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Una ricognizione sul gioco e il ‘ludico’ in letteratura

Il quadro d’insieme sulla teoria del gioco che abbiamo illustrato e analizzato nei capitoli precedenti offre numerosi strumenti ermeneutici per poter non solo riconoscere le manifestazioni del gioco e del ‘ludico’ nei testi letterari, ma anche valutarne l’impatto e stabilirne le funzioni. È da analisi di questo genere che sono partiti anche i testi critici che, soprattutto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, hanno indagato le relazioni tra gioco e letteratura; il presente capitolo si occuperà pertanto di identificare e illustrare testi di varia natura (libri, riviste, articoli), anche in preparazione della discussione relativa alla scelta di indagare dinamiche di gioco nei racconti delle autrici su cui questa tesi è incentrata. Per evitare ridondanze, non verranno riproposti in questo capitolo gli studi di Ehrmann e Spariosu, che costituiscono una solida ibridazione tra la critica letteraria e la proposta teorica, e in virtù di questa seconda caratteristica sono stati esaminati in precedenza; tuttavia, essi restano riferimenti cardinali, che fanno da sfondo a molte delle ricerche considerate in questa sezione.

Nei testi qui esaminati ritornano alcune questioni, che verranno evidenziate di volta in volta: ad esempio, il rifiuto dell’opposizione tra gioco e serietà è un aspetto metodologico comune; particolarmente rilevanti dal punto di vista teorico saranno le elaborazioni concettuali di Suits e Derrida, contemporanee o quasi ai testi critici che ad esse si richiamano. Queste due teorie si dimostrano sicuramente tra le più influenti e dirompenti nel campo della critica ludica, anche perché maggiormente funzionali (soprattutto Derrida) all’analisi del gioco e del ‘ludico’ nella letteratura postmoderna. Su quest’ultima, inoltre, si è costituito un filone più compatto di testi critici che hanno individuato nella ‘ludicità’ formale uno dei tratti distintivi del postmodernismo, come vedremo; vari sono anche i critici che hanno scelto di collegare l’indagine sul gioco alla teoria della ricezione. Si noterà invece come pochi siano stati i testi che abbiano attribuito un’importanza significativa all’intersezione tra la letteratura, le dinamiche di gioco/’ludiche’ e le dinamiche di genere, argomento centrale che viene pertanto posto in primo piano in questo lavoro di ricerca. Infine, una precisazione: i testi critici presi in considerazione pertengono all’ambito dell’americanistica e della comparatistica, in quanto più immediatamente aderenti al campo d’indagine di questa tesi.

Gli anni Ottanta.

Dà il via a questa relazione compilativa il denso articolo del 1976 di Robert Detweiler, “Games and Play in Modern American Fiction”: nonostante si tratti di una ricerca relativamente breve rispetto ai vari studi critici ad esso seguiti, il tentativo di Detweiler di creare un modello interpretativo e al contempo mettere ordine nella selva teorica spesso irta di ostacoli del gioco

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risulta ben argomentato, sistematico e sicuramente valido. L’articolo si apre con una panoramica sintetica ma accurata sulla teoria del gioco in filosofia, psicologia e matematica, per poi passare ad esporre i risultati di un’analisi su sessanta tra romanzi e raccolte di racconti pubblicati in America a partire dal 1965. Detweiler divide i testi esaminati in tre categorie: la narrativa ‘giocosa’, basata su esuberanza ed esagerazione ma non comprendente rappresentazioni del gioco a livello diegetico (per questo filone, lo studioso prende a esempio la prosa di Donald Barthelme); la narrativa che tematizza il gioco, o più frequentemente lo sport, come centro della trama (Detweiler porta l’esempio di Joyce Carol Oates e John Barth); infine, la terza categoria comprende i testi tramite i quali, o nei quali, l’autore gioca con il lettore (come in Pale Fire di Vladimir Nabokov). Diversamente da molti dei suoi predecessori, Detweiler mostra consapevolezza nel tenere distinte le due nozioni di gioco e ‘ludico’, seppure tale discrimine resta implicito nel suo discorso; implicita, o probabilmente secondaria, resta pure la definizione di questi due concetti fondamentali – scelta che in questo caso appare a chi scrive meno condivisibile, o quantomeno degna di un’esplicitazione e motivazione da parte dell’autore.

