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No, il nostro paese Praticamente io ti posso dire una cosa No

Nel documento L'abitare migrante (pagine 158-184)

Caitolo 5. L’abitare narrato

J.: No, il nostro paese Praticamente io ti posso dire una cosa No

siamo andati al mio paese però soltanto per un mese. Però io quando io sono andato al mio paese, al mio paese, io ti posso dire quello che penso io. Quando io vado al mio paese rimango per un mese, già dopo una settimana o due io non vedo l’ora di prendere di nuovo l’aereo perché mi manca questo posto… Non è che sono nato qua però è diversa la vita di là con la vita di qua. Hai capito? Non mi trovo più là. Allora, già quando io sono là proprio io non vedo l’ora di ritornare di nuovo, mi manca qualcosa. Magari, perché lo sai, non solo l’Equador, io posso dire che tutta quella parte dell’America, l’America centrale e il sud America…. Quando io parlo di questi posti parlo di una cosa diversa perché la vita di là è un, magari non si vede anche la notizia, che è un po’ violento. Allora io non posso dire che il mio paese è praticamente il paradiso. Anche noi quando andiamo di là siamo un po’ “intranquilli”. E quello che noi sempre pensiamo che è il momento di tornare, si, è bello, andare di là, visitare la tua famiglia no? Però, non lo so, è una cosa che noi non, è una sensazione nostra che c’è qualcosa che manca. E non vedo l’ora come ho detto no di ritornare qua.

Moglie: Anche noi siamo stranieri, di nascita siamo stranieri, però

consideriamo che l’Italia è parte della nostra vita. L’Italia è parte della nostra vita, è quello che noi pensiamo.

An., dall’abitare interstiziale alla proprietà

An. è un cittadino ecuadoriano, al momento dell’intervista ha 54 anni ed è arrivato nel 2002. Attualmente, è proprietario di un piccolo appartamento nel quale vive insieme ad una parte della sua famiglia, cioè la moglie ed uno dei suoi tre figli.

La sua, sembra essere una “storia di successo”. Se infatti raffrontiamo il titolo di accesso alla casa attuale con la pluralità di condizioni abitative sperimentate dall’intervistato, in particolare nel primo periodo del suo soggiorno in Italia, non c’è dubbio alcuno che, quella che prende forma è una traiettoria, abitativa e sociale, caratterizzata da un esito positivo.

Eppure gli elementi di maggior interesse nel suo racconto non risiedono tanto nel miglioramento della condizione abitativa, ovvero nel cambio titolo di accesso alla casa e in una migliore qualità dell’alloggio, quanto in ciò che “sta in mezzo” – nelle pratiche dell’abitare poste in essere da An. quando sperimentava la precarietà, sovrapponendo e confondendo la condizione disans abri con forme di “co-residenzialità” con il datore di lavoro – ed in ciò che “sta dietro” a questa pluralità di condizioni abitative, ovvero nei significati che An. attribuisce all’abitare. Sia all’abitare nella casa di proprietà, una casa sua nella quale ha facoltà di sentirsi “signore e padrone del suo habitat”, sia all’abitare “senza qualità” che caratterizza la molteplicità di situazioni ibride e insicure in cui si è trovato a vivere.

Le ragioni che portano An. alla decisione di emigrare sono da individuare negli effetti della crisi scaturita a seguito della dollarizzazione dell’economia ecuadoriana. In questo frangente, infatti, An., che viveva in una condizione di relativo benessere, perde la casa dove viveva con la famiglia ed è ridotto ad una condizione di estrema povertà. La migrazione si configura, dunque, come una risposta alla sopraggiunta impossibilità di mantenere la propria famiglia e si caratterizza da subito come un progetto familiare.

Attraverso il lavoro An. si costruisce una propria rete di relazioni aperta tanto ai connazionali, quanto ad altri stranieri e ad italiani.

Soprattutto all’inizio del suo soggiorno, An. sperimenta una molteplicità di esperienze di grave esclusione abitativa come l’essere “senza tetto” o il vivere in sistemazioni inadeguate o non sicure72 Una panoplia di situazioni di precarietà abitativa che rivelano l’isolamento sociale, la deprivazione e lo sradicamento vissuto da An.

