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“The names change but the game stays the same”

Malcolm X. La breve vita di Toni Cade Bambara è trascorsa parallelamente al fermento culturale che l’autrice afroamericana ha animato e di cui è stata parte, nonché alle battaglie che ha combattuto. Nata ad Harlem nel 1939 e registrata all’anagrafe come Miltona Mirkin Cade, fin dai primi anni di vita la futura autrice e agitatrice dimostra un’assertività fuori del comune: ai tempi dell’asilo infatti decide di abbreviare il suo nome in Toni, mentre la risoluzione di cambiare legalmente il suo nome arriva nel 1970. Toni Cade sceglie di aggiungere al proprio nome l’appellativo “Bambara” che aveva scoperto, usato come firma, in un album custodito in un baule di proprietà di sua nonna. “Bambara” non è una parola neutra, bensì è il nome del principale gruppo etnico presente in Mali, nonché la lingua parlata dalla popolazione di quel luogo; assumendo dunque come parte del proprio nome tale termine, Bambara compie un’operazione simbolica simultaneamente politica (qualificandosi come discendente di una popolazione africana in anni cruciali di rivendicazioni dell’identità diasporica nera), identitaria (rifondando la propria individualità, peraltro senza rifiutare il portato genitoriale) e creativa (il termine ‘Bambara’ designa letteralmente un idioma, e la sperimentazione linguistica è uno dei tratti distintivi della prosa di Bambara). La figura (per quanto idealizzata) della nonna, che incoraggia indirettamente l’acquisizione del nuovo nome, ha un posto molto importante tra le ispiratrici di Toni Cade Bambara, assieme a quella della madre, che ha sempre stimolato nell’autrice il pensiero critico, la creatività, l’orgoglio razziale; non è un caso dunque che nella produzione narrativa di Bambara i personaggi femminili siano ritratti in modo straordinariamente intenso.

L’impegno politico e letterario di Bambara sono interdipendenti e contemporanei, tanto che l’autrice stessa amava definirsi una ‘cultural worker’. Nello stesso anno in cui riceve il suo BA in Theater Arts/English (1959), Bambara pubblica anche il suo primo racconto, “Sweet Town”, per il quale riceve un premio; questi due eventi segnano l’inizio della sua carriera di autrice e studiosa. Allo stesso tempo, durante quegli anni, mentre completa gli studi e ne approfondisce gli aspetti ‘ludici’, come il mimo e soprattutto la danza, Bambara comincia il suo lavoro prima nel reparto psichiatrico del Metropolitan Hospital di New York City attraverso progetti di teatro e danza, poi in veste di insegnante in vari college, e al contempo come attivista in associazioni e gruppi per la salute e l’inserimento della comunità afroamericana nel tessuto accademico (ad esempio il programma SEEK, Search for Education, Elevation, Knowledge al

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City College di New York). Il tutto parallelamente ad un coinvolgimento sempre maggiore nel movimento per i diritti civili, in collettivi femministi e nel movimento pacifista, che la vede viaggiare anche a Cuba e in Vietnam, per informarsi sulle forme di aggregazione e resistenza delle donne in quei contesti.

I confini della militanza politica e di quella letteraria di Bambara si fondono nella sua produzione saggistica e nelle antologie di autrici afroamericane da lei curate, soprattutto la celebre The Black Woman del 1970, che contiene poesia, racconti e saggi di varie autrici politicamente impegnate, tra cui Bambara stessa, Nikki Giovanni, Audre Lorde ed Alice Walker.

The Black Woman non è “soltanto” un manifesto della condizione, della consapevolezza e degli

obiettivi di artiste afroamericane che scrivono all’apice conclusivo del periodo di maggior fermento della storia recente statunitense dal punto di vista delle rivendicazioni femministe e per i diritti civili (quantomeno fino ai più recenti e digitalmente virali #metoo e #blacklivesmatter). È anche un volume risolutamente anticapitalista, che punta il dito contro le specifiche radici socioeconomiche all’origine dell’oppressione su base razziale e di genere; un atto di accusa non edulcorato al sessismo imperante nel black power movement; una denuncia delle condizioni di svantaggio sociale presenti nei ghetti urbani; una rivendicazione della necessità di una sessualità libera e de-codificata. La seconda antologia, curata nel 1971 e dal titolo Tales and

