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Il gioco come arte e bellezza: note sulla concezione estetica del gioco

Nei due raggruppamenti sulla teoria del gioco come cultura e come metafora che abbiamo finora illustrato e analizzato ci siamo di frequente imbattuti in accenni che alludevano al gioco dal punto di vista delle sue caratteristiche estetiche, soprattutto in filosofia. Il ‘bel gioco’ di cui molti proverbi parlano ha fatto quindi capolino a più riprese nel pensiero dell’uno o dell’altro studioso, e i rimandi tra l’estetica e la teoria del gioco tessono una trama abbastanza fitta da meritare un approfondimento specifico in questa sezione. Ci dedicheremo quindi brevemente a esporre e problematizzare i legami tra gioco e bellezza e gioco e arte, con opportuni riferimenti ai maggiori pensatori che hanno esplorato questi nessi. Tali legami sono particolarmente rilevanti in questa tesi soprattutto per quanto riguarda l’aspetto del ‘ludico’: vedremo infatti come la bellezza, l’arte e la ‘ludicità’ siano intrinsecamente legate, ed emergano potentemente nei racconti che prenderemo in considerazione. Sarà dunque fondamentale costruire, in questo capitolo, strumenti ermeneutici per poter non solo riconoscere le manifestazioni del ‘ludico’ nei testi letterari, ma anche valutarne l’impatto e stabilirne le funzioni. Una preliminare dichiarazione da reiterare a questo punto, a mo’ di liberatoria, è che nell’esplorare il gioco nella sua connotazione estetica ci riferiremo soprattutto (sebbene non esclusivamente) al ‘ludico’, piuttosto che ai giochi, come anticipato poc’anzi: tale scelta metodologica è motivata dalla strettissima e privilegiata interazione tra il ‘ludico’ e l’arte, cui allude anche Miguel Sicart nel suo Play Matters, ponendo la questione in questi termini: “Games don’t matter that much. They are a manifestation, a form of and for play, just not the only one. They are the strongest form, culturally and economically dominant. But they are part of an ecology of playthings and play contexts, from toys to playgrounds, from political action to

aesthetic performance, through which play is used for expression”.1

Forme ludiche nella filosofia romantica di Kant e Schiller.

Alle prime visioni sul gioco elaborate in Grecia nell’età classica seguono secoli di relativa stasi; il discorso sul gioco ritorna oggetto di speculazione filosofica in maniera sistematica alla fine del diciottesimo secolo, più precisamente nella concezione estetica di Immanuel Kant, che se ne occupa nella Critica del giudizio (1790). In questo testo, il filosofo tedesco elabora una soluzione all’annoso problema della percezione del bello: il bello è naturale (e quindi intrinsecamente legato alla riproduzione mimetica della natura) o artistico (e quindi richiede un intervento intellettuale per essere prodotto e fruito)? E in che modo l’essere umano riesce a

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farne esperienza? Kant suggerisce che è il gioco a costituire la giunzione armonica tra la natura (innata e irrinunciabile) e l’arte (trascendente), mediando tra i due poli e confermando così la propria natura dualistica. Egli attribuisce dunque al libero e “armonico gioco dell’immaginazione e dell’intelletto, le due facoltà conoscitive del Giudizio”,2 il ruolo vitale di fondare il gusto estetico soggettivo. Grazie al gioco, dunque, l’essere umano è in grado di riconoscere e apprezzare la bellezza, che per Kant possiede gli elementi distintivi di libertà (dalla necessità, ovvero l’essere disinteressata) e autosufficienza del gioco aristotelico. Inoltre, nonostante anche in Kant si ritrovi netta l’opposizione tra bellezza e gioco piacevoli/lavoro faticoso e spiacevole, il filosofo recupera tuttavia la funzione biologica e pedagogica del gioco già espressa da Platone, come tappa fondamentale nello sviluppo degli esseri umani e dei mammiferi.3

Giacché nella concezione kantiana gioco e bellezza sono legati a doppio filo, in quanto la seconda emerge dal primo, sarà utile approfondire alcuni dei tratti principali della fruizione estetica per Kant. Essa non è soltanto oggetto di contemplazione, ma suscita piacere, e viene altresì descritta come profondamente morale: la bellezza, come i principi di giustizia, attinge e fa appello direttamente alla pura coscienza, dunque ciò che è bello viene ritenuto tale dal soggetto senza condizionamenti di tipo intellettuale o intervento della ragione. La bellezza è dunque al contempo soggettiva, in quanto non determinata da canoni oggettivi ma esperita diversamente da ogni soggetto, e universale, in quanto Kant precisa che “questo stato di libero