72Secondo la Classificazione Europea sulla grave esclusione abitativa e la condizione di persona senza

dimora elaborata dal FEANTSA (Federazione europea delle organizzazioni nazionali che lavorano con le persone senza fissa dimora) l’esistenza delle persone in condizione di grave esclusione abitativa e senza dimora è uno dei principali problemi sociali affrontati dalla Strategia dell’Unione Europea di Protezione e Inclusione Sociale. A tal fine ha sviluppato una classificazione sulle persone senza dimora, attraverso una griglia di indicatori che fanno riferimento alla grave esclusione abitativa. Il nome di questa classificazione è ETHOS. La classificazione si basa sulla considerazione che vi sono tre aree che vanno a costituire l’abitare, in assenza delle quali è possibile identificare un problema abitativo importante fino ad arrivare alla esclusione abitativa totale vissuta dalle persone senza dimora. Quindi per definire una condizione di piena abitabilità è necessario che siano soddisfatte alcune caratteristiche: avere uno spazio abitativo (o appartamento) adeguato sul quale una persona e la sua famiglia possano esercitare un diritto di esclusività (area fisica); avere la possibilità di mantenere in quello spazio relazioni soddisfacenti e riservate (area sociale); avere un titolo legale riconosciuto che ne permetta il pieno godimento (area giuridica). L’assenza di queste condizioni permette di individuare quattro

In questo senso, “la definizione di «fuori luogo», in molti dei significati con cui l'espressione è stata proposta, può rendere diversi aspetti delle (sue) condizioni (…): sradicamento ed erranza, esclusione dalle politiche, mancato riconoscimento della pienezza dei diritti di cittadinanza. (…). Rom, homeless, immigrati sono in questo senso figure esemplari: «fuori luogo» significa anche estraneità delle/alle politiche, una tangibile distanza delle politiche dalle nuove situazioni di marginalità” (Tosi, 2008; 47).

Nell’esperienza di An., infatti le misure di politica sociale e, più in generale, le istituzioni sembrano essere totalmente assenti e la questione abitativa sembra essere caricata interamente sulle sue spalle, affrontata con l’unico supporto dei reticoli sociali che riesce, gradualmente, a costruirsi e ad attivare.

L’arrivo in Liguria, non è pianificato, tuttavia si può configurare come un orientamento definito attraverso le informazioni e le occasioni fornite dal primo nucleo di un network migratorio in fase di costruzione che crescerà e si articolerà nel succedersi degli eventi che costellano il percorso biografico di An. All’inizio del suo soggiorno, An. per affrontare la questione della casa si orienta verso spazi inadatti all’uso abitativo (es. cantieri e/o stabili abbandonati) o ricorre all’ospitalità presso connazionali ed altri stranieri.

Il giudizio sul ruolo delle reti dei connazionali è critico. An. denuncia sia la difficoltà di adeguamento ai tempi e alle modalità di vita dei connazionali che subaffittano posti letto, sia la pratica dello sfruttamento.

Il percorso di stabilizzazione di An. passa attraverso tre, successivi, punti di svolta. Il primo di questi è rappresentato dall’ottenimento di una casa con un regolare contratto d’affitto, tre anni dopo il suo arrivo in Italia, tramite una persona (italiana) conosciuta sul lavoro. Si tratta di un momento molto importante per lui, che ricorda ancora con precisione il momento della consegna delle chiavi di quella che può essere considerata la sua prima “vera casa”. In questo senso, si può dire, inoltre che l’accesso al mercato immobiliare formale (contratto di affitto in regola) rappresenta lo sbocco di una dinamica di regolarizzazione che ha nel lavoro (contratto di lavoro in regola) e nella regolarità della presenza (titolo di soggiorno) i passi precedenti.

Il secondo punto di svolta è rappresentato dal ricongiungimento della moglie e di due dei loro tre figli, nel 2007. Si tratta di un momento di grande importanza, cui An. riesce ad arrivare ottenendo fiducia dal funzionario comunale incaricato di verificare l’abitabilità dell’immobile. Soprattutto, il ricongiungimento significa che il progetto abitativo da individuale diviene collettivo e che lo spazio dell’abitare torna – parzialmente – a sovrapporsi alla casa come luogo degli affetti e delle relazioni intime.

