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Gli interventi e le mediazioni del narratore

2. Narrazione e ri-narrazione

2.1 Narrare per conoscersi

2.2.1 Una proposta di classificazione

2.2.1.1 Gli interventi e le mediazioni del narratore

Nel capitolo I i richiami all’atto di raccontare sono numerosi, proprio perché si è al principio della storia ed è opportuno rinsaldare nel lettore-ascoltatore la conoscenza delle diverse istanze narrative e dei conseguenti livelli presenti nel racconto:

66 Discorso, voce a cura di BICE MORTARA GARAVELLI, in Dizionario di linguistica e di filologia, metrica e retorica, diretto da GIAN LUIGI BECCARIA, Torino, Einaudi, 1994, p. 148

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Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare (Q I 4) cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere (Q I 38)67

Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto, quello che s’è raccontato (Q I 60)

Nel capitolo III, poi, il narratore immagina di dare voce alle domande che un pubblico presente e impegnato nell’ascolto si pone, arrivati a questo punto della storia:

– Ma perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E perché, al primo avviso, s’era mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi era questo padre Cristoforo? – Bisogna soddisfare a tutte queste domande. (Q IV 5)

Così, sulla spinta di questi interrogativi, continua il racconto nel capitolo successivo, con la storia del passato di padre Cristoforo e con la descrizione dell’uomo e della sua indole.

Altri passaggi di questo genere si distribuiscono anche più avanti, nel romanzo. Ad esempio, nel capitolo VII si legge:

Noi tralasciamo di riferir que’ concerti, perché, come il lettore vedrà, non son necessari all’intelligenza della storia; e siam contenti anche noi di non doverlo trattener più lungamente a sentir parlamentare que’ due fastidiosi ribaldi. (Q VII 54)

Proseguendo nella lettura si incontrano anche, ad esempio, le osservazioni del narratore a proposito del diffondersi della peste da Milano a Bergamo, nel capitolo XXXIII:

Scoppiata poi la peste nel milanese, e appunto, come abbiam detto, sul confine del bergamasco, non tardò molto a passarlo; e... non vi sgomentate, ch’io non vi voglio raccontar la storia anche di questa: chi la volesse, la c’è, scritta per ordine pubblico da un certo Lorenzo Ghirardelli: libro raro però e sconosciuto, quantunque contenga forse più roba che tutte insieme le descrizioni più celebri di pestilenze: da tante cose dipende la celebrità de' libri! (Q XXXIII 31)

Oppure, ancora, le osservazioni in apertura del capitolo XXXV, all’affacciarsi di Renzo sulle porte del lazzaretto:

Tale fu lo spettacolo che riempì a un tratto la vista di Renzo, e lo tenne lì, sopraffatto e compreso. Questo spettacolo, noi non ci proponiam certo di descriverlo a parte a parte, né il lettore lo desidera; solo, seguendo il nostro giovine nel suo penoso giro, ci fermeremo alle sue fermate, e di ciò che gli toccò di vedere diremo quanto sia necessario a raccontar ciò che fece, e ciò che gli seguì. (Q XXXV 2)

Dello stesso genere sono i diversi passaggi concentrati nel capitolo XXXVII, nei quali Grosser individua a proposito «una sorta di reticolo tematico e semantico, che potrebbe essere definito: la voglia di raccontare»

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. Soffermandosi un momento su questo capitolo,

67 Cfr. anche Q XXXIV 77, con la «canzonaccia», «cantilena infernale», dei monatti.

68 HERMAN GROSSER, Osservazioni sulla tecnica narrativa e sullo stile nei “Promessi sposi”, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 1/gen. 1981, pp. 409-440, qui p. 410.

