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I giudizi nella materia pensionistica

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- le regioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte hanno proposto conflitti di attribuzione avverso le deliberazioni con cui le sezioni regionali di controllo hanno intrapreso le attività previste dall’art. 1, co. 9, del d.l. 174/2012, sui rendiconti dei gruppi consiliari relativi all’esercizio finanziario 2012;

- la regione Toscana ha proposto conflitto di attribuzione avverso i decreti per resa di conto emessi dalla Sezione giurisdizionale regionale della Toscana, con successivo intervento ad adiuvandum spiegato dai presidenti dei gruppi consiliari.

Si è al cospetto, pertanto, di un tema aperto, sul quale è ancora in corso l’esame giudiziale da parte di vari organi operanti in aree di competenza giurisdizionale diverse tra di loro.

Gli sviluppi che avrà il tema, caratterizzato da particolare rilievo e interesse, in ragione delle funzioni e delle tutele che la legge affida alla Corte dei conti quale garante e giudice terzo e imparziale della finanza pubblica, meriteranno perciò di essere monitorati e segnalati in prosieguo di tempo.

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crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito con modificazioni dalla l. 214/.

In considerazione della questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione a tale norma dal Tribunale di Siena - Sezione lavoro, con ordinanza del 21 agosto 2012 sono stati sospesi, durante il 2013, molteplici giudizi pendenti presso le Sezioni giurisdizionali regionali in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale.

In data 17 dicembre 2013, con ordinanza n. 318/2013, la Corte Costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, co. 3, del d.l. 6 dicembre 2011 n. 201 sollevata, in riferimento agli art. 2, 3, 11, 38, 97 e 117, co. 1, della Costituzione, quest’ultimo richiamato in relazione all’art. 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la l. 4 agosto 1955 n. 848.

Sulla questione è, infine, intervenuto il d.l. 31 agosto 2013 n. 101, recante

“disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni”, convertito con modificazioni dalla l. 30 ottobre 2013 n.

125, che ha fornito interpretazione autentica di tali disposizioni contenute nel d.l. 6 dicembre 2011 n. 201, (c.d. riforma Monti-Fornero), convergente alle aspettative dei pensionati del comparto scuola.

In particolare, infatti, con l’art. 2, co. 4 e 5, del d.l. 101/2013 è stato precisato che:

“4. L’art. 24, co. 3, primo periodo, del d.l. 6 dicembre 2011 n. 201, convertito in legge 22 dicembre 2011 n. 214, si interpreta nel senso che il conseguimento da parte di un lavoratore dipendente delle pubbliche amministrazioni di un qualsiasi diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011 comporta obbligatoriamente l’applicazione del regime di accesso e delle decorrenze previgente rispetto all’entrata in vigore del predetto articolo 24.

5. L’art. 24, co. 4, secondo periodo, del d.l. 6 dicembre 2011 n. 201, convertito in legge 22 dicembre 2011 n. 214, si interpreta nel senso che per i lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni il limite ordinamentale, previsto dai singoli settori di appartenenza per il collocamento a riposo d’ufficio e vigente alla data di entrata in vigore del d.l. stesso, non è modificato dall’elevazione dei requisiti anagrafici previsti per la pensione di vecchiaia e costituisce il limite non superabile, se non per il trattenimento in servizio o per consentire all’interessato di conseguire la prima decorrenza utile della pensione ove essa non sia immediata, al raggiungimento del quale l’amministrazione deve far cessare il rapporto di lavoro o di impiego se il lavoratore ha conseguito, a qualsiasi titolo, i requisiti per il diritto a pensione”.

Tra le tematiche di maggior rilievo in ambito pensionistico è da annoverare la delicata materia dei trattamenti previdenziali conseguenti a malattie indotte dall’assoggettamento a inquinamento da amianto, ove le maggiorazioni figurative conseguono all’accertata esposizione qualificata e ultradecennale alle polveri inquinanti.

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Al riguardo va evidenziato che il d.l. 21 giugno 2013 n. 69 “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”, convertito con modificazioni dalla l. 9 agosto 2013 n.

98, con l’art. 42-quater ha inserito, dopo il co. 14-bis dell’art. 7-ter del d.l. 10 febbraio 2009 n. 5, convertito con modificazioni dalla l. 9 aprile 2009 n. 33, il co. 14-ter, la cui ratio è quella di assicurare maggiore tutela ai lavoratori nel procedimento di riconoscimento della spettanza del particolare beneficio.

