorio. Esattamente come il migrare. Per questa ragione le coordinate temporali che legano l’abitare al fenomeno migratorio sono altrettanto importanti di quelle spaziali (Boccagni, 2017).

In questo senso, l’obiettivo di questo capitolo è di dare conto dell’evoluzione della presenza migratoria su un territorio ovvero del suo mutare, in termini quantitativi e qualitativi, lungo l’arco temporale di alcuni decenni, avendo cura di evidenziare l’emergere e il mutare dei tratti della questione abitativa.

La scelta di prendere in considerazione il caso genovese nasce da diverse considerazioni. Innanzitutto, la città ha una lunga storia di contesto di accoglienza essendo stata destinazione di molti flussi migratori interni (fino agli anni Sessanta) ed accoglie migranti internazionali già dalla metà degli anni Ottanta. Genova è dunque una città in cui flussi migratori diversi, sovrapponendosi l’uno all’altro hanno dato luogo ad una molteplicità di processi di insediamento. Secondariamente, i flussi migratori che l’hanno interessata sono profondamente diversi tra loro, sia per il profilo socio-anagrafico che li caratterizza, sia per le modalità di inserimento nel tessuto urbano, sociale ed economico della città. L’idea è quella di parlare di Genova, non tanto e non solo, per “raccontare” un contesto quanto per mostrare, attraverso l’approfondimento di un caso, la pluralità e la dinamicità delle forme che può assumere l’abitare dei migranti.

A tal fine si è proceduto ad una rilettura critica dei principali contributi sugli scenari migratori locali e degli indicatori statistici disponibili dalla fine degli anni Novanta ad oggi. Quasi mai, in questi studi, l’abitare dei migranti, il loro “ancorarsi” a specifiche zone del territorio cittadino è inquadrato come una questione centrale, se non negli aspetti più direttamente legati alla devianza e all’uso dello spazio pubblico. In nessun caso, la questione dell’abitare è trattata come uno specifico oggetto di studio o evidenziata come una issue

rilevante. Le problematiche abitative dei migranti e gli aspetti anche indirettamente afferenti alla questione della casa che pure, in molti dei materiali esaminati, sono presenti e rilevanti, devono, viceversa, essere rintracciate in una pluralità di dettagli statistici, accenni o riferimenti, anche indiretti, disseminati qua e là nelcorpus dei testi considerati.

Il lavoro di riorganizzazione di informazioni provenienti da fonti diverse (es. Istat, Comune, Questura) con le principali ricerche svolte, nell’arco di tre decenni sul fenomeno dell’immigrazione a Genova, ha consentito di far emergere un panorama conoscitivo estremamente ricco (ancorché disomogeneo e poco adeguato allo sviluppo di letture di tipo longitudinale) in cui l’abitare dei migranti viene presentato, in chiave descrittiva, sia nei suoi tratti spaziali (distribuzione territoriale) ed oggettivi (dati quantitativi) sia in un’ottica di tipo interpretativo che apre l’analisi di alcuni processi (per esempio la composizione di genere in rapporto ad alcuni aspetti legati al tipo di inserimento lavorativo, ecc.) a letture più complesse. Per queste ragioni nelle pagine che seguono, più che svolgere una rassegna sugli studi focalizzati sulle dimensioni locali del fenomeno migratorio o ripercorrere tematicamente le ricerche svolte sul fenomeno migratorio, si è cercato di tratteggiare un “affresco” ovvero di ricomporre dati, interpretazioni contingenti e riflessioni di carattere teorico. Un “senno di poi”, si potrebbe dire, sul fenomeno migratorio, nel quale, tuttavia, si possono rinvenire indicazioni, riferimenti, spunti di riflessione utili alla costruzione di un quadro di riferimento sull’abitare dei migranti, ad orientare il percorso di ricerca, nonché a formulare qualche interrogativo sul futuro.

1991-2000. L’abitare “interstiziale”

Per l’Italia, l’essere “contesto di accoglienza” di flussi migratori provenienti da altri paesi è una condizione piuttosto recente, che si manifesta a partire dalla prima metà degli anni Settanta – in coincidenza con la crisi petrolifera. A partire da questo momento i flussi migratori in uscita (verso le tradizionali mete delle migrazioni degli italiani come il Belgio, la Francia, la Germania) vengono gradualmente limitati, dall’altra prende avvio il fenomeno delle migrazioni internazionali dirette in Italia (primi anni Ottanta).

