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Dopo aver esplorato le speculazioni degli studiosi che hanno lavorato sulle declinazioni del gioco nella cultura (talvolta relegandolo a un ruolo marginale, talvolta identificando i due come categorie inestricabili e interdipendenti), è il momento di dedicarci ai teorici che hanno voluto indagare il gioco in chiave metaforica. Questa sezione, infatti, raccoglie e passa in rassegna studiosi che, a seconda delle proprie discipline di competenza, hanno affidato l’immagine del gioco ad una o più metafore che ne spiegassero il funzionamento e le ricadute. Come vedremo, non di rado questa modalità illustrativa è stata prediletta dal linguaggio filosofico, nel quale rientra a pieno titolo; tuttavia, anche numerosi sociologi si sono serviti del gioco come simbolo per proporre una lettura della società e dei suoi meccanismi intrinseci di potere e relazionali, soprattutto a partire dagli anni Sessanta del Novecento. In quest’ottica, il gioco si presta come ‘campo’ (espressione cara a Pierre Bourdieu, come vedremo a breve) di analisi profondamente legato al contesto in cui tali dinamiche si attualizzano, e sarà altresì ricorrente la riflessione (già presente in Huizinga con la nozione di ‘cerchio magico’) sulle cornici entro le quali il gioco si svolge, e che separano quest’ultimo dalla vita ordinaria.

Dall’antichità alle soglie della modernità: Eraclito e Nietzsche.

In questa sezione conosciamo più da vicino il pensiero del primo filosofo greco di cui ci sono pervenute attestazioni scritte relative al gioco, il già menzionato Eraclito, vissuto tra il sesto e il quarto secolo A.C. Nel frammento 48 egli scrive: “Il tempo [della vita] è un bimbo che gioca, con le tessere di una scacchiera: di un bimbo è il regno”.1 Riferendosi ad un tipo di gioco libero e tendenzialmente anarchico, Eraclito combina quindi in un’unica formula la casualità degli eventi che animano il corso della vita e la rilevanza del gioco stesso: sembra inoltre esortare gli esseri umani a rapportarsi al tempo della propria vita ludicamente, con la leggerezza ma anche la concentrazione di un bambino che gioca. Insomma, Eraclito assegna al gioco un posto di rilievo nella sua filosofia, delineando un’attività situata nel tempo e simultaneamente in grado di gestirlo e distorcerlo: vedremo come quest’allegoria avrà una notevole eco nel lavoro dei filosofi moderni, a partire da Friedrich Nietzsche.

Nietzsche infatti riconosce in Eraclito uno dei suoi maestri e già nelle sue prime opere ascrive proprio alla filosofia eraclitea la sua visione del gioco, che si evolve e ritorna anche nella sua produzione filosofica successiva. Ne La filosofia nell’epoca tragica dei greci (suo libro

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giovanile incompleto e mai pubblicato), egli associa l’immagine dell’artista a quella del bambino di Eraclito che gioca con il corso del tempo in modo spontaneo e innocente, un bambino che crea guidato dal proprio puro istinto poietico. Questo fanciullo/artista risponde esclusivamente al suo ordine interiore, quindi opera svincolato da ogni moralità, e senza alcun altro fine se non il portare nel mondo leggerezza e bellezza. L’immagine del bambino di Eraclito viene evocata ancora una volta ne La nascita della tragedia (1872), in cui Nietzsche descrive il gioco, assieme alla lotta tra apollineo e dionisiaco, come “la forza plasmatrice del mondo”.2 In Nietzsche, dunque, la concezione estetica del gioco già presente in Kant e Schiller (cui verrà dedicato ampio spazio nella prossima sezione) si ripresenta sotto forma di un dio artista, fanciullesco e giocatore, che crea mondi al di là del bene e del male: stavolta dunque l’‘estetica ludica’ è scevra di qualsivoglia valore morale o funzione pedagogica. Tuttavia il destino di questo bambino così spensierato non è quello di ricoprire un ruolo giullaresco, nella filosofia di Nietzsche: è nelle opere mature, e più precisamente in Così parlò Zarathustra (1885), che il filosofo lo designa come incarnazione dell’ultima delle tre metamorfosi, quella appunto del ‘fanciullo’. In uno dei capitoli d’apertura del libro, nonché uno dei più celebri, il profeta Zarathustra illustra le tre metamorfosi che lo spirito deve attraversare per evolversi in superuomo/oltreuomo. La prima figura, quella del cammello, simboleggia lo spirito di abnegazione e la capacità di tollerare il peso delle sofferenze imposte dalla società e, più in generale, dalla vita. Al cammello subentra il leone, che al contrario rappresenta la ribellione, lo sprezzo verso tutto ciò che è tradizione e gerarchia, la volontà di autodeterminarsi. Tuttavia Zarathustra osserva che il leone, in tutta la sua folle e prepotente aggressività, pur riuscendo a “prendersi la libertà di stabilire nuovi valori”,3non è capace di realizzare costruttivamente un nuovo mondo; è proprio questo il compito del bambino. Il bambino infatti, nella sua innocenza e inconsapevolezza delle regole morali imposte dall’ordine precedente, è in grado di affermarsi nella dimensione ludica della creazione: Nietzsche (attraverso Zarathustra) evidenzia come il bambino sia in grado di abbracciare la casualità di un gioco le cui dinamiche non governa direttamente (giacché la sua creazione è al di là della morale normativa), ma che tuttavia ha il potere di plasmare. È interessante notare come il bambino qui descritto non rappresenti una regressione all’infanzia, al contrario: viene proposto come il punto massimo dell’evoluzione umana. Nietzsche, come Eraclito prima di lui, sta ponendo il gioco in un dialogo paritetico con la divinità, individuando nella leggerezza che lo caratterizza una potenza creativa inedita e inconsapevolmente assennata.

