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Narrazione: l’autoconsapevolezza nella relazione

2. Narrazione e ri-narrazione

2.1 Narrare per conoscersi

2.1.1 Narrazione: l’autoconsapevolezza nella relazione

La narratologia individua tre istanze necessarie affinché il messaggio comunicato da un racconto giunga a buon fine: occorrono un emittente, un destinatario e un testo. La narrazione, dunque, come si è già anticipato, si fonda sulla comunicazione nella relazione:

1 CARDONA, Culture dell’oralità e culture della scrittura, pp. 36-37.

2 SCHENDA, Le letture popolari e il loro significato per la narrativa orale in Europa, p. 17.

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raccontare una storia in solitudine, che sia la propria o quella d’altri, non porta un’utilità concreta al narratore; così come non si può ascoltare una storia senza qualcun’altro che la racconti. Un testo, a sua volta, che sia orale o scritto, non ha ragion d’essere se non viene

pubblicato, ovvero appunto reso pubblico dal suo autore e accettato come tale dal

destinatario. Inoltre, a seconda di chi riceve il testo, esso sarà passibile di diverse interpretazioni, che non necessariamente saranno le stesse pensate dall’autore. Allo stesso modo, se il testo non viene trasmesso al pubblico dall’autore stesso ma da una terza persona che lo legge o che lo racconta, esso si caricherà di significati dati, più o meno volontariamente, anche dall’interpretazione dell’intermediario. Infatti,

[…] i significati dei testi dipendono dalle forme e dalle circostanze attraverso le quali i loro lettori (o ascoltatori) li recepiscono e se ne appropriano. Questi ultimi non si confrontano mai con testi astratti, ideali, distaccati da ogni materialità: maneggiano oggetti, ascoltano parole le cui modalità informano la lettura e l’ascolto e, ciò facendo, governano la possibile comprensione del testo.3

Si creano quindi incastri complessi tra il testo, le sue possibilità interpretative e i suoi fruitori: si è già parlato, ad esempio, nel capitolo precedente, dei limiti della parola scritta e delle ambiguità interpretative che le sono connesse. Ciò che interessa qui, però, è spostare l’attenzione sulle soggettività coinvolte nella narrazione, che relazionandosi tra loro in quest’esperienza scoprono, modificano e confermano, per analogia o per contrasto, la propria individualità. Dunque, non solo ascoltare, ma

Anche narrare è un’azione: il primo oggetto del desiderio che anima il narratore è dunque quello di veder riconosciuta la propria esistenza da parte del destinatario del suo racconto.4 Così, può sempre avvenire che l’altro, partecipe del nostro stesso mondo e sensibile a ciò che facciamo, possa renderci consapevoli di un aspetto del significato del nostro agire che a noi stessi era oscuro, e la cui possibilità di comprensione giaceva in effetti presso di lui, perché era costituito dagli effetti che tale agire su di lui produceva. […]

Ma l’altro è colui sul quale le nostre azioni hanno avuto effetto: per questo, se egli racconta la sua storia, racconta anche la nostra. E in questa storia, se le prestiamo ascolto, abbiamo la possibilità di riconoscerci.5

Occorre a questo punto soffermarsi sulla differenza che intercorre tra la narrazione intesa come azione di un narratore che racconta qualcosa e la narrazione intesa come lettura di un racconto scritto da qualcun altro. Aidan Chambers individua la differenza sostanziale tra le due azioni nel fatto che,

quando una storia è raccontata, la personalità dell’interprete produce un impatto diretto sul pubblico molto più forte di quando una storia è letta ad alta voce. Si tratta di due attività

3 Introduzione, in Storia della lettura nel mondo occidentale, pp. V-XLIV, qui p. VI.

4 PAOLO JEDLOWSKI, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p.

108.