Il terzo punto di svolta è invece rappresentato dal cambiamento del titolo di possesso dell’alloggio, che avviene nel 2012, con l’acquisto della stessa casa presa in affitto nel 2012. categorie di grave esclusione abitativa: persone senza tetto; persone prive di una casa; persone che vivono in condizioni di insicurezza abitativa; persone che vivono in condizioni abitative inadeguate. Tutte le quattro categorie stanno comunque ad indicare l ’assenza di una (vera) abitazione. ETHOS perciò classifica le persone senza dimora e in grave marginalità in riferimento alla loro condizione abitativa. (URL: http://www.feantsa.org/download/it___8942556517175588858.pdf – Consultato l’ultima volta il: 13.08.2017)

In questo senso, An. è favorito da due fattori: a) il momento in cui acquista la casa, perché lo scoppio della bolla immobiliare comprime i valori di mercato delle abitazioni; b) la conoscenza pregressa con la padrona di casa.

In un articolo apparso su Etnografia e ricerca qualitativa, Cellamare (2011) mette in evidenza che le pratiche dell’abitare, se da una parte risultano condizionate da una molteplicità di fattori (politiche, modelli culturali dominanti, conformazione degli spazi, esigenze di distinzione sociale, ecc.), dall’altra possono esprimere forme di resistenza, tattiche, modelli culturali alternativi ma anche modalità di adattamento alle condizioni in cui le persone vivono e lavorano. In questo senso, le pratiche dell’abitare poste in essere da An. – come la brandina collocata, alla sera, nella cucina della casa dove An. lavora come badante, la roulotte dove si sistema quando lavora in un campeggio o la cabina della barca dove alloggia quando è impiegato a bordo di yacht – rappresentano situazioni abitative tattiche e impermanenti che, nondimeno, rivelano l’emergere di forme di resilienza ma che allo stesso tempo rendono tangibile la figura delworking homeless, evidenziata da Tosi (2010)

Nella definizione che ne dava Trasher [(1927; 20) traduzione mia] il concetto che fa riferimento al termine “interstiziale” si riferisce a “spazi che intercorrono tra una cosa e l’altra. In natura la materia estranea tende a raccogliersi e raggrumarsi in ogni spaccatura, fessura e crepa. Ci sono anche fenditure e rotture nella struttura dell’organizzazione sociale”. In questa sede, tuttavia, riteniamo che questo concetto non possa essere limitato solo ai requisiti fisico-morfologici dello spazio pubblico ma deve includere una pluralità di eventi e ambiti spaziotemporali, che si manifestano in relazione a specifiche dinamiche di interazione sociale. Come, ad esempio, la tipologia dei rapporti di lavoro in rapporto all’uso degli spazi.

In questo senso, l’esperienza di An., che si caratterizza per l’individuazione come luoghi dell’abitare in una serie di spazi effimeri e, per l’appunto, interstiziali legati all’attività lavorativa (e alle condizioni di precarietà con cui si manifesta), si rivela particolarmente interessante. An. individua in una serie di spazi frizionali – luoghi liminari che esistono solo nell’alternarsi dei tempi del lavoro con quelli dell’abitare – o frattali – luoghi all’interno di altri luoghi (di lavoro) – l’opportunità per fronteggiare, senza risolvere, il problema dell’abitare.

Anche le situazioni di abitazione presso il luogo di lavoro (ad esempio quando lavora come badante), che An. legge, comunque, in termini di miglioramento della propria condizione abitativa, non necessariamente implicano la disponibilità di uno spazio per sé. Anzi, nel caso riportato, si evidenzia come gli stessi spazi siano destinati a funzioni alternative, in diversi momenti della giornata.

Complessivamente si tratta di condizioni abitative marginali, in cui l’incerto confine tra la condizione di “senza tetto” e l’insicurezza derivante dalla sistemazione in spazi inadeguati all’abitare si fa ancora più tenue e contribuisce a produrre una condizione di forte difficoltà personale.

Anche senza considerare la scarsa adeguatezza dei “microspazi” individuati da An. all’uso abitativo, si tratta comunque di sistemazioni “hic et nunc”, delle quali è impossibile pensare il prolungarsi nel futuro e dalle quali è impossibile pensare un futuro.