2 Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 1977, p. 160.

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I giochi linguistici di Wittgenstein

È l’eclettico filosofo austriaco, poi naturalizzato inglese, Ludwig Wittgenstein a traghettare il gioco nel secolo che ne ha visto la più intensa teorizzazione. Alla stregua di gran parte delle sue riflessioni filosofiche, anche l’indagine sui giochi linguistici di Wittgenstein è stata elaborata in due momenti. Il suo Tractatus Logico-Philosophicus del 1921 è percorso dall’ossessione speculativa concernente il linguaggio nel suo rapporto con il mondo: nell’ottica del primo Wittgenstein, la struttura della lingua limita la possibilità di poter spiegare e comprendere il mondo, e finanche la filosofia ha il compito di tacere quando lo strumento della lingua diventa insufficiente ad esprimere le complessità dei fenomeni. Questa concezione squisitamente denotativa del rapporto tra parola e significato viene completamente capovolta nelle sue Ricerche

filosofiche, pubblicate postume nel 1953: le sue esperienze di vita, le osservazioni sul campo e lo

studio incessante portano l’ultimo Wittgenstein a convincersi che indagare la relazione che intercorre tra parola e significato sia una questione secondaria. Questa corrispondenza viene teorizzata come sostanzialmente arbitraria, in quanto le parole assumono un significato differente a seconda degli ambiti e delle funzioni con cui vengono usate, pertanto ciò che conta è primariamente il contesto in cui il linguaggio si articola. Il filosofo si allontana così da una concezione logica della lingua e delle sue possibilità, concentrandosi piuttosto sugli aspetti concreti e le infinite possibilità combinatorie che essa offre: ed è proprio in questa prospettiva che diventa fondamentale nella sua speculazione la nozione di ‘gioco linguistico’.

Wittgenstein utilizza l’immagine del gioco associandola al linguaggio per dei precisi motivi intrinseci al gioco stesso. Innanzitutto, il linguaggio consiste in una costante reinterpretazione di significati a dispetto delle limitazioni imposte dalla struttura della lingua, così come i giochi linguistici sono una riproposizione e reinvenzione di schemi di gioco, che si attualizzano confrontandosi costantemente con le regole che li limitano. Le regole dei giochi tuttavia non necessariamente né sistematicamente vengono rese esplicite, così come non sempre vengono esplicitati tutti i livelli di significato delle parole; quest’elusività permette pertanto un certo margine di evoluzione tanto nei giochi quanto nel linguaggio, che si possono ridefinire e modificare senza per forza registrare questo processo istituzionalmente, ma solo tramite il tacito assenso dei giocatori/comunicatori. Infine, tanto nei giochi linguistici quanto nell’apprendimento del linguaggio, i giochi sono soggetti a frequenti ripetizioni. In questo intreccio di rimandi tra la metafora del gioco e il linguaggio, il compito della filosofia è quello di spiegare le tortuosità e sanare le ferite determinate dai fallimenti del linguaggio e dall’impossibilità di comunicare tra giochi che seguono regole (e dunque, linguaggi che utilizzano grammatiche) diverse.

