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Il giudizio negativo del Castelvetro

CAPITOLO I: La teoria del dialogo nel Cinquecento

1.4 Il Cinquecento, il secolo del dialogo e della sua teorizzazione

1.4.2 Il giudizio negativo del Castelvetro

Il filologo modenese Ludovico Castelvetro articola in maniera più esaustiva, se paragonata ai predecessori, la propria riflessione teorica rispetto alla collocazione del dialogo nella panoramica dei

66 B. VARCHI, Opere, II, Trieste, Sez. letterario artistica del Lloyd austriaco, 1859, p.688, col. a. Come specificato nelle note precedenti, i passi degli autori che partecipano al dibattito circa l’interpretazione del passo della Poetica sono citati da PIGNATTI, Introduzione …, De dialogo liber. Per questo frammento del Varchi cfr. PIGNATTI, op. cit., p.25 e nota 21 p.88; il corsivo è mio.

67 PIGNATTI, Introduzione …, De dialogo liber, cit., pp. 26-30.

68 PIGNATTI, op. cit., p.29.

69 Per la complessa procedura attraverso la quale Vettori giunge alla conclusione che i mimi di Sofrone e Xenarco sono in versi cfr. PIGNATTI, op. cit., pp.28-29.

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generi letterari. L’intervento critico castelvetrino si prefigge di commentare non solo il controverso passo aristotelico della Poetica, ma anche di condurre una minuziosa analisi della forma dialogica al fine di escluderla, senza riserve, dalla ripartizione dei generi poetici operata dal filosofo greco. Nella

Poetica di Aristotele vulgarizzata e sposta (I ed. Vienna, K. Stainhofer, 1570) il modenese rifiuta

l’ammissibilità nella categoria dell’epopea non solo delle opere in prosa, ma anche di quelle costruite con una mescolanza di prosa e versi; inoltre, vengono riconosciute come propriamente poetiche solo quelle opere che si avvalgono non di un metro qualunque, ma del metro eroico ovvero l’esametro. La dissertazione del modenese è un’autentica stroncatura del genere dialogico in tutte le sue declinazioni; nonostante la facoltà imitativa, esso è manchevole dell’artificio metrico e ciò ne pregiudica fatalmente l’ingresso nel novero dei generi poetici. Lo studioso si appropria della classificazione del dialogo teorizzata da Diogene Laerzio (III, 50) in mimetico, diegetico e misto, imputando ad ognuna di tali tipologie dei vizi che concorrono alla condanna generalizzata di questa forma letteraria.70La premessa fondamentale su cui si articola la validità dei «ragionamenti» è la loro capacità di «montare in palco»71, ovvero di riuscire a conservare la propria credibilità imitativa non solo nella scrittura ma anche nella vera e propria messa in scena. Secondo il modenese il fine della poesia risiede esclusivamente nel diletto e da questo assunto teorico consegue la svalutazione del genere dialogico mimetico. Infatti i dialoghi rappresentativi sono per lo più di impronta speculativa filosofica o scientifica e il loro contenuto «non popolesco»72 ne inficia la potenzialità di suscitare diletto nel «commune popolo e [nel]la moltitudine rozza»73, uditorio prescelto per assistere allo spettacolo teatrale.

Così si esprime il Castelvetro a tal proposito:

«La materia delle scienze e delle arti per un’altra ragione più manifesta al senso non può essere soggetto della poesia, conciosia cosa che la poesia sia stata trovata solamente per dilettare e per

ricreare; io dico per dilettare e per ricreare gli animi della rozza moltitudine e del commune popolo,

il quale non intende le ragioni né le divisioni né gli argomenti sottili e lontani dall’uso degl’idioti, quali adoperano i filosofi in investigare la verità delle cose e gli artisti in ordinare le arti, e non gli ‘ntendendo, conviene, quando altri ne favella, che egli ne senta noia e dispiacere.[…] Laonde se

70 PIGNATTI, Introduzione …, De dialogo liber, cit., p. 32; cfr. PRANDI, Scritture …, cit., pp.147-148.

71 Riprendo la citazione castelvetrina da PRANDI, op. cit., p.148, il quale afferma di aver seguito Poetica

d’Aristotele vulgarizzata e sposta (1570), edizione a cura di W. Romani, Bari, Laterza, 1978-’79, p.36; vedi

nota 78 p.147.