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infatti, tale reticolo tematico appare evidente fin dall’apertura, con Renzo che ripercorre, nei propri pensieri, gli avvenimenti a Milano e nel lazzaretto delle ore precedenti (cfr.

punto b) in questo paragrafo): il narratore apre il passaggio descrivendo il giovane come

«premuroso soltanto di portarsi avanti, d’arrivar presto al suo paese, di trovar con chi

parlare, a chi raccontare, soprattutto di poter presto rimettersi in cammino per Pasturo,

in cerca d’Agnese» (Q XXXVII 4). E difatti questo è uno dei capitoli più ricchi di narrazioni e ragguagli: Renzo che racconta le proprie vicende all’amico (cfr. par. 2.1.1), ad Agnese, a Bortolo, e Lucia che riceve ragguagli dalla buona vedova (cfr. punto c) ). Alcuni interventi del narratore sulla gestione delle narrazioni contenute in questo capitolo si possono individuare, poi in passaggi di questo genere:

Direte forse: come andava col bando? L’andava benone […]. (Q XXXVII 38)

Chi volesse anche sapere come Renzo se la passasse con don Abbondio, in quel tempo d’aspetto, dirò che stavano alla larga l’uno dall’altro […]. (Q XXXVII 40)

Al lettore noi lo faremo passare in un momento tutto quel tempo, dicendo in compendio che […]. (Q XXXVII 42)

Potremmo anche soggiunger subito: partirono, arrivarono, e quel che segue; ma, con tutta la volontà che abbiamo di secondar la fretta del lettore, ci son tre cose appartenenti a quell’intervallo di tempo, che non vorremmo passar sotto silenzio; e, per due almeno, crediamo che il lettore stesso dirà che avremmo fatto male. (Q XXXVII 43)

Allo stesso modo si può fare riferimento all’apertura e alla chiusura del ragguaglio sulla morte di don Ferrante, in cui il narratore interviene in prima persona dichiarando ciò che sta per raccontare, e rispondendo infine ironicamente alla domanda conclusiva di un ipotetico lettore:

Di donna Prassede, quando si dice ch’era morta, è detto tutto; ma intorno a don Ferrante, trattandosi ch’era stato dotto, l’anonimo ha creduto d’estendersi un po’ più; e noi, a nostro rischio, trascriveremo a un di presso quello che ne lasciò scritto. (Q XXXVII 47)

E quella sua famosa libreria? È forse ancora dispersa su per i muriccioli. (Q XXXVII 55)

Tra i rimandi all’azione del raccontare troviamo anche i riferimenti alle fonti dell’anonimo (si è già accennato nel paragrafo precedente al riferimento dell’anonimo stesso al proprio ascolto, proprio nelle prime righe dell’Introduzione); Renzo in primis, poi il notaio criminale e, forse, in modo molto più velato, anche il conte zio. Riguardo a Renzo saltano all’occhio tre passaggi; il primo:

Come la facesse quando trovava due strade; se quella poca pratica, con quel poco barlume, fossero quelli che l’aiutassero a trovar sempre la buona, o se l’indovinasse sempre alla ventura, non ve lo saprei dire; ché lui medesimo, il quale soleva raccontar la sua storia molto per minuto, lunghettamente anzi che no (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più d’una volta), lui medesimo, a questo punto, diceva che, di quella

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notte, non se ne rammentava che come se l’avesse passata in letto a sognare. Il fatto sta che, sul finir di essa, si trovò alla riva dell’Adda. (Q XXXVII 11)

Nello stesso capitolo, il secondo:

Se i rimasti vivi erano, l’uno per l’altro, come morti resuscitati, Renzo, per quelli del suo paese, lo era, come a dire, due volte: ognuno gli faceva accoglienze e congratulazioni, ognuno voleva sentir da lui la sua storia. (Q XXXVII 37)

E, quasi in chiusura del romanzo, il terzo: «Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure […]» (Q XXXVIII 66). Sullo stesso piano si pone anche l’invito che don Abbondio, sempre nel capitolo XXXVIII rivolge al marchese, suggerendo che Renzo è ormai avvezzo a raccontare le proprie avventure a chi glielo chieda:

e poi, se vossignoria vuol prendersi il divertimento di sentir questa povera gente ragionar su alla carlona, potrà fargli raccontar la storia a lui, e sentirà. (Q XXXVIII 39)