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Ciò che nell’argomentazione di Wittgenstein appare più stimolante e moderno è la concezione del gioco come concetto instabile e molteplice, attributo valorizzato in modo retorico anche da Pier Aldo Rovatti, in un suo articolo su Wittgenstein in aut aut:

Ma l’oscillazione potrebbe anche condurci al cuore della questione. E se Wittgenstein arrivasse proprio alla conclusione che il gioco è qualcosa di sfuggente e cercasse in effetti di valorizzare questa conclusione? Se ciò che non gli sfugge fosse precisamente la natura sfuggente del gioco? E magari proprio il carattere oscillante che lo contraddistingue, che fa sì che esso produca i suoi effetti (appunto squilibranti) e gli conferisce uno speciale pregio filosofico?4

Legato alle regole ma non in maniera inesorabile, soggetto a ridefinizione costante e avente codificazione talvolta implicita e sfumata, quello di Wittgenstein è un gioco dall’esito aperto che si sottrae al dogmatismo e in quanto tale produce sovversioni e variazioni inedite; questa prospettiva sembra essere il punto di partenza dell’influente riflessione di Brian Sutton- Smith, che chiude il ‘secolo del gioco’ nel 1997 intitolando eloquentemente il suo trattato The

Ambiguity of Play ed affermando che “the nature of play itself frustrates fixed meaning”.5 Altro

punto notevole del pensiero di Wittgenstein è il riferimento alla possibilità di alterazione non dichiarata, per così dire “intuitiva”, delle regole del gioco: laddove questa pratica, osservabile nel quotidiano, presenta aspetti scivolosi e critici, che rischiano effettivamente di svuotare il gioco di alcune delle sue caratteristiche essenziali, essa si rivela anche potenzialmente scardinante, se appropriata in chiave trasgressiva da singoli o gruppi di giocatori intenzionati a prendere in mano le redini del gioco in modo, per così dire, clandestino, ovvero bypassando le gerarchie istituzionali della struttura del gioco. Sarà particolarmente interessante porre in dialogo questo specifico punto elaborato da Wittgenstein sulle regole del gioco con il discorso metacomunicativo di Gregory Bateson e quello sulla lusory attitude di Bernard Suits. Va inoltre rilevato come quest’interpretazione si riveli fruttuosa se si evidenzia l’accezione non ludica che Wittgenstein attribuisce ai giochi linguistici: questa prospettiva teorica apre il campo a una varietà molto consistente di interpretazioni degli atti linguistici come “mosse”, e particolarmente interessante in questo senso è l’approfondimento in ambito transazionale di Eric Berne.6

4 Pier Aldo Rovatti, “Il gioco di Wittgenstein”, in AA. VV., aut aut 337 (2008), Milano, Il Saggiatore, edizione del Kindle.

5 Brian Sutton-Smith, “Play Theory. A Personal Journey and New Thoughts”, in James E. Johnson, Scott G. Eberle, Thomas S. Henricks, David Kuschner, a cura di, The Handbook of The Study of Play, Lanham, Md, Rowman & Littlefield, 2015, p. 239.

6 Eric Berne, fondatore dell’analisi transazionale, in base alla quale l’interazione strategica è interpretata come gioco, deve parte della sua popolarità proprio a questo legame con il gioco: nel suo celebre A che

gioco giochiamo, del 1964, lo psicologo canadese considera infatti “giochi” tutte quelle transazioni sociali

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“Questo è un gioco”. Paradossi e metacomunicazione in Gregory Bateson La prima cosa che colpisce del lavoro di Gregory Bateson è la sua versatilità intellettuale: antropologo, sociologo, psicologo, ma anche in qualche misura semiologo, studioso di cibernetica e, secondo alcuni, anche filosofo. Il suo status da battitore libero del sapere, affiancato da uno stile di scrittura spiazzante e non sempre “consono” alla disciplina o al pubblico di riferimento, non poteva non attrarlo a misurarsi anche col discorso sul gioco – sfida che Bateson affronta in due testi specifici: The Message “This Is Play” (la cui edizione italiana, cui mi riferisco in questa tesi, si intitola Questo è un gioco. Perché non si può mai dire a qualcuno:

“Gioca!”) ed il saggio “A Theory of Play and Fantasy”, in Steps to an Ecology of Mind (tr. it. “Una

teoria del gioco e della fantasia” in Verso un’ecologia della mente), entrambi concepiti negli anni Cinquanta.