72 PIGNATTI, Introduzione …, De dialogo liber, cit., p.32; Pignatti, come Prandi, si serve per le citazioni dell’opera castelvetrina dell’edizione di W. Romani come affermato nella nota 33 p.90.

31 concedessimo che la materia delle scienze e dell’arti potesse essere soggetto della poesia, concederemmo ancora che la poesia o non fosse stata trovata per dilettare, o non fosse stata trovata per le genti grosse, ma per insegnare e per le persone assottigliate nelle lettere e nelle dispute74».

Nella prospettiva del modenese il genere poetico non può ospitare dissertazioni intorno a tematiche impegnate, in quanto da ciò scaturirebbe la noia del pubblico, deficitario degli strumenti culturali propedeutici alla comprensione di tali ragionamenti. La poesia non si prefigge nessun intento pedagogico e non è adibita alla disputa ma la sua finalità, in cui trova perfetta identificazione, è il puro diletto. La seconda obiezione che il modenese muove al genere dialogico mimetico è la mancata aderenza al reale dei colloqui in scena, riconoscendo solo alle opere in versi una genuina facoltà imitativa capace di reggere alla prova del “montare in palco”. Il dialogo è un’opera allestita in prosa e ne risulta che, una volta “montato in palco”, gli interlocutori conversino tra loro con una tonalità di voce bassa, tipica delle conversazioni quotidiane, ma che al pubblico sarebbe impossibile percepire. Qualora i personaggi dei dialoghi optassero per modulare la vocalità aumentandone il volume darebbero l’impressione di essere sordi o pazzi, poiché non rispecchia la realtà uno scambio dialogico tra strilloni.75Il teorico propone di ovviare a tale idiosincrasia tra la scena e la realtà per mezzo del verso, il cui uso normalizza l’equilibrio teorico rendendo verisimile l’innalzamento del tono vocale, in quanto è l’espediente formale privilegiato per suscitare il diletto.

La seconda tipologia dialogica, la narrativa o storica, viene accusata di mancare di «verisimilitudine» e di «vanità»76. Per quanto concerne il primo vizio, Castelvetro sostiene l’impossibilità che l’autore del dialogo «sia dotato di sì tenace memoria che puntualmente s’abbia potuto fermare nella mente tutte le proposte e le risposte dette dalle persone ragionanti e raccorre tutti gli atti fatti da loro»77. Inoltre l’espediente narrativo riconduce il dialogo al genere storico e questo, secondo il modenese, viene fatto in modo improprio; la storia è un genere letterario illustre votato alla trattazione di soggetti «memorevoli e non communi»,78 incompatibili con le argomentazioni private dei dialoghi. Ecco, quindi, spiegata l’accusa di «vanità» mossa al dialogo diegetico: l’ambizione di un genere inferiore, sprovvisto di qualità formali, a voler rientrare in uno infinitamente superiore, come quello storico. La modalità dialogica mista non attraversa indenne le rigide maglie interpretative del modenese, infatti

74 Cito questo passo da PIGNATTI, op. cit., pp.32-33, il quale si rifà a Poetica d’Aristotele vulgarizzata e

sposta (1570), edizione a cura di W. Romani, Bari, Laterza, 1978-’79, pp.45-46; il corsivo è mio. 75 PIGNATTI, Introduzione …, De dialogo liber, cit., p.33.

76 PIGNATTI, op. cit., p.33; per le stesse tematiche cfr. PRANDI, Scritture …, cit., p.148.

77 PRANDI, op. cit., p.148; l’autore specifica di aver citato da Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta (1570), edizione a cura di W. Romani, Bari, Laterza, 1978-’79, p.38.

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attraverso la diegesi introduttiva viene smorzato l’effetto di «verisimilitudine»79, preparatorio al diletto, della fase mimetica successiva.