È a quest’epoca che risalgono le prime evidenze statistiche del fenomeno migratorio a Genova e che intercettano dapprima una serie di presenze legate a specifiche traiettorie politiche (come gli iraniani o gli esuli cileni) e poi l’emergere di un flusso migratorio proveniente, principalmente, dall’area dell’Africa del Nord e dell’Africa Occidentale (Cfr. Tabella 1).

Al Censimento 1991, i dati rilevati dall’Istat quantificano la presenza di stranieri residenti in 5.264 unità, pari allo 0,8% della popolazione. Un dato presumibilmente sottostimato in quanto non in grado di coprire quei segmenti della popolazione straniera che vivono in condizioni di irregolarità o sperimentano forme di pendolarismo tra Genova e la Lombardia, o le riviere. In questa fase, la popolazione straniera (regolare e non) si insedia di preferenza nei quartieri della città vecchia.

Uno straniero su due (50,25%) vive nell’area corrispondente agli attuali municipi del Centro-Est e del Centro Ovest, ma la concentrazione più elevata si registra nelle circoscrizioni che compongono il Centro Storico (Prè-Molo-Maddalena) dove abita circa un terzo della popolazione immigrata (34,57% pari a 1.820 persone) (Comune di Genova, 2007a).

Il Centro Storico di Genova è da sempre il luogo di prima accoglienza dei flussi migratori in ingresso. Lo è stato negli anni delle migrazioni interne dal Mezzogiorno ed è tornato ad esserlo a negli ultimi due decenni del secolo, con lo sviluppo dell’immigrazione dai paesi del sud del mondo.

Canepa (1992; 26) avanza l’idea che la pressione migratoria sulla città di Genova, derivi da due fattori: i collegamenti marittimi con il Nord Africa e “l’esistenza di un grande Centro Storico in avanzato stato di degrado che ha finito per costituire una cospicua offerta abitativa per gli extracomunitari tanto da svolgere un ruolo attrattivo nei confronti di immigrati residenti in zone finitime (dalle due Riviere al basso Piemonte)”.

Per quanto riguarda il primo elemento, il “porto storico”, assieme ai quartieri della città vecchia che lo abbracciano, ha un’importanza cruciale nella prima fase di insediamento dei migranti nel contesto cittadino (anni Ottanta). La porosità del confine tra porto e città permetteva, allora, il passaggio e la “mimetizzazione” dell’immigrato con la figura del marinaio sbarcato (o lasciato a terra). Ed è infatti la rete di istituzioni che si occupano di assistenza ai marittimi (es. Stella Maris) che rilevano, per prime, l’emergere di un flusso migratorio in ingresso (Torre, 2005; 33)

In merito al secondo, già a metà anni Ottanta uno studio dell’ILRES (1985) metteva in relazione la distribuzione dei migranti nel Centro Storico (assieme a fenomeni di devianza e marginalità sociale) con il degrado edilizio della zona, segnalando carenze igienico-sanitarie e nelle dotazioni di servizi. A quell’epoca, infatti, il 35% delle abitazioni occupate è ancora privo di bagno, il 12% è privo di riscaldamento e, complessivamente, solo il 60% degli alloggi è dotato di tutti i servizi. In questo contesto, gran parte della popolazione straniera presente sul territorio trova una risposta al problema dell’abitare dovendosi conformare a condizioni ancora più problematiche di quelle sperimentate negli anni del secondo dopoguerra dai meridionali protagonisti delle migrazioni interne (Petrillo, 2004). Cionondimeno, la posizione baricentrica del Centro Storico rispetto al sistema dei trasporti urbani (autobus e treni) rende l’insediamento in questa zona utile anche a chi pratica forme di pendolarismo lavorativo anche di medio raggio (es. lavoro in Lombardia) (Torre, 2005).

Dal punto di vista del titolo di godimento degli immobili prevale il regime di locazione – anche in nero – e il Centro Storico ha una grande disponibilità di edifici in disuso, “scagni” ed alloggi abbandonati nel corso del processo di “spopolamento” che interessa, in particolare, le ex-circoscrizioni di Prè-Molo-Maddalena nel periodo compreso tra il 1951 e il 1991. Giordano (1997; 62) evidenzia che “molti immigrati di notte dormono in ripari di fortuna nel centro storico e altri trovano ricovero in edifici abbandonati e fatiscenti quali l’Albergo Miramare che domina la zona di Principe”.