Riguardo, invece, al notaio criminale, si può citare il passaggio del capitolo XV:

Nessuno concluda da ciò che il notaio fosse un furbo inesperto e novizio; perché s’ingannerebbe. Era un furbo matricolato, dice il nostro storico, il quale pare che fosse nel numero de’ suoi amici: ma, in quel momento, si trovava con l’animo agitato. (Q XV 55)

Infine, rispetto al conte zio, potrebbe essere significativo il brano del capitolo XVIII:

Quello del conte zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per un’occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui. (Q XVIII 40)

b) Narrazioni riportate: sommari, discorsi diretti e indiretti liberi

Passando dunque ai veri e propri racconti nel racconto, si può partire osservando la modalità con cui vengono riportate nel testo le narrazioni di fatti già accaduti (compresi nell’arco del tempo della storia, o avvenuti prima), i quali talvolta vedono mescolarsi o alternarsi la voce dei personaggi a quella del narratore stesso, permettendo ai diversi punti di vista presenti di emergere di volta in volta. Se ne riportano alcuni esempi, cercando di distinguere con l’uso del corsivo, ove la dinamica si presenti, l’affiorare della voce dei personaggi in quella del narratore:

E, con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d’un altro signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com’ella diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell’altro signore rider forte, e don Rodrigo dire:

scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s’eran trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l’altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo. (Q III 3-4)

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Era essa contenta della decisione fatta in quel giorno, come d’una sua propria fortuna; e Gertrude, per ultimo divertimento, dovette succiarsi le congratulazioni, le lodi, i consigli della vecchia, e sentir parlare di certe sue zie e prozie, le quali s’eran trovate ben contente d’esser monache, perché, essendo di quella casa, avevan sempre goduto i primi onori, avevan sempre saputo tenere uno zampino di fuori, e, dal loro parlatorio, avevano ottenuto cose che le più gran dame, nelle loro sale, non c’eran potute arrivare. Le parlò delle visite che avrebbe ricevute: un giorno poi, verrebbe il signor principino con la sua sposa, la quale doveva esser certamente una gran signorona; e allora, non solo il monastero, ma tutto il paese sarebbe in moto. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Gertrude, quando Gertrude era a letto; parlava ancora, che Gertrude dormiva. (Q X 24-25)

Poco dopo, il bravo venne a riferire che, il giorno avanti, il cardinal Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a ***, e ci starebbe tutto quel giorno; e che la nuova sparsa la sera di quest’arrivo ne’ paesi d’intorno aveva invogliati tutti d’andare a veder quell’uomo; e si scampanava più per allegria, che per avvertir la gente. (Q XXII 1)

Lucia, col capo basso, col petto ansante, lacrimando senza piangere, come chi racconta una cosa che, quand’anche dispiacesse, non si può cambiare, rivelò il voto; e insieme, giungendo le mani, chiese di nuovo perdono alla madre, di non aver parlato fin allora; la pregò di non ridir la cosa ad anima vivente, e d’aiutarla ad adempire ciò che aveva promesso.

[…] E intanto, ad Agnese veniva anche in mente questo e quell’esempio, che aveva sentito raccontar più volte, che lei stessa aveva raccontato alla figlia, di gastighi strani e terribili, venuti per la violazione di qualche voto. (Q XXVI 43-44)

Però, anche dall’amico seppe molte cose che ignorava, e di molte venne in chiaro che non sapeva bene, sui casi di Lucia, e sulle persecuzioni che gli avevan fatte a lui, e come don Rodrigo se n’era andato con la coda tra le gambe, e non s’era più veduto da quelle parti;

insomma su tutto quell’intreccio di cose. Seppe anche (e non era per Renzo cognizione di poca importanza) come fosse proprio il casato di don Ferrante: ché Agnese gliel’aveva bensì fatto scrivere dal suo segretario; ma sa il cielo com’era stato scritto; e l’interprete bergamasco, nel leggergli la lettera, n’aveva fatta una parola tale, che, se Renzo fosse andato con essa a cercar ricapito di quella casa in Milano, probabilmente non avrebbe trovato persona che indovinasse di chi voleva parlare. Eppure quello era l’unico filo che avesse, per andar in cerca di Lucia. In quanto alla giustizia, potè confermarsi sempre più ch’era un pericolo abbastanza lontano, per non darsene gran pensiero: il signor podestà era morto di peste: chi sa quando se ne manderebbe un altro; anche la sbirraglia se n’era andata la più parte; quelli che rimanevano, avevan tutt’altro da pensare che alle cose vecchie.