In particolare, il comma 14-ter prevede che:

“14-ter. Ai fini della determinazione del diritto e della misura del trattamento pensionistico, nei casi di lavoratori che risultino, alla data del 22 giugno 2013, cessati per mobilità, oppure titolari di prestazioni straordinarie a carico dei fondi di solidarietà o autorizzati alla prosecuzione volontaria della contribuzione, restano validi ed efficaci i provvedimenti di certificazione di esposizione all’amianto rilasciati dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, ai fini del conseguimento dei benefici di cui all’articolo 13, comma 8, della l. 27 marzo 1992 n. 257 e successive modificazioni. I provvedimenti di revoca delle certificazioni rilasciate sono privi di effetto, salvo il caso di dolo dell’interessato accertato in via giudiziale con sentenza definitiva”.

In tale materia, la giurisprudenza contabile ha completato il quadro della tutela dei lavoratori sul versante interpretativo e applicativo delle norme di settore, precisando che:

- l’art. 13, co. 8, della l. 27 marzo 1992 n. 257, concernente la posizione dei lavoratori esposti all’amianto, non prevede alcuna forma di indennizzo per il pericolo da amianto né assolve a finalità risarcitorie, perseguendo il precipuo obiettivo di favorire l’esodo dal lavoro dei soggetti esposti a tale fattore di rischio, come chiarito anche dalla stessa Corte Costituzionale con sentenza 31 ottobre 2002, n. 434. Ne consegue che sono necessariamente esclusi dall’applicazione della norma in esame soltanto coloro i quali si trovavano già in pensione al momento dell’entrata in vigore di detto testo normativo e coloro che, a quella data, avevano già maturato il massimo di contribuzione a fini pensionistici (Corte Cost., sent. n. 290/2010); viceversa, debbono ritenersi destinatari della citata disposizione i soggetti in servizio alla predetta data – anche se già in possesso dei requisiti per ottenere il trattamento di quiescenza – nonché quelli in stato di disoccupazione o titolari di assegno o pensione anche se abbiano presentato la domanda, per ottenere i benefici in questione, dopo il collocamento a riposo (Sez. terza giurisdizionale centrale d’appello, sentenza n.

496/2013);

- la certificazione resa dall’Inail costituisce un atto necessario del procedimento amministrativo, ma gli art. 24 e 113 della Costituzione stabiliscono, rispettivamente, che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi” e che “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi”. Pertanto, in caso di esito sfavorevole del procedimento di riconoscimento dell’esposizione all’amianto, è comunque possibile sindacare in giudizio il diniego dell’amministrazione e in tal modo superare, eventualmente, il contenuto della

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certificazione Inail (Sez. prima giurisdizionale centrale, sentenza n.

1033/2013/A);

- la certificazione Inail non può assumere valore assoluto ed esclusivo ai fini del riconoscimento del beneficio in parola, e le contestazioni riguardanti tale certificazione, come anche gli accertamenti finalizzati alla verifica e alla durata dell’esposizione all’amianto, ben possono essere sindacate da parte della Corte.

A tal fine, il prudente apprezzamento del giudicante deve fondarsi non solo sulla certificazione Inail, ma anche sulle risultanze di altri, adeguati, mezzi probatori quali dichiarazioni testimoniali, consulenze tecniche, perizie ecc. (Sez. terza giurisdizionale centrale d’appello, sentenza n. 121/2013);

- alla luce del combinato disposto dell’art. 47, co. 6-bis, e dell’art. 3, co. 132, della l. 350/2003, le disposizioni previgenti al d.l. 269/03 continuano a trovare applicazione nei confronti dei lavoratori che, alla data del 2 ottobre 2003, si siano trovati, alternativamente, in una delle seguenti posizioni: a) abbiano già presentato domanda all’Inail per il rilascio del certificato attestante lo svolgimento di attività lavorative con esposizione ultradecennale all’amianto; b) abbiano già ottenuto il riconoscimento, in sede giudiziale o amministrativa, del beneficio previdenziale in argomento; c) abbiano già maturato il diritto alla pensione anche con contributi riconosciuti per lavorazioni esposte all’amianto; d) abbiano definito la risoluzione del rapporto di lavoro in relazione alla domanda di pensionamento; e) siano percettori di trattamenti di mobilità. L’art. 47 del d.l.