2 Immanuel Kant, Critica del giudizio, a cura di Alberto Bosi, Novara, UTET, 2013, p. 102.

3 Il discorso sul gioco in ambito psicologico è articolato in chiave cognitiva ed evolutiva da parte di studiosi come Jean Piaget, Erik H. Erikson, Lev Vygotsky e Jerome Bruner. Per Piaget, ad esempio, il gioco è il mezzo che il bambino ha per apprendere e consolidare determinate abilità sociali e comportamentali, nonché le proprie reazioni emotive. Lo psicologo svizzero individua diverse caratteristiche e funzioni del gioco in corrispondenza delle diverse fasi nello sviluppo intellettuale: una fase di esercizio, durante la quale è fondamentale la ripetizione, che implica miglioramento della performance e piacere nell’eseguirla; una fase imitativa, una fase simbolica, una fase di gioco normativo. Vygotsky, influenzato dallo spirito rivoluzionario marxista, coniuga il pensiero di Piaget a una visione più spiccatamente sociale e creativa, superando la concezione del gioco come puro sviluppo cognitivo e incorporando nell’idea di gioco quelle di azione, pensiero ed emozioni. Ma è Erikson, allievo di Freud, che ha collegato il gioco più marcatamente con lo sviluppo della persona nell’arco di tutta la vita. Erikson parte dall’assunto che siamo esseri in continuo sviluppo, dunque che l’essere umano vada studiato nel suo sviluppo psichico ed emotivo anche nelle fasi più avanzate della sua esistenza. Pertanto, per Erikson giocare non si lega semplicemente ad un surplus di energia o a un esercizio di creatività, bensì rappresenta un cimentarsi con le sfide poste dal confronto con la realtà tanto fisicamente, quanto cognitivamente ed emotivamente, in tutti gli stadi della vita. Particolare è infine il contributo di Jerome Bruner al quadro cognitivista: lo psicologo statunitense affronta il tema nei quattro volumi della sua opera Il gioco: ruolo e

sviluppo del comportamento ludico negli animali e nell'uomo, trasponendo il discorso dall’evoluzione individuale

del giocatore all’evoluzione dell’intera specie umana. Bruner accentua due principali aspetti del gioco in tal senso, ovvero quello del processo e del contesto: in primo luogo, infatti, egli ritiene che il fine del gioco sia secondario all’azione di gioco stesso, dando dunque un valore nettamente maggiore al suo aspetto procedurale; inoltre, il gioco risulta principalmente utile e spontaneo se si svolge in sicurezza, ovvero in uno spazio in cui le eventuali conseguenze nefaste del gioco siano limitate, e laddove i bisogni primari dei giocatori siano soddisfatti (proponendo così echi della teoria del surplus di energia).

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gioco delle facoltà conoscitive deve prestarsi ad essere universalmente comunicato”,4 e ne sancisce quindi l’ineluttabilità del riconoscimento della bellezza in senso assoluto. Le altre due caratteristiche proprie della bellezza in senso kantiano sono il fatto che essa è descritta come “finalità senza un fine” – ovvero viene riconosciuta la sua forma e compiutezza interna, che tuttavia non risultano funzionali a nessun ordine esterno – e “legalità senza legge” – in quanto la bellezza risponde a leggi proprie, o condivise esclusivamente dal fruitore che le accetta in quanto tali, ma non si adegua a nessuna imposizione esterna. Ci troviamo dunque di fronte ad una categoria che è morale, gratuita, piacevole e libera, fruita tramite l’interazione dei sensi, della ragione e di un terzo principio, quello appunto dell’immaginazione; un’ottica completamente inedita e a pieno titolo fondativa, come sottolinea Clementina Gily Reda nel suo studio filosofico sul gioco: “L’essenziale ottica kantiana fonda in un principio a priori la capacità di mettere in gioco il conoscere ed il fare, e già in questo trovano spiegazione l’autotelicità tipica del gioco, quella finalità solo a sé stesso così intensamente perseguita in ogni gioco, ed il piacere indistricabilmente connesso all’attività ludica.”5 Concedendoci una rapida quanto temporanea fuga in avanti di due secoli, vale la pena di riconoscere fin da ora il maggior limite della concezione romantica del gioco, tanto kantiana quanto schilleriana, e mi pare opportuno affidare questo compito allo sguardo (in questa sede più spiccatamente sociologico) di Pierre Bourdieu, che nel suo Le regole dell’Arte evidenzia: “(…) il gioco disinteressato della sensibilità e l’esercizio puro della facoltà di sentire, di cui parlava Kant, presuppongono condizioni storiche e sociali di possibilità del tutto particolari, essendo il piacere estetico – quel piacere puro ‘che deve essere provato da ogni uomo’ – un privilegio di coloro che possono accedere alla condizione economica e sociale nella quale la disposizione ‘pura’ e ‘disinteressata’ può costituirsi in maniera duratura”.6 Considerazioni ovviamente possibili soprattutto alla luce della rivoluzione del pensiero operata dal marxismo, e certamente di difficile elaborazione da parte di due filosofi romantici il cui lavoro è antecedente finanche al socialismo utopistico di Charles Fourier e Pierre-Joseph Proudhon.