Stories for Black Folks, dà grande risalto all’importanza della storia orale e del folklore nella

comunità afroamericana ed è diretta a lettori e lettrici nell’età dell’infanzia ed adolescenti; significativamente, il volume accoglie contributi di studiosi di fama acclarata assieme a quelli degli studenti di Bambara del programma per scrittori emergenti di Fort Greene e a quelli delle Newark Mamas, madri che hanno ripreso gli studi universitari in seguito ad un’interruzione per occuparsi dei figli. Nel 1981, inoltre, Bambara scrive la prefazione del pioneristico ed eclettico volume curato da Gloria Anzaldúa and Cherríe Moraga, This Bridge Called My Back, un’antologia caposaldo del pensiero femminista scritta da donne di colore.

I temi su menzionati ritornano nei racconti e nei romanzi di Bambara, in un continuum che salda teoria, prassi e sperimentazione. L’autrice pubblica due raccolte di racconti, Gorilla, My

Love (nel 1972, che raccoglie racconti scritti a partire dal 1959) e The Sea Birds Are Still Alive, nel

1977; per sua stessa ammissione, la forma racconto è quella che predilige,1 tuttavia non disdegna la scrittura di romanzi, pubblicando nel 1980 The Salt Eaters, che viene insignito di vari premi,

1 Thabiti Lewis e Toni Cade Bambara, a cura di, Conversations with Toni Cade Bambara, Jackson, University Press of Mississippi, 2012, p. 12: “I prefer the short story genre because it’s quick, it makes a modest appeal for attention, it can creep up on you on your blind side. The reader comes to the short story with a mind-set different than that with which he approaches the big book, and a different set of controls operating, which is why I think the short story is far more effective in terms of teaching us lessons. (…) And yes, I consider myself primarily a short story writer”.

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tra cui l’American Book Award ed il Langston Hughes Society Award. These Bones Are Not My

Child è il secondo romanzo di Bambara: frutto di più di dieci anni di ricerca, esce postumo nel

1999, grazie allo sforzo sapiente dell’amica Toni Morrison, che ne cura l’editing. Le storie di Bambara sono ambientate talvolta nel sud rurale degli Stati Uniti, altre volte nei ghetti del nord urbano, e offrono rappresentazioni folgoranti delle vite di donne, uomini e bambini afroamericani e delle comunità in cui vivono, lasciando ampio spazio alla tematizzazione di una forte solidarietà comunitaria e di un cambiamento sociale necessario e, a volte, possibile. Bambara intende celebrare la resistenza, le vittorie e la storia degli afroamericani (e soprattutto delle afroamericane) non soltanto a livello intradiegetico, ma tramite una serie di strumenti ricorrenti nella sua prosa letteraria: quella che lei stessa definisce “straight-up fiction”, la sperimentazione linguistica, la presenza dei bambini come protagonisti. In un’intervista con Kay Bonetti, Bambara spiega che con l’espressione “straight-up fiction” si riferisce a un mutamento nella voce narrante, che configura il narratore come mezzo:

We’ve had the narrator as witness, the narrator as observer, the narrator as participant; I’m after the narrator as medium, the narrator who does not claim omniscience in that arrogant way – arrogant and immoral way that is characteristic of American, particularly Euro-American that is. But I am after the narrator as a medium; a person or a force that is simply there as a kind of magnet and through that narrator people tell their stories and lay them out.2

Nella “Sort of Preface” con cui apre Gorilla, My Love, Bambara arricchisce questa definizione, precisando che la propria non è una narrazione autobiografica poiché, in quanto tale, riprodurrebbe dei personaggi ed un contesto costantemente filtrati dalla voce narrante, e si comporrebbe di appropriazioni del reale manipolate a uso e consumo appunto della voce narrante, a dispetto della pretesa di autenticità; Bambara dichiara invece “So I deal in straight- up fiction myself, cause I value my family and friends, and mostly cause I lie a lot anyway”.3 Dunque, un narratore (o, più spesso, una narratrice) che catalizza le voci ed i suoni del quartiere e della comunità che in esso respira: un progetto non dissimile da quello di Grace Paley, con il quale ha infatti in comune molti elementi, tra cui la peculiare e unica qualità sonora. A proposito di quest’ultima, è Toni Morrison a rilevare, nella sua introduzione al volume di Bambara che raccoglie saggi, narrativa ed interviste all’autrice, Deep Sightings and Rescue Missions: “Her writing is woven, aware of its music, its overlapping waves of scenic action, so clearly on its way – like