5 Ivi, p. 124.

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diverse. Il racconto di una storia è un’attività focalizzata sull’interprete e sul pubblico; la lettura ad alta voce è focalizzata sul testo. Il passaggio dall’una all’altra è importante e cambia la natura di chi ascolta.6

Nel secondo caso, dunque, la trama dei soggetti coinvolti si complica, poiché chi legge ad alta voce è allo stesso tempo lettore, narratore e ascoltatore di sé stesso; chi narra prima di tutti è l’autore reale, al quale seguono l’autore implicito e il narratore (o i narratori) interni al racconto. Dunque, in questo caso, chi racconta è colui che cede la propria voce a un narratore assente, l’autore del testo in pratica, che comunica così i messaggi che vuol trasmettere. Non è detto, naturalmente, che ogni testo – in particolare se narrativo – sia stato pensato per essere fruito tramite la lettura ad alta voce e l’ascolto; tuttavia, nel corso dei secoli, come si è visto, le opere letterarie hanno spesso incontrato proprio questo destino, per poter raggiungere un pubblico più ampio. Dunque,

se lo scritto è incompleto in assenza della voce, ciò significa anche che esso deve appropriarsi di una voce per realizzarsi pienamente. L’abbiamo visto: lo scrittore conta sull’arrivo di un lettore pronto a mettere la propria voce a disposizione della scrittura (in ultima analisi, dello scrittore). È cedere la propria voce, per l’attimo di una lettura. Voce che lo scritto subito fa propria, vale a dire che essa non appartiene al lettore durante la lettura. Egli l’ha ceduta. La sua voce si assoggetta allo scritto, vi si unisce. Essere letto significa, di conseguenza, esercitare un potere sul corpo del lettore, anche ad una grande distanza nello spazio e nel tempo. Lo scrittore che riesce a farsi leggere agisce sull’apparato vocale altrui, di cui si serve, anche dopo la propria morte, come di un instrumentum vocale, cioè come di qualcuno o di qualcosa al suo servizio […].7

Osservando i meccanismi e le complesse reti di relazioni tra soggetti su cui si basa la narrazione, i recenti studi della psicologia cognitiva riconducono questa pratica ai processi di comprensione della realtà da parte dell’uomo e alla costruzione della sua identità:

È bene ricordare che mentre gli animali vivono in una cultura “episodica”, legata al qui e ora dell’evento, e possono avvalersi solo di schemi d’azione innati, la capacità di prevedere il futuro in termini di storie o destini pertiene sino in fondo solo all’uomo, homo narrans proprio in quanto la narratività costituisce uno strumento cognitivo in grado di fornire modelli di comprensione concettuale delle situazioni e di cooperare alla configurazione spazio-temporale dell’agire quotidiano. Meglio ancora, sarebbero le pratiche narrative a colmare il gap tra conoscenze generali e condizioni empiriche, in modo tale che esse interagiscano favorevolmente in aiuto dell’individuo […].

Se questo significa narrare, larga parte delle nostre attività cognitive quotidiane – nel ruolo di produttori o di consumatori – è dedicata alle pratiche narrative: è da esse che dipende il modo in cui gli individui ricorrono alla propria immaginazione predittiva, istituiscono orizzonti d’attesa e procedono alle opportune deliberazioni ad agire.8

6 CHAMBERS, Il lettore infinito, p. 69.

7 SVENBRO, La Grecia arcaica e classica: l’invenzione della scrittura silenziosa, p. 13.

8 STEFANO CALABRESE, La comunicazione narrativa. Dalla letteratura alla quotidianità, Milano, Mondadori, 2010, pp. 8-9.

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«L’uomo», quindi, «osserva il mondo in forma narrativa per potergli assegnare un ordine e una esplicabilità razionale che altrimenti esso non possiederebbe»

9

: narrare serve all’individuo per riordinare la propria esperienza del mondo e per rendere chiara la propria collocazione al suo interno. La narrazione, però, non avviene tra il singolo e sé stesso: è sempre rivolta a qualcuno che ascolta, se orale, o a un ipotetico lettore, se scritta (talvolta il destinatario coincide addirittura con lo strumento sul quale la narrazione viene trascritta, come nel caso del diario). Dunque,

lo storytelling comunica ed è un’esperienza filtrata dalla coscienza individuale, qualcosa che può anche fare a meno di un intreccio, ma non di un lettore/ascoltatore che riconosca proiettivamente il mondo esperienziale […]: sono i destinatari a costruire attivamente i testi nei termini del loro allineamento con parametri cognitivi esperienziali, proprio in quanto ciò serve a reintegrare il perturbante con il conosciuto e il familiare.10