269/2003, ha inoltre precisato che con il termine “lavoratori” (ossia tutti i lavoratori) non si debba fare riferimento alla necessaria iscrizione all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’esposizione all’amianto, gestita dall’Inail, contenuta nell’art. 13, co. 8, della l. 27 marzo 1992 n. 257, e che quindi il beneficio si applica anche a coloro che non risultano coperti dalla predetta assicurazione. La l. 247/2007 ha stabilito la validità delle certificazioni rilasciate dall’Inail, sulla base degli atti di indirizzo del Ministero del lavoro, anche per le attività con esposizione ad amianto svolte per periodi successivi all’anno 1992 e fino al 2 ottobre 2003, e la relativa procedura è stata regolamentata con il citato decreto ministeriale del 12 marzo 2008 (Sez. Campania, sent. n. 1525/2013).

Numerosi sono stati nel corso dell’anno anche gli arresti giurisprudenziali in ordine ai limiti alla ripetibilità delle somme indebitamente percepite a titolo di pensione provvisoria e al consolidamento di situazioni derivanti dal principio di affidamento e buona fede del percipiente.

Al riguardo è stato evidenziato che:

- preminente è, comunque, l’apprezzamento in concreto della buona fede del percettore, tanto sotto il profilo soggettivo (corrispondente allo stato psicologico dell’essere “in buona fede”) quanto sotto quello oggettivo del comportamento

“secondo buona fede” (rispettoso, cioè, dei canoni comportamentali di lealtà e correttezza nei rapporti del pensionato con l’istituto previdenziale, oltre che, ovviamente, dell’istituto con lo stesso pensionato): condizione che può, in generale, ritenersi sussistente quando, usando l’ordinaria diligenza

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(comportamento “secondo buona fede”), “la somma indebita – confusa generalmente con quella effettivamente dovuta – non è riconoscibile dall’interessato”, il quale può plausibilmente (cioè “in buona fede”) ritenere che l’importo corrisposto sia quello effettivamente spettante (Sez. terza giurisdizionale centrale d’appello, sent. n. 765/2013);

- con riguardo all’affidamento incolpevole del pensionato e, quindi, alla irripetibilità dell’indebito, è stato osservato che deve escludersi sia ostativa al suo riconoscimento la circostanza che in prossimità della cessazione dal servizio (e, quindi, in epoca risalente nel tempo) l’interessato abbia autorizzato l’amministrazione militare a trattenere le somme che, in sede di attribuzione del trattamento provvisorio di quiescenza, fossero state corrisposte indebitamente. È sufficiente sul punto osservare che – a prescindere dalla sottoscrizione o meno di una siffatta “autorizzazione” – la consapevolezza del carattere provvisorio del trattamento di pensione percepito anteriormente alla liquidazione della pensione definitiva ha rilievo solo fintanto che non subentri, proprio per l’anomalo perpetuarsi nel tempo della pensione provvisoria, la convinzione che quel trattamento abbia perso la connaturata connotazione di provvisorietà (Sez.

seconda giurisdizionale centrale, sent. n. 790/2013).

Occorre rilevare come il riconoscimento della irripetibilità delle somme indebitamente percepite a titolo di pensione provvisoria abbia determinato un incremento delle azioni di rivalsa da parte dell’Inps nei confronti degli enti di appartenenza dei pensionati ai sensi dell’art. 8, co. 2, del d.p.r. 8 agosto 1986 n. 538.

Tale disposizione, infatti, prevede che “Qualora, per errore contenuto nella comunicazione dell’ente di appartenenza del dipendente, venga indebitamente liquidato un trattamento pensionistico definitivo o provvisorio, diretto, indiretto o di riversibilità, ovvero un trattamento in misura superiore a quella dovuta e l’errore non sia da attribuire a fatto doloso dell’interessato, l’ente responsabile della comunicazione è tenuto a rifondere le somme indebitamente corrisposte, salvo rivalsa verso l’interessato medesimo”.