I dati dell’ufficio statistico del Comune di Genova consentono di quantificare questo fenomeno; a fronte di una sostanziale stabilità della popolazione residente per quasi un secolo

– tra il 1861 e il 1951 si passa da 55.503 alle 51.809 unità – dal 1951 al 1991, la popolazione del Centro Storico risulta più che dimezzata e il periodo in cui questa tendenza risulta più forte è quello tra il 1961 e il 1971 (-12.060). Nello stesso arco temporale inoltre aumenta il numero e l’incidenza delle abitazioni vuote. Nel 1971, infatti, si contano 12.911 abitazioni, di cui ben 1.916 (14,8%) vuote. Dieci anni dopo gli alloggi sono 12.804, di cui 2.034 (15,9%) non occupati. Nel 1991 le abitazioni rilevate sono 12.336, di cui 2.729 vuote (22,1%) (Comune di Genova, 2007b).

In quei vuoti – che spesso riguardano interi stabili - e in una domanda di alloggi che si rivolge prevalentemente al mercato informale prende forma il primo insediamento degli stranieri a Genova. La domanda di case in affitto non passa, infatti, attraverso le agenzie immobiliari ma alimenta un mercato informale, ovvero un sistema di relazioni “nel quale confluisce molta parte della domanda meno abbiente e/o più disperata (…) Gli operatori immobiliari parlano di ‘fame di case’” (Ilres, 1985; 102). Gli stranieri (assieme ad altri segmenti sociali a basso reddito come operai, lavoratori dipendenti, studenti, sfrattati) esprimono una parte consistente di questa domanda.

Tuttavia, il loro insediamento non è omogeneo sul territorio. Il Centro storico è oggetto anche di una dinamica di “scelta elettiva” di residenza dovuto al recupero di una immagine favorevole e alla parziale caduta della cesura tra centro storico e resto della città (Ilres, 1985; 55) ed è interessato da alcuni grandi processi di riqualificazione urbana come: a) la ristrutturazione del convento di S. Salvatore, dove troverà posto la Facoltà di Architettura, nella zona di Sarzano e che avrà grande successo nella ridefinizione di un diverso immaginario urbano (Briata, 2009); b) la riqualificazione della zona di Santa Brigida, un processo che ha comportato l’allontanamento della popolazione residente e la chiusura, per oltre un ventennio, di una vasta zona attorno Piazza Truogoli di S. Brigida, che ha favorito il proliferare di insediamenti abusivi in edifici fatiscenti, o inagibili, e lo sviluppo di situazioni di sovraffollamento e disagio cumulato (Gastaldi, 2013); c) la riqualificazione del territorio restituito alla città nella zona del porto storico (dal Molo alla Darsena), la zona poi conosciuta come Porto Antico e destinata ad ospitare l’Acquario, il Centro Congressi e il Museo del Mare.

La parte più antica della città diviene così oggetto di due processi di ripopolamento opposti e, spesso, sovrapposti; da una parte chi trova nel fatiscente patrimonio abitativo del Centro Storico una pluralità di opportunità di accedere ad una sistemazione abitativa a basso costo, dall’altra una domanda “ricca” (espressione di intellettuali, professionisti, artisti, ecc.) che individua in immobili a basso costo opportunità di speculazione immobiliare.

Nella peculiare geografia a “macchia di leopardo”, che scaturisce da queste due tendenze, e che si dispiega anche all’interno dei singoli immobili, dando luogo a forme di “stratificazione verticale” - ai piani più bassi, più carenti di luce e in condizioni abitative peggiori si trovano gli stranieri, poi, salendo italiani in condizioni professionale via via migliori (Gastaldi, 2013) - si delineano nuove forme di contiguità (o continuità) tra l’economia formale e quella informale, o illegale. Fenomeni di contatto che riguardano anche al questione abitativa e che si traducono nel proliferare di molteplicità di situazioni di precarietà, o emergenza, abitativa per la popolazione immigrata (come affitti in nero, locazione di alloggi, o “bassi” privi dell’abitabilità, in precarie condizioni igienico sanitarie,

sovraffollamento degli alloggi) parallelamente all’emergere di una pressione sui valori immobiliari che inizia a creare problemi a chi cerca, nelle case del Centro Storico, soluzioni abitative a basso costo.

2001-2010. Nuovi flussi migratori e accesso alla proprietà immobiliare

Il dispiegarsi dei processi migratori sul territorio, nel decennio considerato, va letto in relazione ad un più vasto processo di ridefinizione dei rapporti tra lavoro qualificato e lavoro non qualificato che interessa la città di Genova, così come molte altre metropoli occidentali (Ambrosini, 2004). Una dinamica che rivela, localmente, l’emergere di nicchie occupazionali etniche e di forme di integrazione subalterna.