Nel discutere le caratteristiche della ‘ludicità’ di un testo, Detweiler accenna alla diffusa nozione secondo la quale la narrazione è, in qualche misura, una forma di gioco, in quanto essa crea un mondo ‘altro’ tramite l’immaginazione ed è un’elaborata, astratta forma di finzione; se ne smarca però ben presto, spiegando che la letteratura ‘ludica’ (la terza categoria) a cui egli si riferisce si articola soprattutto nell’autoconsapevolezza della narrazione come gioco che si svolge tra lettore e autore. L’autore infatti manipola gli elementi della narrazione al fine di indicare al lettore esplicitamente la loro artificialità, spesso tramite la forma del roman à clef ; pertanto, questo tipo di narrazione è ‘ludica’ a livello strutturale, discostandosi da narrazioni giocose a livello intradiegetico. Un’ulteriore interessante operazione svolta da Detweiler è quella di associare, in modo persuasivo e in seguito ad un’esauriente argomentazione, a ogni categoria di letteratura ‘ludica’ una delle quattro categorie di Caillois: la narrativa ‘giocosa’ è legata alla versatilità dell’immaginazione, dunque all’alea; nella narrativa in cui il gioco è parte della trama, questo presenta sempre valore simbolico, ed è dunque connessa alla mimesis; infine, la narrativa ‘ludica’ che riproduce una dinamica di gioco, e dunque di sfida tra autore e lettore, è assimilabile all’ agon. Nel suo studio del 1994 sulla narrativa postmoderna ed il ‘ludico’, Ruth Burke osserva acutamente che la quarta categoria cailloisiana, quella dell’ilinx, non viene presa in considerazione da Detweiler, senza neppure chiarire il perché di quest’esclusione; l’autrice pertanto avanza l’intrigante ipotesi di intrecciare la categoria dell’ilinx alla letteratura postmoderna, in associazione alla risposta ‘vertiginosa’ che il testo postmoderno suscita nel

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lettore.1 Questa riflessione non nasce nel vuoto, ma si pone in continuità con un certo numero di testi critici che, prima di Burke, hanno esaminato la ludicità del romanzo postmoderno, americano e non; del resto, lo stesso Detweiler (come Ehrmann prima di lui) pare aprire la strada a elaborazioni di questo tipo, auspicando alla fine del suo saggio la nascita di un intero filone di studi dedicato allo studio organico della tematizzazione letteraria del gioco.

Apre ufficialmente gli anni Ottanta uno dei primi studi critici interamente dedicati al gioco, ovvero il volume di Christian Messenger del 1981, Sport and the Spirit of Play in American

Fiction: Hawthorne to Faulkner. È possibile definire quello di Messenger un testo pionieristico, per

il motivo già menzionato ed altri ancora: ad esempio, è rilevante che la dettagliata ed ampia analisi, esplicitata esaurientemente dal titolo, si snodi a partire dalla teoria del gioco (fino a quel momento pressoché ignorata nella critica letteraria), e non si affili a nessun indirizzo teorico prevalente all’epoca. Lo studio di Messenger esplora le relazioni tra lo sport, la storia culturale e la letteratura nordamericana, identificando proprio lo sport come veicolo metaforico dell’‘americanità’ attraverso la figura dell’eroe sportivo. Lo ‘spirito del gioco’ evocato nel titolo è fortemente ridimensionato già nell’introduzione: Messenger dichiara di volersene occupare in maniera tangenziale e limitata, sia perché l’argomento è in sé estremamente vasto e impegnativo in senso multidisciplinare, sia perché allo studioso interessa approfondirlo esclusivamente nella misura in cui esso è rilevabile all’interno e tramite lo sport. In questo senso, anche i giochi veri e propri come oggetto di studio sono chiaramente collaterali, in quanto gli unici a trovare posto in questa cornice analitica sono i giochi sportivi.