Con riguardo a tale istituto, si è consolidato l’orientamento affermativo della giurisdizione della Corte dei conti ed è stato precisato che:

- non sussiste una ipotesi di litisconsorzio necessario rispetto alla domanda di irripetibilità del pensionato – trattandosi di una diversa controversia, sia per petitum che per causa petendi –, con la conseguenza di escludere la necessità di integrazione del contraddittorio nei casi in cui l’ordinatore primario di spesa non sia stato citato in giudizio dal titolare del trattamento pensionistico. A tale decisione si perviene, oltre che in forza dei richiamati principi di insussistenza del litisconsorzio necessario e di scindibilità delle cause, anche in virtù del principio di cui all’art. 111 della Costituzione, che conduce alla necessità di definire celermente il rapporto pregiudiziale dedotto in giudizio (di dare/avere tra pensionato ed ente previdenziale), in coerenza con il rito del processo previdenziale e con le preminenti ragioni di garantire al ricorrente un processo dalla ragionevole durata (Sez. Veneto, sent. n. 42, 47);

- la norma in esame, la quale stabilisce l’obbligo dell’ente che ha liquidato il

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trattamento pensionistico errato (e poi materialmente corrisposto dall’ente previdenziale), di rifondere le spese in eccesso sostenute dall’ordinatore secondario di spesa, deve ritenersi espressione di un principio di carattere generale; tale generale obbligo di rifusione deve ritenersi operante anche nei confronti delle amministrazioni statali, non essendo certo ipotizzabile che per tale categoria non sussista alcuna possibilità di reintegro, da parte dell’ente previdenziale, nel caso di errori nella liquidazione del trattamento pensionistico da parte dell’amministrazione o ente ex datore di lavoro, anche perché l’art. 162 del t.u. 1092/1973, comunque, prevede il recupero da parte dell’ente erogatore sul pensionato, ed è evidente che nel caso di mancato recupero (per qualsiasi motivo) a carico dell’indebito percettore non può, in astratto, ritenersi impedita l’azione di rivalsa nei confronti dell’ente responsabile di tale errata liquidazione;

azione la cui giurisdizione va attribuita al giudice contabile (Sez. prima giurisdizionale centrale, sent. n. 267);

- gli enti – in base alla disciplina posta dall’art. 7, co. 2 e 3 del d.p.r. 8 agosto 1986 n. 538 – sono tenuti a riscontrare la corretta esposizione dei dati di liquidazione del trattamento provvisorio prima di trasmetterli all’istituto che materialmente eroga la spesa e sono, conseguentemente, tenuti a rispondere per gli errori commessi, a garanzia della corretta applicazione della normativa pensionistica, cui essi stessi sono astretti, al pari dell’ente previdenziale;

- la responsabilità del datore di lavoro, come è stato rilevato in giurisprudenza, si caratterizza, in particolare, per avere contenuto e titolo autonomi rispetto all’obbligo restitutorio del pensionato, con conseguente applicabilità della prescrizione ordinaria decennale da inadempimento, il cui termine decorre, ai sensi dell’art. 2935 c.c., dal momento in cui la produzione dell’indebito si è manifestata all’esterno, divenendo oggettivamente percettibile e riconoscibile dall’Istituto previdenziale (sul punto, Sez. giurisdizionale centrale, sent. n. 44);

- il rischio di indebite erogazioni di somme in sede di liquidazione provvisoria, per errore contenuto nella comunicazione dell’ente di appartenenza dell’ex dipendente (sempre che l’errore non sia da attribuire esclusivamente a fatto doloso dell’interessato, come opportunamente precisa la legge), deve permanere a carico dell’ente medesimo, fino alla scadenza del termine prescrizionale da individuare in quello ordinario decennale; dal momento in cui l’istituto previdenziale ha acquisito la piena conoscenza o, comunque, la conoscibilità della concreta fattispecie, emanando conseguentemente il provvedimento definitivo di pensione che sostituisce la liquidazione provvisoria, il rischio suddetto si trasferisce dall’ente datore di lavoro a quello previdenziale (Sez. terza giurisdizionale centrale d’appello, sent. n. 218);

- ai fini della valutazione dell’ambito della responsabilità dell’ex datore di lavoro del pensionato, ai sensi dell’ art. 8 del d.p.r. 538/1986, si deve fare applicazione del principio “causalistico”, contenuto nella disposizione di cui all’art. 1227 c.c.

(Sez. Veneto, n. 1; Sez. Toscana, n. 166). Tale norma, che regola il concorso di colpa del creditore nella responsabilità contrattuale, è applicabile, per espresso richiamo di cui all’art. 2056 del c.c., anche ai casi di responsabilità extra contrattuale e impone (anche al creditore, o al danneggiato) di tenere tutte le

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condotte esigibili per limitare o evitare integralmente il danno risarcibile (Sez.