Raccontò anche lui all’amico le sue vicende, e n’ebbe in contraccambio cento storie, del passaggio dell’esercito, della peste, d’untori, di prodigi. (Q XXXIII 72-75)

Renzo principiò, tra una cucchiaiata e l’altra, la storia di Lucia: com’era stata ricoverata nel monastero di Monza, come rapita... All’immagine di tali patimenti e di tali pericoli, al pensiero d’essere stato lui quello che aveva indirizzata in quel luogo la povera innocente, il buon frate rimase senza fiato; ma lo riprese subito, sentendo com’era stata mirabilmente liberata, resa alla madre, e allogata da questa presso a donna Prassede.

“Ora le racconterò di me,” proseguì Renzo; e raccontò in succinto la giornata di Milano, la fuga; e come era sempre stato lontano da casa, e ora, essendo ogni cosa sottosopra, s’era arrischiato d’andarci; come non ci aveva trovato Agnese; come in Milano aveva saputo che Lucia era al lazzeretto. “E son qui,” concluse, “son qui a cercarla, a veder se è viva, e se... mi vuole ancora... perché... alle volte...” (Q XXXV 25)

Andava, con la mente tutta sottosopra dalle cose di quel giorno; ma di sotto le miserie, gli orrori, i pericoli, veniva sempre a galla un pensierino: l’ho trovata; è guarita; è mia! E allora faceva uno sgambetto, e con ciò dava un’annaffiata all’intorno, come un can barbone uscito dall’acqua; qualche volta si contentava d’una fregatina di mani; e avanti, con più ardore di prima. Guardando per la strada, raccattava, per dir così, i pensieri, che ci aveva lasciati la

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mattina e il giorno avanti, nel venire; e con più piacere quelli appunto che allora aveva più cercato di scacciare, i dubbi, le difficoltà, trovarla, trovarla viva, tra tanti morti e moribondi! — E l’ho trovata viva! — concludeva. Si rimetteva col pensiero nelle circostanze più terribili di quella giornata; si figurava con quel martello in mano: ci sarà o non ci sarà?

e una risposta così poco allegra; e non aver nemmeno il tempo di masticarla, che addosso quella furia di matti birboni; e quel lazzeretto, quel mare! lì ti volevo a trovarla! E averla trovata! Ritornava su quel momento quando fu finita di passare la processione de’

convalescenti: che momento! che crepacore non trovarcela! e ora non gliene importava più nulla. E quel quartiere delle donne! E là dietro a quella capanna, quando meno se l’aspettava, quella voce, quella voce proprio! E vederla, vederla levata! Ma che? c’era ancora quel nodo del voto, e più stretto che mai. Sciolto anche questo. E quell’odio contro don Rodrigo, quel rodìo continuo che esacerbava tutti i guai, e avvelenava tutte le consolazioni, scomparso anche quello. Talmenteché non saprei immaginare una contentezza più viva, se non fosse stata l’incertezza intorno ad Agnese, il tristo presentimento intorno al padre Cristoforo, e quel trovarsi ancora in mezzo a una peste. (Q XXXVII 4-7)

La prima, che, quando Lucia tornò a parlare alla vedova delle sue avventure, più in particolare, e più ordinatamente di quel che avesse potuto in quell’agitazione della prima confidenza, e fece menzione più espressa della signora che l’aveva ricoverata nel monastero di Monza, venne a sapere di costei cose che, dandole la chiave di molti misteri, le riempiron l’animo d’una dolorosa e paurosa maraviglia. Seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s’era ravveduta, s’era accusata; e che la sua vita attuale era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare un più severo. Chi volesse conoscere un po’ più in particolare questa trista storia, la troverà nel libro e al luogo che abbiam citato altrove, a proposito della stessa persona.