L’analisi castelvetrina del dialogo viene perpetrata secondo un rigido razionalismo volto a castrarne completamente le prerogative poetiche, ma in virtù della sua inossidabile chiarezza argomentativa diviene un imprescindibile riferimento teorico per i critici successivi. Lo studioso modenese ha fortemente incrinato la possibilità di riconoscere al dialogo lo statuto di genere autonomo, focalizzando maggiormente il dibattito in precise direzioni interpretative.

Il primo a schierarsi contro l’asse teorico Vettori-Castelvetro è Alessandro Piccolomini con le sue

Annotazioni nel libro della Poetica di Aristotele (Venezia, G. Guarisco e Co., 1575); la versione del

passo aristotelico del senese si allinea con le posizioni del Robortello e del Maggi. Il Piccolomini riprende da quest’ultimo il concetto della “piramide poetica” costituita da tre diversi gradi di poeticità: il più elevato allestito dalla combinazione di imitazione e uso del verso, quello deteriore formato solamente dal verso, poiché «senz’alcun dubio l’imitazione più sostantiale alla poesia ch’il verso si dee stimare»80. L’espediente mimetico dell’opera artistica riacquista il primato connotativo del genere poetico e i dialoghi di Platone e di Luciano, nella prospettiva dello studioso, vengono collocati nella posizione intermedia della suddetta “piramide”. L’intellettuale senese nega che le composizioni dialogiche, per comprovare la propria idoneità poetica e solidità strutturale, debbano necessariamente cimentarsi con la rappresentazione scenica; la corretta fruizione del dialogo si espleta nella lettura individuale, possibilmente mentale. Il pubblico a cui sono rivolti i “ragionamenti” non è più incarnato dalla «rozza moltitudine»81castelvetrina, ma da individui dotati di maggiori strumenti culturali propedeutici a un godimento più intellettuale dell’opera artistica. Da questo cambiamento di prospettiva ne consegue che il dialogo da mero espediente scenico, volto a suscitare nient’altro che diletto, si trasforma in composizione divulgativa dai contenuti pedagogico-scientifici.

Il Piccolomini si esprime in questi termini:

«Dico primieramente non esser sicuro il fondamento che costoro fanno, che li ragionamenti delle persone introdotte nei dialoghi habbian da essere composti come se perfettion non possino havere senza salire in palco, anzi son composti come che habbian da esser letti, et per tal lettura habbian coloro che gli leggono da immaginarsi d’esser ascoltatori presenti, et non apparenti, a quelle persone che son

79 PIGNATTI, Introduzione …, De dialogo liber, cit., p.33.

80 PIGNATTI, op. cit., p.35; Pignatti specifica di essersi servito di A. PICCOLOMINI, Annotationi nel libro

della Poetica d’Aristotele, Venezia, Giovanni Guarisco, 1575; cfr. nota 44 p.92. 81 Rimando alla nota 75 p.31 di questo elaborato.

33 introdotte a ragionare o in una camera o in un portico o in qual si voglia luogo […]. Onde appare primamente non esser sicuramente detto che i soggetti di dialoghi non possin esser cose scientifiche et recondite, ma solamente volgari et accomodate alla moltitudine, perciò che le persone etiamdio fuor del volgo et atte alla scientie, possono, mentre che leggono li dialoghi, immaginarsi d’esser ascoltatrici in quelle camere et in quei quanto si voglian segreti luoghi […] dove d’ogni più riposta scientia et arte si può, senza sconvenevolezza alcuna, discorrere et favellare»82.

Il contributo interpretativo più originale del senese è l’aver distinto, con lungimirante acutezza, lo statuto del verisimile che si sprigiona nell’imitazione poetica, soprattutto nella tipologia drammatica. Il diletto del pubblico è innescato non dal «credere reale ciò che è recitato, ma ha a che fare proprio col riconoscimento della finzione»83; di conseguenza chi assiste alla rappresentazione scenica non si aspetta che lo spettacolo sia uno spaccato della quotidianità, ma che l’arte drammatica sublimi la concretezza della realtà, rielaborandola per mezzo dell’immaginazione. Infatti, la platea avvertirebbe disagio nel vedere uno spettacolo dal taglio “cronachistico”, per la dissonanza rispetto alle proprie aspettative di presenziare a un’opera verisimile che imita il reale, ma conserva una propria verità artistica.