Questo è un gioco prende le mosse da una tavola rotonda tenutasi in occasione di un

convegno a Princeton nel 1955 tra studiosi afferenti a diverse discipline, tra cui Erik Erikson e Margaret Mead, successivamente trascritta e pubblicata in forma di libro. Bateson è sostanzialmente il provocatore e l’animatore di questo dibattito multivocale e interdisciplinare avente come argomento, naturalmente, il gioco: la sua natura, i suoi limiti, le sue regole, il suo scopo. Numerosi, appassionanti e altrettanto dispersivi sono gli spunti che emergono da questa discussione, durante la quale ben presto il lettore si rende conto che il fulcro dell’argomentazione è la discussione stessa, e che all’avvicendarsi dei turni di parola dei relatori e delle domande di Bateson corrisponde una pluralità di punti di vista e una sovrapposizione di campi disciplinari che rende impossibile trarre delle vere e proprie conclusioni; mi soffermerò dunque in questa sede solo su alcuni punti, a mio parere più rilevanti, sollevati proprio da Bateson. Il primo assunto che ci interessa è sapientemente sintetizzato dal filosofo Alfonso Maurizio Iacono come segue: “Gregory Bateson tende a interpretare il gioco come mimesi, anche se tale interpretazione comporta, a sua volta, un’idea particolare di mimesi, che si presenta come un riferimento rispetto a cui può prendere corpo la nozione di differenza. Imitare una guerra per gioco, non

vere e proprie mosse; in particolare, Berne ritiene che la spinta iniziale a giocare avvenga sull’onda di emozioni, che però nel gioco sottostanno singolarmente a regole ben precise, e che le sequenze del gioco obbediscano a degli stimoli dell’individuo a ricevere comprensione e riconoscimento (che egli chiama carezze emotive) da parte dell’altro partner di gioco. Intesi in tale prospettiva, le interazioni basate su di una programmazione individuale piuttosto che sociale sono interpretabili come giochi. Importanti caratteristiche attribuite da Berne al gioco – nell’accezione di cui sopra – sono il fatto che esso possiede un tornaconto e la sua funzione sociale di soddisfacente strutturazione del tempo. In alcuni casi, i giochi praticati (siano essi tossici o no) sono essenziali alla salute mentale dei giocatori, nonché una componente rilevante di equilibrio nel loro rapporto.

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significa fare la guerra, ma fare, per così dire, la non-guerra”.7 Bateson dunque concepisce il gioco come una sorta di rituale mimetico interattivo, che si costituisce in chiave negativa, come un “non” che delimita, pur lasciando un margine di sviluppo creativo; un processo ripetitivo, che si svolge per il puro piacere dello svolgersi. In questo punto, come in alcuni altri, lo studioso britannico incappa in una delle contraddizioni che segnano le sue opere sul gioco, affermando che una delle caratteristiche del gioco è quella di essere sì legato al ‘reale’, ma di non avere conseguenze su di esso. Chiaramente, il semplice fatto che esistano professioni che intersecano il ‘ludico’ e la vera e propria attività lavorativa retribuita, come le professioni del teatro, della danza, dello sport, implica una transazione finanziaria che è decisamente una conseguenza di pratiche ‘ludiche’ e ha un impatto misurabile sul quotidiano di chi la pratica.

Altro nodo teorico posto da Bateson in Questo è un gioco è l’analogia tra la cultura come sistema di categorie concettuali stratificate e quella di una cipolla che ha bucce/cornici contestuali sovrapposte. Secondo Bateson, il gioco è il modo attraverso cui impariamo a decodificare queste categorie culturali e concettuali, intuendone la stratificazione: egli adduce l’esempio di un bambino che giochi a fare l’arcivescovo, sostenendo che, benché sia difficile che a quel bambino interessi fare effettivamente l’arcivescovo, giocando ad essere un arcivescovo egli faccia esperienza di portamento, registro, comportamento propri di quel ruolo, e che tutte queste cornici contestuali da cui il bambino entra ed esce giocosamente si sovrappongano l’una all’altra come bucce di cipolla. Bateson precisa altresì che queste cornici/bucce debbono stare tra loro in relazioni paradossali, per l’appunto giocose, che permettano il dispiegarsi di accenti creativi e non rischino di frustrare il passaggio da una buccia/cornice all’altra. Torneremo a breve, occupandoci del secondo saggio sul gioco di Bateson, sui concetti di ‘paradosso’ e ‘cornice’, che sono strettamente connessi.