L’altra cosa è che Lucia, domandando del padre Cristoforo a tutti i cappuccini che potè vedere nel lazzeretto, sentì, con più dolore che maraviglia, ch’era morto di peste.

Finalmente, prima di partire, avrebbe anche desiderato di saper qualcosa de’ suoi antichi padroni, e di fare, come diceva, un atto del suo dovere, se alcuno ne rimaneva. La vedova l’accompagnò alla casa, dove seppero che l’uno e l’altra erano andati tra que’ più. (Q XXXVII 44-47)

c) Le ellissi-sommario mediate dal narratore

Questo tipo di narrazione è tipico dei racconti che riguardano fatti già avvenuti nel romanzo e già conosciuti dal lettore: non essendo più necessario, per la funzionalità della storia, riportare gli eventi, il narratore spesso li omette, preferendo descrivere l’azione e stessa del racconto da parte dei personaggi; così fornisce al lettore descrizioni implicite, e spesso ironiche, dei personaggi stessi, e talvolta approfitta per aggiungere le proprie osservazioni come spunti di riflessione.

Anche in questo caso gli esempi sono numerosi, a partire dal primo capitolo: qui, don

Abbondio rincasa dopo l’incontro coi bravi, e, dopo le molte insistenze di Perpetua, decide

di raccontarle l’accaduto. Manzoni non riporta le parole dirette di don Abbondio, ma

permette al lettore di immaginarsi la scena, richiamando le sue «sospensioni» e i «molti

ohimè» (d’altra parte il racconto dettagliato dei fatti è già presente nelle pagine

precedenti):

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Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d’una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: “per amor del cielo!”. (Q I 72-73)

Nel secondo capitolo leggiamo che don Abbondio racconta anche a Renzo l’accaduto, quando, dopo essersi finalmente lasciato convincere dal giovane a rivelare la verità, cede, e «si fece a dipinger con colori terribili il brutto incontro». Poi il narratore riassume il dialogo tra don Abbondio e Perpetua, dipingendo la scena e lasciando intendere al lettore il tono di quel confronto:

Risparmio al lettore i lamenti, le condoglianze, le accuse, le difese, i “voi sola potete aver parlato,” e i “non ho parlato,” tutti i pasticci in somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di metter la stanga all’uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini, “son servito;” e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo. (Q II 46)

Anche Renzo, poi, racconterà di lì a poco tutto l’accaduto di quella mattina (insieme ai fatti narratigli da don Abbondio) a Lucia, prima, e poi anche a sua madre: arrivato a casa di Lucia, finalmente «le raccontò brevemente la storia di quella mattina», mentre «ella ascoltava con angoscia».

Così, nel capitolo V, il narratore descrive le reazioni di padre Cristoforo all’ascolto della storia di Lucia (che il lettore conosce già dal capitolo III, quando la ragazza l’ha raccontata a Renzo e alla madre):

“quietatevi, povera figliuola. E voi”, disse poi ad Agnese, “raccontatemi cosa c’è!” Mentre la buona donna faceva alla meglio la sua dolorosa relazione, il frate diventava di mille colori, e ora alzava gli occhi al cielo, ora batteva i piedi. Terminata la storia, si coprì il volto con le mani, ed esclamò: “o Dio benedetto! fino a quando...!” (Q V 1-2)

Dello stesso genere è il passaggio in cui, nel capitolo IX, il narratore descrive le reazioni del padre guardiano alle notizie contenute nella lettera di padre Cristoforo, anziché riportarne il contenuto, già noto comunque al lettore:

Convien poi dire che il nostro buon Cristoforo avesse, in quella lettera, raccomandate le donne con molto calore, e riferito il loro caso con molto sentimento, perché il guardiano, faceva, di tanto in tanto, atti di sorpresa e d’indegnazione; e, alzando gli occhi dal foglio, li fissava sulle donne con una certa espressione di pietà e d’interesse (Q IX 12)

Altri esempi si trovano anche più avanti nel testo:

“Com’è andata? Sentiremo, sentiremo,” disse don Rodrigo, e s’avviò verso la sua camera, dove il Griso lo seguì, e fece subito la relazione di ciò che aveva disposto, fatto, veduto e non

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veduto, sentito, temuto, riparato; e la fece con quell’ordine e con quella confusione, con quella dubbiezza e con quello sbalordimento, che dovevano per forza regnare insieme nelle sue idee.

(Q XI 7)

Federigo si mise in attenzione; e l’innominato raccontò brevemente, ma con parole d’esecrazione anche più forti di quelle che abbiamo adoprato noi, la prepotenza fatta a Lucia, i terrori, i patimenti della poverina, e come aveva implorato, e la smania che quell’implorare aveva messa addosso a lui, e come essa era ancor nel castello... (Q XXIII 25)

Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta. (Q XXV 46)

Il brano forse più emblematico a questo proposito, però, è rappresentato dall’incontro di Renzo e Agnese nel capitolo XXXVII, durante il quale i due personaggi si raccontano finalmente le vicende passate (cfr. anche punto a) in questo paragrafo). Il lettore conosce già quello che Renzo e Agnese si stanno comunicando, e il narratore sottolinea come proprio la pregressa conoscenza dei fatti possa rendere più facile da immaginare e più apprezzabile l’atmosfera che regna durante il colloquio tra i due:

Renzo andò a mettersi a sedere sur una: un momento dopo, Agnese si trovò lì sull’altra: e son certo che, se il lettore, informato come è delle cose antecedenti, avesse potuto trovarsi lì in terzo, a veder con gli occhi quella conversazione così animata, a sentir con gli orecchi que’

racconti, quelle domande, quelle spiegazioni, quell’esclamare, quel condolersi, quel rallegrarsi, e don Rodrigo, e il padre Cristoforo, e tutto il resto, e quelle descrizioni dell’avvenire, chiare e positive come quelle del passato, son certo, dico, che ci avrebbe preso gusto, e sarebbe stato l’ultimo a venir via. Ma d’averla sulla carta tutta quella conversazione, con parole mute, fatte d’inchiostro, e senza trovarci un solo fatto nuovo, son di parere che non se ne curi molto, e che gli piaccia più d’indovinarla da sé. La conclusione fu che s’anderebbe a metter su casa tutti insieme in quel paese del bergamasco dove Renzo aveva già un buon avviamento: in quanto al tempo, non si poteva decider nulla, perché dipendeva dalla peste, e da altre circostanze: appena cessato il pericolo, Agnese tornerebbe a casa, ad aspettarvi Lucia, o Lucia ve l’aspetterebbe: intanto Renzo farebbe spesso qualche altra corsa a Pasturo, a veder la sua mamma, e a tenerla informata di quel che potesse accadere. (Q XXXVII 26-27)

Ciò che emerge in questa casistica di esempi, nel glissare su alcuni discorsi o nel riassumerli dichiarando in realtà di non volerne parlare, è l’ironia del narratore: in questi punti del testo egli ritaglia uno spazio per spingere i lettori a riflettere, celandosi dietro il detto-non detto. È decisamente emblematico di questa dinamica anche uno stralcio del capitolo IV, dove il narratore, senza dichiararlo apertamente e attribuendo la causa di questa sua ellissi al manoscritto dell’anonimo, lascia intendere l’ipocrisia e il senso falsato della giustizia che hanno i parenti dell’ucciso:

La storia non dice che a loro dolesse molto dell’ucciso, e nemmeno che una lagrima fosse stata sparsa per lui, in tutto il parentado: dice soltanto ch’eran tutti smaniosi d’aver nell’unghie l’uccisore, o vivo o morto. (Q IV 40)