Da qui nasce la teoria cognitivista dello schema e dello script, che

si basa sulla convinzione che ogni nostra esperienza viene compresa sulla base di un confronto con un modello stereotipico, derivato da esperienze simili registrate nella memoria: ogni nuova esperienza verrebbe dunque valutata sulla base della sua conformità o difformità rispetto a uno schema pregresso. […] Nondimeno, la sola competenza nel classificare le situazioni come schemata non sarebbe sufficiente né alla semplice comprensione della realtà né, soprattutto, a farci agire secondo convenzioni pragmatiche.

Uno schema è infatti solo un’etichetta che noi apponiamo a porzioni dinamiche di esistenza:

altrettanto importante è la capacità di codificare quello che avviene entro questi schemata astratti, che i neuroscienziati chiamano scripts (letteralmente, “microsceneggiature”). Gli script si riferiscono a processi dinamici, e cioè al modo in cui si producono attese relativamente alla maniera in cui si verificano sequenze di eventi. uno schema dà il paradigma semantico di un accadimento, lo script ne costituisce l’articolazione sintattica;

senza il primo non si comprende nulla, senza il secondo non accade letteralmente nulla.11

Essendo anche la narrazione, come si è detto, un’esperienza importante per gli individui che vi partecipano (sia per l’emittente che per il destinatario), la teoria dello schema e dello

script è dunque valida

per tutti i romanzi, i film e le storie comunque narrate che ci hanno colpito o che si sono impresse nell’immaginario: diventano schemi che ci permettono di intendere la nostra realtà, ancoraggi delle rappresentazioni sociali che sedimentano entro la cultura, modi con cui interpretiamo e organizziamo la nostra stessa esistenza.12

Tutto – tutto – si articola dunque secondo una sintassi convenuta di gesti e azioni radicata nella tradizione culturale di uno spazio sociale, e qualsiasi trasgressione a tale sintassi ordinaria su cui si fonda il nostro sistema d’attese viene letta sullo sfondo di un repertorio convenuto di script. Il nostro destino, le life stories sia pure inconsistenti di cui siamo giornalmente attori o spettatori, i testi letterari denominati “romanzi”, le news giornalistiche

9 Ivi, p. 14.

10 Ibidem.

11 Ivi, pp. 5-6.

12 JEDLOWSKI, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, pp. 59-60.

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tanto quanto le fiction televisive si costruiscono attraverso le ascisse e le ordinate rappresentate da schemata e script.13

A questo punto si può aggiungere un ultimo passaggio fondamentale, comune a tutte le esperienze di narrazione: la costruzione dell’individuo avviene all’interno di un meccanismo dialettico, che passa prima per la costruzione dei propri schemata e dei propri script, sulla base del riconoscimento di sé nella narrazione dell’altro, e che si snoda poi nel confronto con elementi non riconducibili alle coordinate che l’individuo si è creato.

Wolfang Iser descrive bene questo meccanismo, correlandolo in particolare alla lettura:

Se la lettura annulla la scissione tra soggetto e oggetto che costituiva la base della percezione e della conoscenza, accade allora allo stesso tempo che i pensieri dell’autore si

«impadroniscano» della coscienza del lettore, diventando a loro volta il presupposto di una nuova «delimitazione». Testo e lettore non si contrappongono più come oggetto e soggetto, questa «scissione» ha piuttosto luogo nel lettore stesso. Pensando i pensieri di un altro, il lettore esce temporaneamente dalla sua soggettività, poiché tematizza qualcosa che fino ad allora non rientrava, almeno in questa forma, nel suo orizzonte. Nella lettura si verifica una scissione artificiale della nostra persona, in quanto tematizziamo qualcosa che non siamo.14