Torniamo dunque alla fine del diciottesimo secolo, e vediamo come la dottrina estetica kantiana viene ripresa ed arricchita da Friedrich Schiller, il quale giunge a proporre, in termini inequivocabilmente romantici, una vera e propria pedagogia estetica fondata sul gioco. Nelle sue

Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795), infatti, Schiller pone la questione del dissidio interiore

dell’essere umano, che si trova scisso tra l’istinto sensibile e quello obbediente ai principi della ragione. Nessun essere umano sarebbe pertanto libero di percepire il mondo secondo la propria

4 Immanuel Kant, cit., p. 170.

5 Clementina Gily Reda, In-lusio. Il gioco come formazione estetica, www.scriptaweb.it, 2006, p. 128.

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sensibilità, poiché questa verrebbe costantemente ostacolata dalle istanze della ragione e oppressa dalle strutture convenzionali della società (che Herbert Marcuse, riprendendo Schiller, non esiterà a definire ‘repressive’). Tuttavia, Schiller puntualizza come non si possa pensare di vivere secondo il puro impulso sensibile in quanto, non venendo filtrato da alcuna barriera razionale, esso tenderebbe a disperdere le sensazioni non racchiuse in una forma; quel tipo di libertà non risponderebbe ai criteri morali che per Schiller sono imprescindibili in un’attività che sia a pieno titolo definibile come ‘libera’. L’elemento di conciliazione che permette di risolvere l’opposizione tra sensibilità e ragione è l’impulso del gioco: esso immetterebbe elementi di razionalità (quali ad esempio le regole da rispettare, o il campo entro i cui limiti si svolge il gioco) nell’istinto sensibile dell’essere umano, e viceversa libererebbe quest’ultimo dalla ‘tirannia’ morale della ragione: a questo proposito, celeberrima è la citazione schilleriana secondo la quale “l’uomo gioca soltanto quando è uomo nel senso pieno del termine, ed è interamente uomo solo laddove gioca”.7 Questa concezione avrà molta fortuna presso i filosofi della Scuola di Francoforte e verrà infatti ripresa ed ampliata (anche in modo più pessimistico, rivelandone ambiguità e paradossi) da Theodor Adorno, di cui ci occuperemo a breve più nel dettaglio; nella stessa sezione, vedremo altresì come Herbert Marcuse proporrà parimenti l’impulso del gioco come agente dell’emancipazione dall’ordine repressivo della società basata sulle dinamiche culturali ideologiche, denunciate proprio da Adorno.

Un passaggio importantissimo è quello per cui, secondo Schiller, l’oggetto del gioco è la bellezza: come vediamo, il filosofo ne recupera la teorizzazione kantiana (in particolar modo nelle sue caratteristiche di gratuità ed indipendenza da norme esterne), mostrando come essa confluisca naturalmente nell’idea di gioco, e come sia la bellezza che il gioco concorrano a comporre una nuova società (Schiller parla infatti nelle sue Lettere di un’educazione estetica da impartirsi ad ogni individuo al fine di affinarne la sensibilità artistica e purificarne la coscienza). Inoltre, il gioco in Schiller risulta un’esperienza estetica solo nel momento in cui l’impulso sensibile e quello razionale si trovino combinati in proporzioni armoniche e non gerarchizzate. La riflessione di Schiller è fondamentale tanto nella teoria del gioco quanto nello specifico di questa tesi: il filosofo tedesco è il primo a parlare di pulsione ludica, ovvero ad intendere il gioco come un mezzo per trascendere le crude necessità della vita, rompere le barriere tradizionali imposte dalla propria esistenza e dischiudere un orizzonte di libertà in chiave ludica. Questo concetto è fondamentale, in quanto le ‘pulsioni’, nella formulazione di Schiller, sono elementi di connessione tra il soggetto ed il mondo: laddove la pura pulsione fisica e sensibile si rivela in realtà un’esperienza della natura passiva (in quanto l’essere umano si ritrova 7 Friedrich Schiller, Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen, Nationalausgabe, Bd. 20, tr. di G. Pinna, L’educazione estetica, Aesthetica, Palermo 2005, p. 359/57.