2 Thabiti Lewis, cit., p. 33.

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a magnet collecting details in its wake, each of which is essential to the final effect”.4 Bambara cattura nella sua prosa la lingua sincopata, scherzosa, ricca e piena di invettive della comunità che intende rappresentare in tutta la sua complessità, mettendo in bocca a protagonisti spesso molto giovani aforismi gergali, coloriti e frastagliati. Elliott Butler-Evans definisce la voce narrante nei racconti di Bambara una “self-ethnographer” della comunità urbana descritta, che offre un ritratto rappresentativo della propria esperienza culturale ai lettori afroamericani, e uno sguardo realistico su dinamiche altrimenti poco accessibili ai lettori non afroamericani.5 Sono sovente i bambini e gli adolescenti a fare da cassa acustica della comunità afroamericana, nelle sue opere: particolarmente attenta all’educazione e all’istruzione dei giovani, Bambara intende demistificare un’immagine troppo spesso vittimizzante o infantilizzante delle nuove generazioni, tematizzate frequentemente come eternamente innocenti, inconsapevoli e in balia degli eventi. I bambini e le bambine nei suoi romanzi e soprattutto nei suoi racconti sono rappresentati spesso come piccoli miracoli di sfrontata consapevolezza, che acutamente rispondono alle provocazioni e prendono in mano le sorti del proprio futuro.

Significato e valore dei giochi nella poetica di Toni Cade Bambara

Come mai nella poetica di un’autrice impegnata come Toni Cade Bambara, la cui pressante urgenza è veicolare un messaggio profondamente politico, il gioco (per molti invece sinonimo di evasione, infanzia, disimpegno) risulta essere un elemento così ricorrente? L’attivismo culturale di Toni Cade Bambara ricorre in effetti ai giochi ed al ‘ludico’ in quanto fattori aggreganti e propedeutici ad un miglioramento della condizione sociale dei giocatori. Emergendo dal quartiere ed essendo dirette primariamente agli abitanti del quartiere, le attività organizzate dall’autrice per mobilitare ed arricchire le risorse culturali della sua comunità passano frequentemente per la musica, il teatro ed attività creative come la riscrittura di fiabe, coinvolgendo frequentemente i bambini. Questo modus operandi ricalca chiaramente l’esperienza personale di Bambara, fin da bambina appassionata di teatro, di sport competitivi e cooperativi, e appassionata funambola linguistica. A ciò va aggiunta la prassi di riproduzione mimetica della lingua orale afroamericana e dirompente sperimentazione linguistica che Bambara adotta nella sua prosa narrativa, che rappresentano ulteriori aspetti del ruolo di primo piano che il gioco riveste nella poetica dell’autrice. Non va inoltre dimenticato, infine, che nei racconti di Bambara e principalmente nella raccolta in esame, Gorilla, My Love, questa sperimentazione linguistica è

4 Toni Morrison, “Preface”, in Toni Cade Bambara, Deep Sightings and Rescue Missions. Fiction, Essays, and

Conversations, Knopf Doubleday Publishing Group, edizione del Kindle, 1999.

5 Cfr. Elliott Butler-Evans, Race, gender, and desire: narrative strategies in the fiction of Toni Cade Bambara, Toni

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impiegata principalmente da bambini (anzi, da bambine), che sono anche nell’immaginario collettivo gli attori primari dei giochi e della ludicità. Cosa denota quindi questa specifica insistenza tematica e stilistica, anche in virtù della sua evidente continuità con l’esperienza biografica dell’autrice?