Tuttavia,

[…] i nostri orientamenti soggettivi rappresentano pur sempre l’orizzonte che fa da sfondo alla tematizzazione dei pensieri dell’autore, i quali ci dominano totalmente. Nell’atto della lettura si formano perciò sempre due piani, la cui correlazione, pur mutando di intensità, non si risolve mai del tutto. Possiamo infatti tematizzare in modo esclusivo i pensieri di un altro solo in quanto questo sono sempre correlati con l’orizzonte virtuale rappresentato dalla nostra persona e dai suoi orientamenti soggettivi. […]

Dover pensare nell’atto della lettura ciò che è altro da noi, senza averlo ancora esperito, significa perciò non soltanto che possiamo comprenderlo, ma anche che questi atti della comprensione sono efficaci nella misura in cui ci consentono in qualche modo di esprimerci.

I pensieri di un altro possono venire espressi solo se la creatività spontanea che il testo stimola in noi assume a sua volta un profilo. Poiché la creatività spontanea così provocata si configura in base a presupposti definiti da un altro – di cui, leggendo, tematizziamo i pensieri – non è allora secondo i nostri orientamenti che esprimiamo la nostra creatività. In questo processo si evidenzia la struttura dialettica della lettura. La configurazione del senso del testo letterario […] indica anche che in questa formulazione di ciò che non è esplicitato è sempre riposta la possibilità di esprimere noi stessi, scoprendo così quanto nella nostra coscienza prima era solo latente. In questo senso, la lettura ci offre l’opportunità di formulare noi stessi mentre formuliamo ciò che non è stato ancora formulato.15

Narrare a qualcuno e ascoltare narrazioni, dunque, sono una forma di ri-conoscimento del proprio io. Questo avviene sia nella conferma delle proprie esperienze, quando si riesce a ricondurre la narrazione a schemi che già si possiedono, confermandoli; sia nella novità, quando la narrazione spinge a mettere in discussione e a correggere o arricchire le proprie conoscenze, a vantaggio di qualcosa di nuovo o di più completo. Nel primo caso ci si

13 CALABRESE, La comunicazione narrativa, p. 7.

14 WOLFANG ISER, Il processo della lettura. Una prospettiva fenomenologica, in Teoria della ricezione, a cura di ROBERT C.HOLUB, Torino, Einaudi, 1989, pp. 43-69, qui p. 66.

15Ivi, pp. 66-68.

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riconosce gli uni negli altri, come se ci si guardasse in una sorta di specchio; nel secondo caso ci si conosce una seconda volta, dopo essersi messi in discussione ed essersi ricostruiti.

Narrarsi è disporsi alla comprensione della propria vita. Si tratta di ri-conoscersi, conoscere di nuovo ciò che si è conosciuto vivendo.

Ciò che in questo senso è ri-conosciuto, è trasformato in esperienza. La parola “esperienza”

in verità può essere usata in varie accezioni. Qui penso a quella per cui l’esperienza può essere intesa come un passato presente, un passato che si fa patrimonio e strumento per la comprensione di se stessi.16

Se di “racconto nel racconto” nei Promessi sposi in senso più ampio si tratterà nei paragrafi seguenti, vale la pena di soffermarsi, qui, proprio sull’importanza che nel romanzo rivestono il narrare di sé stessi e l’ascoltare le narrazioni degli altri per conoscersi e per costruire la propria identità (del resto, la costruzione dell’io nella relazione con l’altro è un concetto fondamentale nel romanzo, e ciò emerge anche al livello della costruzione del testo: lo si approfondirà nel terzo capitolo). Gli esempi di “narrazioni formative” sono vari, e con essi quelli dei personaggi che cambiano, crescono e si evolvono nel romanzo. Nel caso, invece, dei personaggi che non affrontano un percorso di crescita, è significativo il fatto che non si trovino mai nelle condizioni di raccontare di sé. Don Abbondio, innanzitutto, il personaggio statico per eccellenza, non racconta mai la propria esperienza agli altri: per paura delle conseguenze a cui potrebbe andare incontro, è sempre reticente;