Gli investimenti nei processi di riqualificazione urbanistica che stanno trasformando il paesaggio urbano e le opere ristrutturazione del patrimonio edilizio pubblico e privato avviati già nel corso degli anni Ottanta, ed ancora in corso – come le realizzazioni legate alla nomina di Capitale Europea della Cultura (“Genova 2004”) – in combinazione con lo sviluppo del mercato immobiliare che caratterizza i primi anni Duemila – anche grazie all’impulso dei provvedimenti di liberalizzazione del mercato del credito51, di liberalizzazione del mercato degli affitti52 e del basso costo del denaro – danno luogo, localmente, allo sviluppo di una forte domanda di manodopera nel settore dell’edilizia e ad una progressiva crescita della domanda di lavoro anche nei comparti del turismo e delle attività alberghiere.

In questo frangente, inoltre, prende corpo una nuova domanda di lavoro, espressione di una carenza di manodopera nei comparti del lavoro domestico e del lavoro di tipo assistenziale. All’origine di questo fabbisogno di manodopera si possono individuare tanto processi di ordine generale, che interessano indifferentemente Genova ed il resto del paese, quanto aspetti specificamente locali o che, nella dimensione locale, trovano particolare enfasi. Tra i primi possiamo identificare, innanzitutto, l’abbandono di un modello di partecipazione al mercato del lavoro basato sulmale breadwinner (secondo il quale all’uomo è affidata la produzione del reddito attraverso il lavoro mentre la donna deve farsi carico della sfera “riproduttiva”, ovvero del lavoro domestico e di quello di cura) in favore di una partecipazione di entrambi i sessi al mercato del lavoro, nonché una peculiare configurazione del regime diwelfare caratterizzato dalla rilevanza dei trasferimenti in denaro e che attribuisce un ruolo centrale alla famiglia (Esping-Andersen, 2000). Un aspetto di carattere specificamente locale riguarda, invece, l’evoluzione demografica della popolazione cittadina. Nel quadro di una generale dinamica di invecchiamento della popolazione italiana, Genova è una delle città italiane in cui il processo di transizione demografica sembra raggiungere più velocemente l’ultima fase. Si delinea così uno scenario in cui, a fronte di un peso sempre maggiore della popolazione anziana, il modello di assistenza domestica fino ad allora in

51Il d.lgs. n. 385 del 1 settembre 1993, “Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia”,

introduce il principio della despecializzazione bancaria.

vigore non sembra essere più sostenibile.53 L’emergere di un nuovo flusso migratorio, prevalentemente femminile si inscrive, dunque, in un più generale processo di riorganizzazione del lavoro di cura.54(Ambrosini, 2004; Lagomarsino, 2004)

In risposta a qusesta situazione due diversi flussi migratori – quello degli albanesi e quello degli ecuadoriani – prendono progressivamente consistenza e, rispondendo alle carenze di manodopera sopra descritte, danno avvio un processo di mutamento del profilo della componente straniera presente sul territorio genovese che investe sia gli aspetti qualitativi, sia quelli quantitativi.

I dati del Censimento 2001 rilevano un aumento della popolazione straniera residente pari al 195,7%. Nell’arco di un decennio la componente straniera della popolazione cittadina triplica, raggiungendo la cifra di 15.567 residenti. Un incremento nel quale sono leggibili tre tipi di mutamento: a) il cambiamento nei paesi più rappresentati (crescita della componente latinoamericana ed albanese); b) la femminilizzazione della presenza straniera; c) un processo di redistribuzione sul territorio cittadino.

Per quanto riguarda le provenienze, secondo i dati censuari, nel 2001, la comunità nazionale più numerosa è quella dei cittadini provenienti dall’Ecuador che, con 3.476 unità rappresenta il 22,3% di tutti gli stranieri residenti. Segue il gruppo dei marocchini, che conta 1.381 membri, quello degli albanesi con 1.274 unità e quello dei peruviani (1.204 unità).

Complessivamente, i dati relativi alle prime quattro comunità, concentrano il 47,1% della popolazione straniera residente.

I flussi di cittadini albanesi – che si inseriscono principalmente nel settore edile – e di quelli ecuadoriani, occupati prevalentemente nei comparti del lavoro domestico e di cura, sono particolarmente significativi. I cittadini albanesi, che nel 1991 erano solo 11, fanno registrare una variazione percentuale pari al 11.482%. Gli ecuadoriani, invece, passando da 185 a 3.476 unità, invece, aumentano del 1.179% (Comune di Genova - Unità organizzativa statistica, 2007a).