Nella sua indagine, Messenger individua tre tipi di eroi (il ‘popular sports hero’, lo ‘school sports hero’ e il ‘ritual sports hero’) che costituiscono i modelli interpretativi delle dinamiche (talvolta mitiche e mitizzanti) dell’organizzazione della società statunitense. Lo studio di Messenger è solido e accurato nell’analisi dei testi scelti, ed è interessante soffermarsi su un particolare brano dell’introduzione, che mette a fuoco una questione cruciale per questa tesi:

The range of fiction examined shows how few well-drawn female characters are part of the world of play and sport, and, alternately, how women in play and sport are not fully characterized. […] Perhaps when American society as a whole accepts the role of women in sports, or women as “playful” without immediate sexual connotations, then American writers will create their fictional sisters. Until that time, the representation of play and sport in American fiction remains a distorted masculine preserve

1 Cfr. Ruth E. Burke, The Games of Poetics: Ludic Criticism and Postmodern Fiction, New York, Peter Lang, 1994.

91 where sexual stereotyping is even more prevalent than in American

fiction as a whole. This is a subject for another volume.2

Appare significativo che già il primo studio sistematico in ambito statunitense sul gioco e la letteratura segnali in maniera così precisa un vuoto (o una distorsione rappresentativa) di tale rilevanza; pertanto, sorprende ancora di più il fatto che negli studi successivi questa sfida non sempre venga raccolta – e che pur quando viene raccolta aleggi nell’analisi una certa impressione di ‘tokenism’. Sorprende altresì il fatto che Messenger licenzi in maniera così sbrigativa la scottante questione da lui stesso evidenziata, pur affermando la necessità di un ulteriore studio sull’argomento. Ed è precisamente questo uno degli obiettivi della presente tesi: andare a indagare le rappresentazioni del gioco e del ‘ludico’ che si svincolano dal cosiddetto ‘male gaze’, le quali sono, pur se talvolta ai margini, sicuramente presenti nella letteratura americana.

La favorevole accoglienza del primo libro ha incoraggiato Messenger a scrivere un secondo volume: pubblicato nel 1990 col titolo Sport and the Spirit of Play in Contemporary American

Fiction, ha ricevuto ancora maggiore attenzione critica e apprezzamento unanime rispetto alla

ricerca precedente. In questo studio successivo, Messenger adotta una prospettiva dichiaratamente più letteraria e nello specifico narratologica. Si occupa infatti di descrivere la relazione tra sport e gioco e mette a punto una semantica strutturale per lo studio dello sport nella narrativa contemporanea statunitense, tramite la predisposizione di un quadrato semiotico di Greimas, attraverso il quale cataloga eroismo individuale, antieroismo (ovvero le azioni di un eroe che rifiuta la competizione, desidera essere da solo contro/nella natura) ed eroismo collettivo (ovvero un eroe alla ricerca di mentori, discepoli e rituali di passaggio). Particolarmente degno di nota è il sesto capitolo, dedicato interamente alla resa narrativa delle donne e dello sport: all’interno di esso, e nello specifico nella sezione denominata “The Strategies of Mimicry”, Messenger intende complicare e spingere oltre le affermazioni frettolosamente rinviate nel suo primo libro a proposito della rappresentazione delle donne. Invocando la teoria femminista, per Messenger l’arena sportiva (e dunque ludica) si configura come un campo dominato da dinamiche prettamente maschili, agonistiche, che comprimono le donne nei ruoli di idolo inerte, dagli attributi inferi e dunque temibili, o di elemento dissuasivo per l’azione e il legame tra uomini. Basandosi su studi di Sutton-Smith riguardanti l’organizzazione del gioco da parte delle bambine e adolescenti, e chiamando a supporto di questa visione anche Nancy Chodorow, Messenger ne delinea le dinamiche come più cooperative, immaginifiche, complesse in termini socio-drammatici; il gioco di bambine e 2 Christian K. Messenger, Sport and the Spirit of Play in American Fiction: Hawthorne to Faulkner. New York, Columbia University Press, 1981, p. XIV.

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adolescenti è definito come maggiormente rappresentativo e mimetico (la famiglia nucleare viene spesso riproposta) rispetto a quello delle loro controparti maschili, che è invece aperto a elaborazioni mitiche di missioni, sfide contro nemici, destino e mortalità. Successivamente, tuttavia, Messenger precisa che il pensiero femminista più radicale di Luce Irigaray tende a superare quest’opposizione binaria maschile/femminile, proponendo il gioco come risposta ad essa: è questo l’orientamento che guida il close reading dei quattro romanzi che Messenger sceglie per indagare la rappresentazione delle donne nell’attività sportiva. Attraverso Irigaray, Messenger individua nella pratica imitativa del ruolo ‘tipicamente femminile’ in transazioni di gioco, così come esso è prescritto e descritto da uno sguardo e una dinamica propriamente maschile, una ripetizione non acritica, bensì burlesca e tesa a creare spazi di apertura ad un ‘altrove’ che espone alla problematizzazione le suddette dinamiche. Questo genere di ripetizione sarebbe al contempo una rivelazione ed una prevenzione di futura oppressione; una strategia a dire di Messenger derridiana, che include l’idea di molteplicità dell’io femminile, il quale viene esposto a seconda delle circostanze e della convenienza, in forma diversa. Il critico, in ogni caso, non perviene a conclusioni rassicuranti:

The complex coding of Gender-Power-Language- Representation in sport and play finally stipulates that (1) to play is in response to powerlessness; (2) to compete is in the male dominant mode; (3) to play as a man is to begin to strike through the mode of powerlessness; (4) to compete as a woman is to strike through the mode of power. For a man to play is, in some ways, to simulate feminization for potential “self-definition” and “rebellion,” yet he is only playing that role in his language and self- assertion as one of his choices. He is “playing at play”. A woman has no choice but to play, for her only language is not really her own and she is only eroticized within it. Her miming within that language is as involuntary as her self-touching. To be “multiple” is not, in the realities of power and powerlessness, a choice, but the absolutely necessary mode of being for women.3

Se alcune di queste conclusioni paiono certamente condivisibili, altre lasciano spazio ad una riformulazione, come vedremo in seguito; resta comunque significativo, e quasi unico nel campo di studi, l’impegno dell’autore nel tracciare una traiettoria teorica e interpretativa specificamente dedicata al ruolo delle donne nel gioco, seppur prevalentemente sportivo.

3 Christian Messenger, Sport and the Spirit of Play in Contemporary American Fiction, New York, Columbia University Press, 1990, p. 191.

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In contemporanea al primo volume di Messenger viene pubblicato anche un altro testo incentrato sullo studio dell’intersezione tra letteratura e sport, Playful Fictions and Fictional Players:

Game, Sport and Survival in Contemporary American Fiction, a firma di Neil David Berman. Anche

questo lavoro si concentra sul rapporto tra una forma del gioco – lo sport – con la cultura nordamericana, leggendone le dinamiche in cinque romanzi contemporanei (tra i quali End Zone di Don De Lillo); diversamente dallo studio di Messenger, tuttavia, questo studio ha una portata decisamente più limitata, testimoniata anche dal numero ridotto di romanzi nel corpus e da una trattazione nettamente più snella. Berman parte dall’assunto che lo sport è una componente essenziale dell’ethos americano contemporaneo, e ne precisa in ottica huizinghiana l’interdipendenza con la cultura, rifiutandosi di concettualizzare tanto il gioco quanto lo sport come un’eterotopia autoreferenziale. Nel tracciare il quadro delle relazioni tra il gioco in senso ampio e lo sport, Berman insiste sul potenziale liberatorio di entrambi con un’enfasi quasi schilleriana; nondimeno, è indicativo osservare come solo in uno dei cinque romanzi su cui Berman incentra la sua analisi lo sport si ponga in definitiva come una chiave per la risoluzione di dinamiche di potere oppressive in senso creativo, mentre nei primi due testi il gioco viene addirittura dichiarato un’attività impossibile.

La critica torna a occuparsi nuovamente di gioco, anziché di sport, con Peter Hutchinson, che nel 1983 pubblica Games Authors Play: nella sua prima parte, questo testo fa dialogare la teoria della ricezione con quella del gioco, mentre la seconda consiste in una sorta di glossario descrittivo di strumenti ludici applicati in letteratura, tra i quali l’allegoria, il mito, il paradosso. Non ci soffermeremo a lungo sul volume di Hutchinson, in parte perché esso si dimostra a tratti uno studio immaturo e ha del resto ricevuto esclusivamente recensioni poco lusinghiere, ma soprattutto per un motivo più strutturale. In accordo col titolo, infatti, in Games

Authors Play l’autore è sostanzialmente un manipolatore, che infligge il gioco e le sue dinamiche

ai propri lettori: non vengono quindi analizzate le dinamiche di gioco o ludiche all’interno dei testi, che costituiscono l’oggetto centrale di questa tesi, e anche il modo in cui i dispositivi ludici vengono illustrati nella seconda parte del libro tradisce una tendenza alla conferma dell’idea precedentemente postulata di autore come manipolatore.