In altre parole, la scelta di “abitare gli interstizi”, si rivela un’opzione utile ma “costosa”, perché l’abitare privato della proiezione temporale sembra mancare di un elemento costitutivo. Mary Douglas (1991), in merito, mette in chiaro che una casa (home) non è solo uno spazio ma è anche una struttura nel tempo. E che proprio in ragione della sua temporalità uno spazio fisico assume anche valori morali ed estetici. Dunque l’abitare “senza futuro” negli spazi interstiziali sperimentato da An., l’impossibilità di ricongiungere i familiari ricomponendo la casa e la “casata” (Bourdieu, 2004), l’impossibilità di appropriarsi di uno spazio, personalizzandolo, investendoci, ecc., è causa di disagio. E toglie dignità.

Nella prospettiva di ricostruzione, e rielaborazione, del suo percorso abitativo An. appare molto consapevole dei significati dell’abitare. Soprattutto, nella sua testimonianza si coglie chiaramente la relazione che intercorre tra l’abitare, nella molteplicità di forme che può assumere, e gli aspetti emotivi e relazionali. Perché la “casa e la sua particolare morfologia sono rappresentati con significato emotivo, sociale, fisico e simbolico attraverso modelli di interazione che si ripetono nel tempo”. [(Moore 2000; 10)traduzione mia]

In questo senso, la priorità che An. riconosce al problema abitativo non è solo legata al momento dell’arrivo ma si caratterizza come una tensione costante che lo accompagna fino al momento in cui riesce ad uscire dall’insicurezza abitativa, ottenendo una casa in affitto solo per lui. L’accesso ad un contratto di locazione in regola infatti gli permette di uscire da una situazione di precarietà che sembra “corrodere”, nel senso evidenziato da Sennett (1999), significativamente la sua condizione mentale e sociale. Abitare gli interstizi è faticoso, può comportare – per usare le parole di An. – “solitudine”, “star male”, vulnerabilità, “mancanza di tranquillità” e di “dignità”.

E, in questa chiave, è interessante osservare che il problema abitativo per An. non si configura tanto, o solo, come un problema di accesso alle opportunità di alloggio quanto come una questione di accesso alla qualità dell’abitare. Così, la scelta di alloggiare in spazi provvisori, impermanenti ed impropri, è leggibile come forma di risposta al, o tattica di evasione dal, sistema dei “mercanti di sonno”73e dalle condizioni di promiscuità che questa condizione abitativa comporta.

Viceversa, è l’accesso al contratto di locazione che consente ad An. di raggiungere quello che lui chiama il “vivere dignitosamente” e, in un secondo momento, di riunire la famiglia, dando un senso al suo percorso migratorio. L’accesso alla casa attraverso il mercato formale, in questo senso, si configura come una forma di (auto)realizzazione che rende possibili altre attività umane (King, 1996) e consente un investimento nel tempo, ovvero rende possibile immaginarsi nello stesso luogo anche nel futuro. La possibilità di accedere alla casa “in regola”, in altre parole, per An. si configura come un fattore di capacitazione, ovvero configura “una sorta di libertà: la libertà sostanziale di realizzare più combinazioni di funzionamenti (o detto in modo meno formale, di mettere in atto più stili di vita)” (Sen, 2000; 79)

73Con l’espressione francese “marchand de sommeil” ci si riferisce a persone che affittano, o subaffittano

case, appartamenti o posti letto, spesso in condizioni di sicurezza, salubrità e igieniche scarse, a persone in difficoltà.

La casa in affitto è un passo di avvicinamento verso quella che An. definisce come una condizione di appartenenza reciproca in forza della quale “la casa che appartiene a te” e, analogamente, “tu appartieni ad una casa”.

Nella visione espressa da An. la proprietà della casa è un elemento che conferisce “solidità” allo status dell’immigrato, che cessa di essere una persona “che oggi viene e domani se ne andrà” e, attraverso la casa, entra in relazione con la comunità locale (a partire da condomini e vicini di casa) e con il territorio, divenendo cittadino. Inoltre, evidenzia come dal diverso rapporto con l’immobile scaturisca una maggiore disponibilità a prendersene cura e ad investire risorse nel suo abbellimento e nella sua manutenzione.

Echeggiano, in merito, le considerazioni di Saunders (2016; 10) laddove sottolinea che “i proprietari sono maggiormente disponibili dei locatari ad investire di un senso di identità le loro case. (…) Spendono più tempo a lavorare in e nelle loro case (in generale ricavando un senso di soddisfazione dai risultati). E spesso sono più impegnati con i loro vicini immediati e le comunità locali”.

L’acquisto della casa dunque si configura come una strategia di radicamento ma non può essere ridotto solamente al mutamento del titolo di possesso dell’immobile.