e non si racconta anche per evitare di confrontarsi con sé stesso, con i propri limiti, e con qualcun altro che potrebbe spingerlo alla fatica di mettersi in discussione per cercare di migliorarsi e di crescere. Il solo momento, nel romanzo, in cui il curato racconta qualcosa, più perché costretto che per propria iniziativa, è nel colloquio con il cardinal Borromeo. È significativo che il narratore sottolinei di continuo l’alternarsi tra le domande del cardinale, stimoli rivolti a don Abbondio perché si apra con lui, e il dibattimento interiore del sacerdote che vorrebbe non parlare ma si trova costretto a farlo: «in quant’a lui, si sarebbe volentieri contentato che il discorso finisse lì; ma vedeva il cardinale, a ogni pausa, restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o un’apologia, qualcosa in somma» (Q XXV 53). Don Abbondio riflette piuttosto sull’atteggiamento, opposto al suo, di Borromeo, che sfrutta il confronto come una possibilità per mettere in discussione anche sé stesso: « – Oh che sant’uomo! ma che tormento! – pensava don Abbondio: – anche sopra di sé:

purché frughi, rimesti, critichi, inquisisca; anche sopra di sé. –» (Q XXVI 17). Alla fine del colloquio, però, finalmente, anche lui acquista un’attitudine diversa, spinto alla riflessione

16 JEDLOWSKI, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, p. 110.

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dal confronto con il Cardinale: come prima, scrive il narratore, «Don Abbondio stava zitto;

ma non era più quel silenzio forzato e impaziente: stava zitto come chi ha più cose da pensare che da dire» (Q XXVI 23).

Un altro personaggio emblematico in questo senso è Gertrude. Lei stessa ammette di ascoltare molto volentieri le vicende altrui, indubbiamente per il piacere che il pettegolezzo genera nelle orecchie di chi lo riceve, ma anche perché ascoltare senza narrarsi le permette di non interrogarsi a lungo su sé stessa: «Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto», dice al padre guardiano, disponendosi ad ascoltare Lucia (Q IX 28).

Gertrude del resto non è mai stata educata a parlare di sé (e per sé), poiché le sue parole sono sempre state quelle del padre. Tuttavia, la storia di Lucia crea in lei un movimento interiore, che, per quanto piccolo e non del tutto produttivo, la spinge ad affezionarsi alla ragazza e la porta, quasi, a retrocedere dai piani per il suo rapimento, nel capitolo XX.

Anche don Rodrigo, infine, rientra in questa categoria di personaggi: anche lui, di fronte alle occasioni di confronto con l’altro, specialmente se per contrasto, e di fronte alla possibilità di riflettere su sé stesso, innesca meccanismi di rifiuto o di fuga. Basti pensare allo scontro con padre Cristoforo nel capitolo VI, e ad alcune delle parole che il signorotto oppone a quelle del frate: «Lei mi parlerà della mia coscienza», afferma don Rodrigo,

«quando verrò a confessarmi da lei. In quanto al mio onore, ha da sapere che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque ardisce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo come il temerario che l’offende» (Q VI 4). E poi, alla fine del colloquio, incapace di riflettere sulle parole ricevute, ma in grado solo di indignarsi per l’affronto subito, don Rodrigo, dopo il confronto con i muti ma eloquenti ritratti dei suoi avi, finisce per scappare da quella situazione scomoda:

Per passare un poco la mattana, e per contrapporre all’immagine del frate che gli assediava la fantasia, immagini in tutto diverse, don Rodrigo entrò, quel giorno, in una casa, dove andava, per il solito, molta gente, e dove fu ricevuto con quella cordialità affaccendata e rispettosa, ch’è riserbata agli uomini che si fanno molto amare o molto temere; e, a notte già fatta, tornò al suo palazzotto. (Q VII 41)