La crescita della comunità latinoamericana (Ecuador, Perù, Repubblica Dominicana) rivela una dinamica di femminilizzazione della popolazione immigrata, dovuta alla presenza di donne primo-migranti che spesso vivono nelle case delle famiglie presso le quali hanno trovato lavoro.

La sovrapposizione tra luogo di residenza e luogo di lavoro, che caratterizza l’esperienza di molte donne straniere impiegate nel lavoro di assistenza domiciliare, si presenta sotto il segno dell’ambivalenza. Se, infatti, delinea forme, anche estreme, di

53 Il rapporto “Novecento Genovese” (Comune di Genova, 2007 a; 40) mette in evidenza come

Genova sia una tra le città più anziane di Italia ancorché il suotrend di invecchiamento sia in linea con quello

della popolazione italiana. La comparazione tra gli indici di vecchiaia al 2001 vede Genova (245,1) collocarsi al quarto posto in Italia dietro a Firenze (249,3), Trieste (258,3) e Bologna (281,9).

54Lagomarsino (2006; 146) osserva che “mentre fino ad alcuni fa (fine anni ottanta) la richiesta di una

domestica straniera era soprattutto avanzata da famiglie di classe alta e medio-alta, per esigenze di gestione e pulizia della casa o cura dei bambini piccoli, negli ultimi anni è aumentata in modo incisivo la domanda da parte di famiglie di classe medio-bassa, per l’accudimento di persone anziane spesso malate e non autosufficienti. Si profila cioè da parte di persone con redditi piuttosto modesti (soprattutto pensionati) il problema della cura di un familiare anziano, a fronte della carenza di servizi pubblici o degli alti costi di quelli privati”.

sfruttamento e di compressione dell’intimità, del tempo libero e dell’autonomia personale, allo stesso tempo, rende più facile la sottrazione ai controlli di polizia e permette di abbassare o ridurre quasi a zero i costi relativi alla locazione dell’alloggio e al vitto. Un quadro in cui la familiarità e le dimensioni affettive si intrecciano a condizioni di mancanza di diritti (Lagomarsino, 2006). Una situazione che riguarda sia la sfera del lavoro che quella dell’abitare. L’alloggio è, infatti, fornito dal datore di lavoro e per le “badanti” (spesso irregolari) che vivono insieme alle persone da assistere, la condizione professionale di lavoro “fisso” nelle case, si può configurare come “tattica abitativa”. Una tattica, particolarmente utile nella fase di primo insediamento, estremamente rischiosa in quanto facilmente reversibile, che evidenzia i tratti di una estrema vulnerabilità sociale; la perdita del lavoro o il suo termine (per esempio, per il decesso della persona da accudire) nella maggioranza dei casi coincide con la perdita dell’alloggio.

La presenza albanese è invece prevalentemente maschile. Dal punto di vista economico gli albanesi si inseriscono principalmente nel settore dell’edilizia e, in misura minore nella cantieristica. Tuttavia, come segnala Ambrosini (2004; 17) se “la componente albanese è stata discriminata nell’accesso al lavoro per effetto della cattiva reputazione che gli albanesi hanno acquisito nella pubblica opinione in relazione ai fenomeni devianti che hanno come protagonisti i loro connazionali (…) ancor di più nel mercato abitativo e nelle relazioni con la popolazione autoctona”. Per ragioni cui non paiono estranei i processi di stigmatizzazione, nell’insediamento sul territorio gli albanesi tendono a mimetizzarsi e, come si vedrà, a non conseguire, in questo periodo, forme di concentrazione territoriale particolarmente evidenti.

I dati del Censimento 2001 consentono di misurare gli effetti di dispersione della popolazione sul territorio cittadino. In questo momento, il peso percentuale sul complesso della popolazione residente genovese è pari al 2,55%. Nonostante passino da 1.820 a 2.665 (con una variazione percentuale pari al +46,4%) la quota di stranieri che vivono in Centro Storico risulta più che dimezzata (17,1%). Di contro, come mostra la Figura 1, cresce nella zona di Sampierdarena e del Campasso (Centro Ovest), di Campi (Medio Ponente) e, in misura minore, al Lagaccio e ad Oregina (Centro Est) e nelle altre delegazioni della Valpolcevera e della Valbisagno.

Figura 1. Stranieri ogni 100 residenti (anno 2001)

Fonte: Comune di Genova - Unità organizzativa statistica, 2007a.

Nel documento L'abitare migrante (pagine 65-90)