Veneto, sent. n. 292).

Ma sono stati individuati dalla giurisprudenza di merito anche dei limiti all’esercizio da parte dell’Inps dell’azione di rivalsa, infatti, è stato precisato che:

- l’ente previdenziale non può chiedere la restituzione dei ratei indebitamente corrisposti al pensionato, dal momento in cui l’ente datore di lavoro abbia comunicato – a correzione di quanto in precedenza erroneamente indicato – l’esatto importo delle retribuzioni da erogare e l’ente previdenziale, nonostante ciò, abbia continuato per anni a erogare un importo errato di pensione provvisoria, correggendolo solo al momento dell’emissione del decreto di pensione definitiva (Sez. Sicilia, sent. n. 2850).

In tema di recupero di indebito pensionistico, sono da segnalare gli arresti della giurisprudenza di merito protesi a ben individuare i limiti di tale azione nei confronti dei pensionati ed espressi nel senso che:

- ove l’ente previdenziale riveste il ruolo di sostituto di imposta al pari del datore di lavoro, il recupero dell’indebito pensionistico deve essere effettuato al netto delle ritenute fiscali, anche in considerazione dell’eccessiva difficoltà per il pensionato di ottenere il relativo rimborso nel termine perentorio di quarantotto mesi previsto dall’art. 38 del d.p.r. 602/1973, alla luce delle incertezze interpretative che sussistono circa il momento di decorrenza di tale termine di decadenza (Sez. Sicilia, sent. n. 2572);

- non si può onerare il pensionato del recupero, dall’erario, delle somme versate dal sostituto d’imposta Inpdap, anche se, effettivamente, si tratterebbe di oneri deducibili ai sensi dell’art. 10, co. 1, del t.u.i.r., richiamandosi, sul punto, la Corte di cassazione (Sez. lavoro, n. 2844/2002), nel senso che il datore di lavoro, nel ripetere nei confronti del dipendente somme erroneamente corrispostegli, può recuperare solo le somme effettivamente percepite dallo stesso, al netto e non al lordo delle relative ritenute fiscali, potendo chiederne, quale sostituto d’imposta, il rimborso al fisco, ai sensi dell’art. 38 del d.p.r. 602/1973 (Sez. Abruzzo, sent.

n. 120).

Ma sono state adottate anche pronunce che hanno stigmatizzato gli obblighi ineludibili posti in capo ai medesimi pensionati:

- non è applicabile la regola della irripetibilità delle somme pensionistiche percepite indebitamente ma in buona fede (ex art. 206 del d.p.r. 1092/1973), all’indebito scaturito dalla revisione del trattamento di riversibilità conseguente alla riduzione dello stesso in applicazione dell’art. 1, co. 41, della l. 335/1995, secondo cui gli importi dei trattamenti pensionistici ai superstiti sono cumulabili con i redditi del beneficiario nei limiti di cui all’allegata tabella F. Parimenti, si palesa inapplicabile il principio, di elaborazione giurisprudenziale, che esclude la ripetizione dell’indebito pensionistico quando si tratti di somme percepite in buona fede per un lungo lasso di tempo e destinate al soddisfacimento delle fondamentali esigenze di vita; tale tipologia di indebito scaturisce, infatti, dalla violazione dell’obbligo di segnalare all’ente erogatore le intervenute variazioni

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della propria situazione reddituale, ai sensi dell’art. 86, ultimo comma, del d.p.r.

1092/1973, ove si dispone che “è fatto obbligo agli interessati di comunicare alla competente direzione provinciale del tesoro la cessazione delle condizioni che hanno dato luogo all’attribuzione della pensione o dell’assegno alimentare, nonché il verificarsi di qualsiasi evento che comporti variazione della pensione stessa ovvero soppressione degli assegni accessori” (Sez. l’Emilia Romagna, sent. n. 43359).

Una importante decisione giurisprudenziale ha riguardato la cessazione dal servizio per perdita del grado, ai sensi dell’art. 37 della l. 599/54. La norma – riproposta con una nuova formulazione dal d.lgs. 15 marzo 2010 n. 66, con l’art. 867, e l’art. 923, co. 5 – prevede che, qualora il procedimento penale o disciplinare si concluda con una sentenza o con un giudizio di commissione di disciplina che importi la perdita del grado, la cessazione del sottufficiale dal servizio permanente si considera avvenuta, a ogni effetto, per tale causa e con la medesima decorrenza con la quale era stata disposta.