Un parametro utile per esaminare la funzione narrativa e tematica dei giochi in Bambara può essere quello di indagarne la natura. Classificando i giochi in base alla ricognizione teorica dei capitoli precedenti, appare evidente che la rappresentazione prevalente in Gorilla, My Love è quella del conflitto agonistico come dinamica predominante della competizione ludica. Dati gli obiettivi di militanza di Bambara, di certo non stupisce che i suoi racconti tendano a mettere in primo piano le tensioni razziali e quelle legate alla classe ed al genere, ma appare rilevante che sia il gioco – e nello specifico il gioco competitivo dai più marcati accenti ludici – a condensare tali istanze radicali, fungendo da veicolo privilegiato per un potenziale ripensamento tanto del gioco stesso quanto del campo sociale che quest’ultimo rispecchia. I giochi in Gorilla, My Love, e più in generale nella produzione culturale di Bambara, fungono da palestra – non nella più usuale ed immediata accezione pedagogica del termine, che postula il gioco come riproduzione mimetica di comportamenti adulti al fine dell’apprendimento degli stessi, bensì come esercitazioni propedeutiche all’autoaffermazione anche in modi originali, nonché in alcuni casi al raggiungimento di obiettivi personali e politici. I giochi competitivi e le sfide rappresentate nei racconti sono infatti incorniciati da uno spazio ludico che funziona al contempo come un’attribuzione di senso ed uno scudo protettivo: i bambini giocatori individuano nel campo da gioco (o nel campo in cui il gioco dovrebbe svolgersi) un microcosmo di cui conoscono a fondo sia le dinamiche ideali che quelle reali – consapevolezza che non sempre hanno in relazione alle dinamiche sociopolitiche. In questo microcosmo essi concepiscono il proprio ruolo (concreto o potenziale) di giocatori-attori principali e le proprie opportunità di vittoria, essendo i giochi in questione competitivi; nel medesimo contesto, i giocatori di Bambara non hanno paura di sottolineare la natura problematica di alcuni processi o configurazioni ludiche, finanche contestandole o elaborando strategie creative per sovvertirle. Questa dinamica si situa all’interno di uno spazio almeno nominalmente protetto, o che si intuisce naturalmente debba essere preservato come tale in quanto dedicato ai bambini, ovvero i ‘soggetti fragili’ per eccellenza; dunque, uno spazio d’eccezione dove allenare determinate caratteristiche che il gioco competitivo esalta, quali l’intraprendenza, l’autonomia di giudizio, la prontezza, la determinazione.

Questa prospettiva sulla funzione dello spazio ludico in Bambara si salda armonicamente con la concettualizzazione foucaultiana dello spazio eterotopico, con la cui formulazione il gioco collima in più punti, e che può metterne in risalto alcuni aspetti fondamentali ed esiti. È quanto

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mai utile partire dall’origine della nozione di eterotopia, in tal senso: Michel Foucault elaborò difatti il concetto di eterotopia relativamente ad un discorso da lui tenuto per un’emittente radiofonica nel 1966 sul tema ‘utopia e letteratura’ facendo esplicito riferimento proprio al gioco dei bambini come luogo/tempo eterotopico per antonomasia – riferimento che sparì poi dalla versione del saggio “Des espaces autres”, pubblicata nella rivista italiana l’Architettura durante l’anno seguente.6 Nel saggio, Foucault definisce le eterotopie ponendole in contrapposizione con le utopie, in questi termini: “[…] dei luoghi reali, dei luoghi effettivi, dei luoghi che appaiono delineati nell’istituzione stessa della società, e che costituiscono una sorta di contro-luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali che si trovano all’interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti […]”.7 Una enunciazione duttile e sfumata, che ha effettivamente dato origine a una pletora di interpretazioni nei campi scientifici e dai punti di vista più disparati; la plasticità di questa formulazione (se non la sua vera e propria ambiguità) è tuttavia il suo primo punto di congiunzione con la nozione di gioco, alla cui scivolosità siamo ormai avvezzi e del quale abbiamo ampiamente esaminato il carattere ambivalente (prescrittivo/liberatorio, conservatore/sovversivo, inscritto/al di fuori dello spazio istituzionale). Proseguendo nella comparazione dei principi descrittivi delle eterotopie, infatti, si riscontrano ulteriori affinità con i giochi: le eterotopie vengono illustrate da Foucault come al contempo mitiche e reali, emergenti in costante dialettica con lo spazio istituzionale, del quale contestano oppure sostengono la struttura; storicamente determinate; non regolate dal tempo tradizionale; aventi rituali di entrata e di uscita; infine, “esse hanno il compito di creare uno spazio illusorio che indica come ancor più illusorio ogni spazio reale”.8

Si vede dunque come, al pari dei giochi, anche le eterotopie costituiscano e siano al contempo contenute da uno spazio (fisico, temporale, concettuale, normativo) conchiuso, che esiste in relazione allo spazio sociale ‘reale’, e come tanto i giochi quanto le eterotopie abbiano in potenza la facoltà di consolidare la configurazione di quello spazio ‘reale’ (autorappresentandosi come trascendenza provvisoria e fine a se stessa) o di invalidarne l’autorevolezza (mettendone in questione l’ufficialità o l’immutabilità); quest’ultima caratteristica è proprio quella che fornisce il valore aggiunto della comparazione tra gioco ed eterotopia. Laddove infatti l’argomentazione di Foucault sostiene, per certi aspetti, la necessità della separazione dell’eterotopia dallo spazio istituzionale (pena la mancata sopravvivenza della stessa), è proprio nell’eventuale funzione critica dell’eterotopia verso quest’ultimo che risiede il

6 In questo studio, farò riferimento alla recente edizione italiana del testo. 7 Michel Foucault, Eterotopia, Milano, Mimesis, 1994, p. 14.