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agìto dalle proprie necessità non mediate dalla ragione), la pulsione ludica combina aspetti della pulsione fisica e della pulsione formale in chiave attiva e trasformativa, agendo ed interagendo col mondo. Va tuttavia sottolineato che per Schiller il gioco è anche gioiosa esuberanza frutto di sovrabbondanza, un impulso che si manifesta e trabocca dall’ordinario esclusivamente quando le basilari necessità di sussistenza vengono esaudite; quest’argomentazione apre la strada alla (limitata) formalizzazione positivista del gioco come surplus di energia di Herbert Spencer,8 priva di valenza estetica e dell’afflato idealistico del discorso schilleriano.

Il ‘ludico’ come bellezza e arte in Huizinga

Nella sua approfondita e onnicomprensiva analisi sul gioco (o, come abbiamo appurato grazie ad Eco, sul ‘ludico’), Johan Huizinga non ha tralasciato di esplorarne le relazioni con la bellezza e l’arte. Vale la pena dunque di soffermarsi sulle considerazioni che, pur nel suo stile paratattico e talvolta scarno, il teorico olandese espone a proposito degli aspetti estetici del gioco.

Se dunque il gioco non si collega direttamente col vero né col buono, forse si trova allora nel dominio del bello? Qui esita il nostro giudizio. La bellezza non è inerente al gioco come tale, eppure esso ha una tendenza ad unirsi a svariati elementi di questa. Alle forme più primitive del gioco si uniscono sin dall’inizio la gentilezza e la grazia. La bellezza del corpo umano in movimento trova la sua massima espressione nel gioco. Nelle sue forme più evolute il gioco è intessuto di ritmo e d’armonia, le doti più nobili della facoltà percettiva estetica che siano date all’uomo. I vincoli tra gioco e bellezza sono molteplici e saldi.9

In questo primo passaggio, pur esitante in partenza, Huizinga conclude affermando in modo abbastanza risoluto le svariate connessioni tra gioco e bellezza; tant’è che il punto 6) delle caratteristiche del gioco huizinghiano sintetizzate nel primo capitolo in questa parte della tesi dichiara la tendenza del gioco ad essere anche bello. Questa nozione è rafforzata poche pagine dopo il passaggio testé citato, quando Huizinga sottolinea il legame tra la bellezza del gioco e l’equilibrio formale, l’armonia, il ritmo: il gioco contribuisce a creare ordine, e per descriverne la

8 Nei due volumi dei Principles of Psychology, a metà dell’Ottocento Herbert Spencer elabora la teoria del gioco come surplus di energia. Rifacendosi espressamente alla concezione estetica del gioco di Schiller, Spencer si libera dalle connotazioni di gioiosa trascendenza dell’esperienza ludica ed ipotizza una mansione di rilascio dell’energia accumulata in eccedenza, date condizioni di vita ottimali (che quindi implicano una piena soddisfazione dei bisogni primari dell’essere umano). Quest’attività ludica riguarderebbe specificamente le specie più evolute e sarebbe necessaria alla sopravvivenza e allo sviluppo delle stesse, in quanto fornirebbe gratificazione immediata e lo scarico del surplus di energia permetterebbe oltretutto un migliore utilizzo delle risorse in altre attività. Questa teoria presenta ovvi limiti, ma ha comunque avuto risposte più moderne nei teorici che attribuiscono al gioco accezione prevalentemente ricreativa e piacevole.

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regolarità impieghiamo termini afferenti al campo semantico dell’estetica. Nondimeno, quando procede ad esaminare il valore estetico della ‘gara’ e della tensione agonale, Huizinga rimarca che benché un gioco bello da guardare sia apoditticamente pregno di valore culturale, il suo valore estetico non è invece essenziale alla cultura: sembrerebbe dunque che la bellezza di un gioco sia imprescindibile solo quando si tratta, appunto, di ‘ludico’, piuttosto che di ‘gioco’ competitivo.