Ancora Saunders (1990) mette in evidenza come l’aspirazione delle persone alla proprietà dell’abitazione, che sia dovuta ad un calcolo strumentale, o ad un desiderio personale, è espressione emotiva di autonomia, sicurezza o identità personale.

In questo senso, nella prospettiva di An., l’acquisto della casa dispiega effetti sull’identità dell’immigrato – decostruendo la sovrapposizione tra casa e paese d’origine, conferendogli accesso allo stile di vita agognato, modificane lo status sociale e permettendo la personalizzazione dello spazio abitativo – sulla sicurezza economica, perché la casa di proprietà è un patrimonio che può essere trasmesso ai figli o utilizzato in caso di problemi economici, e sulla sicurezza emotiva.

La testimonianza di An. Profilo dell’intervistato:

Sesso: Maschio

Classe d’età: 55 anni

Nazionalità: Ecuador

Titolo di studio: Diplomato

Condizione occupazionale: Occupato

Condizione abitativa attuale: Proprietario

In Italia dal: 2002

...la premessa è che è più difficile trovare una casa che un lavoro, ma partiamo da quando sono arrivato. Io sono arrivato il 28 gennaio del 2002. La prima cosa che ti viene da pensare è: “dove vado a vivere?” Perché la maggior parte di noi è venuto senza un punto di riferimento e l'unico punto di riferimento che avevamo era nazionale. Cioè l’Italia. (…)

In tutto questo contesto, era ovvio che la prima cosa che ti viene è "dove vado a vivere?"...non “dove vado a lavorare?” ma "dove vado a vivere?" Perché comunque, per ogni popolo, avere un tetto sulla testa è avere un po' di sicurezza nell'ambiente nel quale uno pensa a sviluppare la sua vita. Io in quel momento, questa cosa qua l'ho realizzata subito dopo che sono uscito dall'aeroporto di Malpensa. Quindi in quel momento lì, il freddo che faceva fuori mi ha fatto svegliare. Ho pensato: "guarda che è da qui che comincia veramente tutta la storia!". Io, devo dire, che fino a quel momento lì non avevo ancora realizzato cosa stavo facendo. E allora ho avuto la fortuna, comunque, di trovare qualche lavoro che mi ha permesso di avere un posto letto dove pernottare. E così è stato per molto, moltissimo tempo.

E così è stato fino al 2005, quando io, finalmente, ho trovato un posto tutto mio. Nel senso di potermi sentire padrone e signore del mio habitat. Tutto quello che è successo prima di lì è stato semplicemente una faticosa avventura. Perché trovare un posto dove poter vivere e fare la tua vita in modo dignitoso non era semplice.

Da una parte sono stati i connazionali a volerti fregare, nel senso che magari era qualcuno che già abitava qua da molto tempo prima, allora si approfittava della tua presenza per magari affittarti, non lo so, il divano... e magari prende, per quel divano lì, la metà dell'affitto totale. O altri che facevano di questo un vero affare, nel senso che si prendevano la casa, loro firmavano il contratto, e all'interno mandavano a vivere dieci, quindici

concittadini, divisi magari in tre/quattro stanze. A tre per stanza, quattro per stanza.

Quindi non era una cosa semplice perché comunque sia, io padrone di casa in Ecuador, padre di famiglia, capofamiglia mi trovavo a vivere in una situazione molto promiscua, alla quale non ero abituato. E quindi, l'avere il lavoro, sì è vero mi dava la tranquillità economica… ma quella emozionale, quella tranquillità emozionale, ovviamente, non l'ho trovata fino a che non ho avuto un posto dove andare a vivere. Andare a vivere, dignitosamente. Dire "questo spazio è tutto mio e qui comando io". Così è cominciata nel 2005 l'opportunità di andare a vivere a Vado Ligure, che tra l'altro mi sono trovato anche bene come cittadina, perché prima avevo vissuto un po' per tutta la Liguria e poi sono saltato, per un periodo, anche nella Lombardia, abitando a Milano, a Monza.

Un altro periodo della mia vita invece sono stato a vivere all'interno di una barca, perché ho fatto parte di un equipaggio in una stagione di un'estate del 2003 e da lì, per due anni, tutte le estati le passavo in barca.

Nel documento L'abitare migrante (pagine 158-184)