Un meccanismo simile, utile per parlare degli altri evitando di mettere in gioco sé stessi, è quello del pettegolezzo, anch’esso molto presente nei Promessi sposi e incarnato di solito dalla voce della folla (cfr. cap. 1, par. 1.1.2, dove, seppur in altro contesto, il tema è già stato approfondito, con i necessari riferimenti testuali). Si tratta di una modalità sterile di narrazione, che, portando a concentrare l’attenzione su altro da sé, non produce una spinta all’autoanalisi per migliorare la propria autoconsapevolezza: è una «babilonia di discorsi»

(Q XIV 4) che si sovrappongono l’un l’altro e si diffondono, senza però portare chiarezza

nell’animo di chi li pronuncia e di chi li ascolta, bensì spargendo fraintendimenti,

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confusione e, non di rado, violenza. È lo stesso modo di comunicare superficiale che domina anche i capitoli della peste, condannato dal narratore in chiusura del capitolo XXXI:

Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.

Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire. (Q XXXI 74-75)

L’esatto opposto, ovvero la comunicazione positiva, il confronto con l’altro che accresce la consapevolezza di sé, è quello che interessa invece Renzo e Lucia, sia come singoli che come coppia. Riguardo a Renzo è emblematico, in particolare, il tempo trascorso al paese con l’amico nel capitolo XXXIII, durante il quale il giovane riesce finalmente a ricucire e a comprendere molte parti della storia dei mesi passati che le voci raccolte qua e là non erano state in grado di fornirgli. L’incontro è rigenerante e ritrae l’importanza della condivisione dopo un lungo tempo di vicissitudini e di solitudine. Jedlowski osserva, infatti, che

L’occasione principe dei racconti è quando ci si incontra dopo un certo tempo. Raccontare è riprendere i contatti, rispondere all’affetto che muove sguardi e domande. Dire “cosa è successo” è trasmettere certe conoscenze sulla realtà e intepretarla, ma è anche rinsaldare il legame, ricostituire il tessuto di una continuità del rapporto che è fatto di sapere reciproco e di sapere sui conoscenti e sui parenti comuni.17

I due amici si raccontano a vicenda, traendo l’uno dall’altro speranze, conoscenze, e nuovi spunti per proseguire la propria esistenza, e «si offrono a un’assimilazione resa possibile dallo stato di distensione che narrare richiede»

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: non si tratta di uno scambio di informazioni, ma di una più profonda condivisione di narrazioni, che permeano maggiormente nella coscienza di chi parla e di chi ascolta.

E, dopo un’assenza di forse due anni, si trovarono a un tratto molto più amici di quello che avesser mai saputo d’essere nel tempo che si vedevano quasi ogni giorno; perché all’uno e all’altro, dice qui il manoscritto, eran toccate di quelle cose che fanno conoscere che balsamo sia all’animo la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che si trova negli altri.

[…] Però, anche dall’amico seppe molte cose che ignorava, e di molte venne in chiaro che non sapeva bene, sui casi di Lucia, e sulle persecuzioni che gli avevan fatte a lui, e come don Rodrigo se n’era andato con la coda tra le gambe, e non s’era più veduto da quelle parti;

insomma su tutto quell’intreccio di cose. Seppe anche (e non era per Renzo cognizione di poca importanza) come fosse proprio il casato di don Ferrante: ché Agnese gliel’aveva bensì fatto scrivere dal suo segretario; ma sa il cielo com’era stato scritto; e l’interprete bergamasco, nel leggergli la lettera, n’aveva fatta una parola tale, che, se Renzo fosse andato con essa a cercar ricapito di quella casa in Milano, probabilmente non avrebbe trovato persona che indovinasse di chi voleva parlare. Eppure quello era l’unico filo che avesse, per andar in cerca di Lucia. In quanto alla giustizia, potè confermarsi sempre più ch’era un pericolo abbastanza lontano, per non darsene gran pensiero: il signor podestà era morto di peste: chi sa quando

17 JEDLOWSKI, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, p. 95.

18 Ivi, pp. 180-181.