Il messaggio di fondo a tutto il dibattito di Questo è un gioco è l’ambiguità del gioco stesso: dopo molteplici, suggestivi tentativi, come da copione gli studiosi convocati non pervengono a una definizione unanime, se non forse ad una sperimentale ed in fieri (non dissimile da quelle di Huizinga e Caillois). Lo stesso Bateson pare confermare il trionfo di quest’affascinante ambiguità, concludendo che tutto ciò che gli interessava in primis era creare la discussione e mettere sotto i riflettori il gioco, facendo scomparire il commentatore. Sembra negativa, invece, la risposta alla pur lungamente dibattuta domanda che in un certo senso apre il libro, con il titolo, e ne chiude la speculazione ludica, ovvero l’interrogativo sulla possibilità o meno di prescrivere un gioco: nel momento stesso in cui viene prescritto, il gioco cessa di avere alcune delle sue caratteristiche principali, come quella della spontaneità e della motivazione a 7 Alfonso Maurizio Iacono, “Bateson e Winnicott: il gioco e i mondi intermedi”, in Exăgère, 6, 2018, accessibile online: https://www.exagere.it/bateson-e-winnicott-il-gioco-e-i-mondi-intermedi/.

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giocare, e quella dell’immersione (difficile infatti essere “presenti nel gioco”, se esso è stato imposto da altrui).

Verso un’ecologia della mente è una raccolta di saggi pubblicata nel 1972 e contiene due

brevi testi dedicati al gioco. Il primo, “Dei giochi e della serietà”, è un metalogo, ovvero una conversazione su un argomento problematico: in questo caso, una conversazione tra un padre ed una figlia su giochi, regole e serietà. Questo particolare metalogo si dimostra più un esercizio intellettuale che un passaggio davvero illuminante per quanto riguarda il pensiero di Bateson sul gioco; il contenuto più importante che se ne desume è che anche i giochi non competitivi, o individuali, prevedono delle regole per potersi definire tali – pena la perdita dello statuto di ‘gioco’. “Una teoria del gioco e della fantasia”, invece, è un denso saggio che concentra i concetti principali di Bateson sul gioco; uno di essi, già delineato, è quello del gioco come concettualizzato in chiave negativa di una realtà imitata: “da ciò che si è detto fin qui risulta che il gioco è un fenomeno in cui le azioni di ‘gioco’ sono collegate a, o denotano, altre azioni di ‘non gioco’. Di conseguenza, nel gioco ci si imbatte in un esempio di segnali che stanno per altri eventi, e quindi risulta chiaro che l’evoluzione del gioco può essere stata una tappa importante nell'evoluzione della comunicazione”.8 L’attenzione posta sulla comunicazione e sull’essenza del gioco come fenomeno negativo della ‘realtà’ è un punto centrale del discorso batesoniano, giacché è proprio questo studioso a introdurre nella teoria del gioco il discorso sui segnali metacomunicativi. La sua riflessione parte dall’osservazione di due scimmie che giocano: entrambe cominciano a simulare una lotta e a darsi dei morsi che tuttavia non sono morsi aggressivi o dolorosi, in quanto i due animali si sono scambiati (prima e durante il conflitto) dei segnali atti a denotare la serie di azioni a seguire come gioco e non come vero combattimento. Bateson aggiunge che gli esseri umani si trasmettono i medesimi segnali, talvolta impliciti e non- verbali, altre volte (come spesso avviene nel caso dei bambini) espliciti e verbali; tuttavia, questo tipo di comunicazione è intrinsecamente paradossale, in quanto il messaggio “questo è un gioco” presuppone un’“accettazione consapevole di un’illusione”9 che simula la realtà: accettando tale messaggio, si accetta di immergersi seriamente in un’attività non seria eppure perfettamente mimetica (e in alcuni casi propedeutica e funzionale) alla realtà stessa da cui essa è astratta. Per Bateson, ciò è anche la conseguenza della compenetrazione di contesti che il gioco implica, richiedendo un codice di segnali che denotano qualcosa di inesistente eppure ancorato ad un referente comune, condiviso in maniera concettuale dai giocatori.

Strettamente legate, pertanto, in Bateson, sono la nozione di contesto, che fornisce