Tuttavia, Huizinga argomenta senza dare adito a dubbi lo stretto legame tra il gioco e l’arte, ritornandovi più volte e dedicando due capitoli separati rispettivamente a gioco e poesia e alle forme ludiche dell’arte. Nel primo, inizialmente senza esitazioni né oscillazioni nel campo del ‘gioco’, egli afferma che “Poiesis è una funzione ludica” .10 Dichiarata una delle funzioni più antiche della civiltà, ed essendo dunque irriducibile esclusivamente alla propria funzione estetica, nelle fasi arcaiche della cultura la poesia svolge anche funzioni sociali e liturgiche – il tutto in maniera separata dalle modalità espressive della “vita consueta”; Huizinga soggiunge altresì che per cogliere appieno il senso ludico della poesia bisogna “sapersi vestire dell’anima del bambino”11 e accettarne la saggezza (rievocando ancora una volta il fanciullo eracliteo e nietzschiano). Notiamo già qui emergere alcune delle contraddizioni tipiche dell’argomentazione huizinghiana: pur asserendo immediatamente le funzioni ulteriori della poesia rispetto a quella estetica (e quindi implicitamente minimizzando la portata di quest’ultima), Huizinga indugia a lungo nel delinearne le caratteristiche formali che la connotano come ludica, esaminandole tuttavia da un’angolazione prettamente estetica: regole metriche, inscrizione in uno spazio limitato (i versi), ritmo specifico, costruzione simmetrica della frase, metafore, tensione narrativa (di cui lo studioso olandese esalta prevalentemente i tratti agonistici). Huizinga si spinge finanche ad affermare: “Poeta è colui che sa parlare il linguaggio dell’arte. Il linguaggio poetico si distingue da quello solito giacché s’esprime intenzionalmente in immagini speciali non intellegibili al primo venuto. Ogni lingua è espressione in immagini. […] Quel che il linguaggio poetico fa con le immagini è un gioco”.12 In poche pagine, dunque, Huizinga attraversa cultura, poesia, gioco ed arte, aprendone i confini e condensandoli in un unico concetto, forse disomogeneo e sicuramente in alcuni punti oscuro, ma compatto.

Ed è proprio a questo legame (che egli stesso descrive come problematico, dal momento che l’intimità del rapporto di gioco e poesia quasi compromette l’indipendenza semantica dei due) che Huizinga si aggancia per sviscerare la relazione tra gioco e musica. Il suo compito è impegnativo, ma di certo non complesso: la prima comunanza viene infatti rintracciata nella

10 Johan Huizinga, cit. p. 140. 11 Ibid.

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natura linguistica di questa unione (in numerose lingue, infatti, ‘giocare’ è polisemico e annovera tra i suoi significati quello di ‘suonare’). Huizinga, esplorando anche il pensiero platonico e aristotelico, procede poi a passare in rassegna le comunanze tra gioco e musica, ovvero: l’essere situato al di fuori della vita ‘ordinaria’, l’essere disinteressato, libero e al di là della razionalità, il possedere ritmo e armonia, e appunto l’unione col linguaggio poetico, l’autotelismo, finanche il fine etico. Inoltre, tutto ciò che per Huizinga vale per la musica è applicabile alla danza, che egli definisce “la sua inseparabile arte gemella”,13 e su cui dichiara di non volersi trattenere a lungo proprio per quanto acclarati sono i punti di contatto (se non, a suo dire, la totale assimilazione) col gioco.

Infine, Huizinga esclude quasi del tutto il carattere ludico nell’arte plastica e figurativa, le quali sono prive del dinamismo e della ‘ludicità procedurale’ ravvisabili in poesia, musica e danza. Nella sua ottica, tali arti producono opere essenzialmente non-ludiche per due motivi: il primo è legato alla committenza, il secondo alla noia (che innesca ciò che lui definisce “un vano giocare”). Nel primo caso, alcune caratteristiche primarie del gioco, ovvero la gratuità e il disinteresse, verrebbero a mancare, e laddove quelle creazioni artistiche rispecchiassero criteri estetici (di per sé propri del gioco), ciò avverebbe in modo irreggimentato nei canoni vigenti, e nel rispetto della funzione d’arrivo dell’opera. Nel secondo caso, invece, ovvero nel momento in cui ci si dedichi all’arte figurativa per inerzia, senza un progetto artistico particolare, pur essendo ripristinati gli elementi di gratuità e disinteresse verrebbero a mancare i parametri formali che creano lo stile e a tutti gli effetti incorniciano le attività ludiche (soprattutto, diremmo noi, i giochi). In entrambi i casi, insomma, Huizinga si mostra scettico rispetto alla possibilità di considerare ludiche l’arte plastica e figurativa.

Concludiamo quest’indagine con alcuni commenti. Ancora una volta, si rileva che l’ambiguità con la quale Huizinga oscilla dal ‘gioco’ al ‘ludico’, utilizzando i termini (ed i concetti ad essi soggiacenti) in modo intercambiabile, mina la solidità del suo stesso discorso, favorendo