La giurisprudenza in merito ha rilevato che:

- nella fattispecie di cessazione dal servizio per perdita del grado vengono meno le ragioni che hanno indotto il legislatore, nei casi di cessazione dal servizio per invalidità, a derogare espressamente, con il citato art. 1, co. 32, l. 335/95, alla nuova disciplina in materia di requisiti di accesso e decorrenza dei trattamenti pensionistici. Opera quindi, in presenza di perdita del grado, una sostituzione ope legis, coerente con la valenza latamente sanzionatoria dell’art. 37, di tale causa con qualsiasi altro motivo di cessazione, anche temporalmente antecedente (Sez.

terza giurisdizionale centrale d’appello, sent. n. 5);

- la novazione del titolo di cessazione (da “riforma per inabilità assoluta” a

“perdita del grado per rimozione”) ha come conseguenza l’applicazione delle comuni regole generali sul trattamento di quiescenza che richiedono una maggiore anzianità di servizio e anagrafica (Sez. Lombardia, sent. n. 261);

- è legittima la revoca di precedente provvedimento amministrativo concessivo della pensione annua ordinaria diretta per fisica inabilità in favore del ricorrente, in relazione all’efficacia retroattiva del provvedimento di destituzione dal servizio. Nel caso del sopravvenire di provvedimento di rimozione con efficacia ex tunc, il diritto al mantenimento di un eventuale trattamento pensionistico in godimento può, tuttavia, essere riconosciuto solo in presenza di espressa disposizione di legge, o dei requisiti anagrafici e cronologici di servizio a quella data già maturati (Sez. Campania, sent. n. 1530).

In materia di pensioni privilegiate per dipendenza da causa di servizio di infermità, sono state emesse numerose decisioni volte a ben delineare i limiti della sua riconoscibilità e, tra esse:

- il nesso causale tra un’infermità psichica e il servizio d’istituto è interrotto qualora le vicende di servizio assunte ad antecedente causale dell’infermità, siano a loro volta riconducibili a un comportamento doloso o gravemente colposo dell’interessato (Sez. Abruzzo, sent. n. 139);

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Con altre pronunce, la giurisprudenza di merito ha affrontato specifiche ma rilevanti questioni, e in tale ambito è stato affermato che:

- il risarcimento del danno da ritardo nell’assunzione dell’atto amministrativo di pensione definitiva – che va tenuto distinto dal danno derivante dal ritardo nell’erogazione della pensione – non riguarda il rapporto pensionistico e, ai sensi dell’art. 2-bis (Conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento) della l. 241/1990, come introdotto dall’art. 7, co. 1, lett. c), della l. 18 giugno 2009 n. 69 (c.d. “legge di semplificazione”), rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (Sez. prima giurisdizionale centrale, sent. n. 226/2013/A);

- va dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del blocco della perequazione automatica sui trattamenti pensionistici superiori a tre volte il “minimo Inps”, previsto dall’art. 24, co. 25, del d.l. 201/2011 (c.d.

“decreto Salva Italia”), tenuto conto che la misura si inserisce in un programma di progressiva limitazione della spesa pensionistica, in ottemperanza degli obblighi di bilancio interni ed europei, come più volte affermato dalla Corte Costituzionale (Sez. Abruzzo, sent. n. 140);

- il rimedio dell’art. 700 c.p.c. è percorribile solo in presenza di un pregiudizio imminente e irreparabile, oggetto di valutazione sommaria con riferimento ai requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora. Sussistono i suddetti requisiti nel caso in cui l’amministrazione non provveda tempestivamente alla liquidazione del trattamento pensionistico, accertata la situazione di oggettiva difficoltà economica del ricorrente nelle more tra la cessazione del rapporto lavorativo e l’erogazione della pensione (Sez. Campania, ord. 202/2012);

Giova, infine, menzionare la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all’art. 204 del d.p.r. 1092/1973, per contrasto con gli art. 3, 36 co. 1; 38 co. 2; 97 della Costituzione, nella parte in cui non prevede il potere di revoca o modifica del provvedimento definitivo di pensione in capo all’amministrazione anche nel caso di “errore di diritto” (Sez. terza giurisdizionale centrale d’appello, ord. n. 05/2012).

171 CAPITOLO VIII

L’ORGANIZZAZIONE DELLA CORTE DEI CONTI