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suo potenziale sovversivo. La presa di posizione critica che dallo spazio eterotopico viene diretta allo spazio istituzionale, implica una contaminazione tra i due, una breccia (se non un abbattimento) nella membrana che al contempo li contiene e li separa; un evento che mette dunque a repentaglio la sopravvivenza, o quantomeno esige una riconfigurazione, dei medesimi spazi conchiusi. Nel momento in cui eterotopia e spazio istituzionale si compenetrano, la prima trascende e dilaga nel secondo in forme impossibili da prevedere o contenere, pertanto anche in maniera irrevocabile. Da quest’incontro complesso possono generarsi svariate soluzioni. Si può provare ad immaginarne alcune: la creazione di un terzo spazio ibrido che inglobi eterotopia e spazio istituzionale in maniera omogenea, o eterogenea; il reintegro di eterotopia e spazio istituzionale nei ranghi originari ma in forme sostanzialmente mutate (sfumate, o al contrario esacerbate); la ricostituzione dei due spazi eterotopico ed istituzionale in dimensioni separate, ma messi in comunicazione da un canale che funge da portale tra i due; l’esplosione di entrambi gli spazi; l’annichilimento di uno spazio in favore dell’altro, e così via. Un simile processo è riscontrabile anche tra il gioco e ‘la realtà’, laddove la dimensione ludica venga interpretata come eterotopica: all’interno del gioco vengono talvolta svelati determinati meccanismi derivanti dall’implicita replicazione di dinamiche pertinenti allo spazio istituzionale che tradiscono ciò che Huizinga definisce ‘lo spirito ludico’ o, più concretamente, invalidano le regole che costituiscono tale spazio, facendolo collassare su sé stesso – oppure, sbaragliandone la conformazione, lo ridefiniscono. Diversamente, concretizzandosi in forme ‘ideali’, il gioco si costituisce come un’isola di senso e continuità normativa in aperta contrapposizione con uno spazio istituzionale segnato da conflitti sociali, in tal modo offrendo uno spunto concreto per denunciare le falle e finanche rifiutare l’impalcatura normativa ufficiosa e ufficiale vigente all’esterno del gioco.

La connessione paradossale eppure preziosissima del gioco con la realtà circostante può forse essere chiarita ulteriormente dalla metafora dello specchio, che Foucault approfondisce sia in senso utopico che eterotopico. Semplificando in modo che forse non rende giustizia al complesso discorso foucaultiano, il filosofo francese riconosce nello specchio una dimensione essenzialmente eterotopica, in quanto superficie che consente una prospettiva sul proprio sé relazionale, immerso nello spazio sociale: quello che riceviamo dallo specchio è uno sguardo impossibile, poiché proveniente da una realtà riflessa e virtuale, e tuttavia lucido ed ampio, dato che fornisce una visione su noi stessi che include la realtà circostante, permettendo al soggetto riflesso/riflettente una ricostruzione profonda della propria posizionalità. Similmente, il gioco può restituire al giocatore un’angolazione per guardare a sé stesso al contempo straniante, spiazzante e dalle intrinseche potenzialità sovversive nel contesto della realtà quotidiana in cui è immerso, innescando possibili ridefinizioni della posizionalità del giocatore nello spazio istituzionale in chiave ludica.

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Interpretare i giochi come luoghi eterotopici in Gorilla, My Love permette dunque di mettere a fuoco precisamente questa contaminazione tra le due sfere del ‘reale’ e del ‘ludico’, di esplorare l’oscillazione (consapevole o meno) dei giocatori dall’una all’altra e viceversa, e considerare gli esiti di tale fluttuazione anche nella loro ricaduta potenzialmente destabilizzante di equilibri preesistenti. Allo stesso tempo, il filtro eterotopico funge da cartina al tornasole per