Proseguiamo la nostra ricognizione occupandoci del volume Auctor Ludens. Essays on Play

in Literature (1986), che è un’ampia raccolta di quindici saggi sugli aspetti ludici di testi letterari

dal medioevo alla contemporaneità. I due curatori, Gerald Guinness e Andrew Hurley, aprono la prefazione al libro con una dichiarazione a dir poco irrituale, ovvero affermando che “Auctor

Ludens is a book about play practice rather than play theory”:4 sgombrando il campo da lunghe

4 Gerald Guinness e Andrew Hurley, a cura di, Auctor Ludens: Essays on Play in Literature, Philadelphia, John Benjamins, 1986, p. VII.

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premesse teoriche sul gioco e le sue dinamiche ed evitando così di profilare l’orientamento critico della propria raccolta, essi intendono lasciare agli autori dei saggi la libertà di spaziare tra le varie e più disparate definizioni di gioco. Il risultato è un volume vario che offre numerosi spunti e chiavi di lettura, ma è anche consapevolmente disorganico. Le varie sezioni prendono in considerazione il gioco in cui l’autore coinvolge il lettore, il canone, sé stesso, e la letteratura interpretata come gioco piacevole, mimetico o esistenziale; esse, tuttavia, non vengono messe a confronto tra di loro, bensì giustapposte. La conseguenza di questa (pur cosciente) mancanza di una cornice teorica definita è quella che i singoli saggi perdono l’ancoraggio ad un centro concettuale di fatto assente, restando monadi isolate, per quanto non prive di riflessioni acute. Se il gesto intellettuale di rifiutare ogni dogmatismo risulta essere una tentazione affascinante e non priva d’intuito (anticipando di circa un decennio gli assunti sull’ambiguità del gioco di Sutton-Smith), esso presenta il grosso limite di non poter ‘fare scuola’ e iniziare un vero e proprio filone di studi sul gioco in letteratura, giacché voltare le spalle alla teoria non si dimostra, in definitiva, una metodologia efficace per generarne una.

La metà degli anni ’80 si conferma un momento intenso dal punto di vista dell’interesse per il gioco da parte della critica letteraria: seguendo il sentiero tracciato da Ehrmann quasi vent’anni prima, due riviste decidono di dedicare un intero numero al gioco nel 1985 e nel 1986. Nel 1985, la Canadian Review of Comparative Literature incentra il secondo volume del numero 12 su quest’argomento, indagandone le implicazioni letterarie; apre la rivista il ricco articolo di Robert R. Wilson, che effettua un’efficace ricognizione dei concetti di gioco e ludico in filosofia e segnala le elaborazioni derridiane sul ‘libero gioco’ come stella polare degli articoli raccolti nel periodico. Spiccano particolarmente per efficacia analitica, all’interno di quest’ultimo, i contributi di Holquist (elemento di continuità con il numero di Yale French Studies curato da Ehrmann), che discute il concetto di ‘carnevalizzazione’ di Bachtin alla luce appunto del ‘libero gioco’ derridiano, quello di Suits sulla detective story come gioco letterario e quello di Peter Steele sull’intertestualità come fenomeno ludico; chiude il numero un’imponente bibliografia commentata su gioco e letteratura, a cura di James A. G. Marino. Quello di Wilson per il gioco si conferma un interesse non isolato, in quanto alcuni anni dopo, nel 1990, egli pubblica In

Palamedes’ Shadow: Explorations in Play, Game and Narrative Theory, un libro interamente dedicato

allo studio delle dinamiche testuali del gioco, il cui titolo ricalca in parte quello dell’articolo pubblicato dalla Canadian Review of Comparative Literature. In questo volume, Wilson scinde meticolosamente i concetti di gioco e ‘ludico’, enfatizzando il valore di quest’ultimo relativamente ai testi letterari, le cui regole stilistiche e testuali tendono ad essere violate per produrre nuovi significati. Non a caso, partendo da un tale presupposto, Wilson sceglie di approfondire nella cornice teorica che guida la sua analisi dei testi le teorie di Bachtin e Derrida,

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che pongono al centro la sovversione o la decostruzione delle regole formali e dei sistemi ideologicamente dominanti. Wilson cerca un difficile dialogo tra il pensiero dei due studiosi,