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Gli uomini: l’eroe, il saggio, il giudice

La giustizia come legalità

3. Gli uomini: l’eroe, il saggio, il giudice

Le figure classiche del «governo degli uomini» sono il grande legislatore, il fondatore di stati e il grande giudice.

I primi due sono ricondotti al genus dell’uomo saggio (Minosse, Licurgo,

Solone), e dell’eroe (Mosè72, Ciro, Teseo73, Romolo). Nonostante si tratti di

figure simboliche del potere personale, non sono in contraddizione con il paradigma del «governo della legge», soprattutto nella sua declinazione sub lege. Tali personaggi risolvono, semmai, il problema della regressio ad infinitum che scaturisce dalla domanda circa chi abbia posto la «legge (buona)». Il grande legislatore è proprio colui che, ponendo la legge, sancisce la fine del «governo degli uomini»; come Licurgo che, allontanandosi da Sparta per consultare l’oracolo, raccomanda alla città, raccolta in assemblea, di non modificare le leggi da lui edificate fino al suo ritorno. Ritorno che non avverrà mai.

Il grande legislatore, allora, è la figura mitica, o mitico-storica, che assolve la funzione tanto del diritto naturale nel pensiero giusnaturalista quanto della teoria del pactum unionis nel contrattualismo. In Kant il patto rappresenta la soluzione al problema della fondazione. Il contratto è «una semplice idea della

ragione, ma che ha indubbiamente una sua realtà (pratica): cioè la sua realtà



71 Cfr. infra, pp. 138 e ss.

72 «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè (lui con il quale il Signore parlava faccia a

faccia) per tutti i segni e prodigi che il Signore lo aveva mandato a compiere nel paese d’Egitto, contro il faraone, contro i suoi ministri e contro tutto il suo paese e per la mano potente e il terrore grande messo in opera da Mosè davanti agli occhi di tutto Israele.» (Deuteronomio, 34, 5-12)

consiste nell’obbligare ogni legislatore a far leggi come se esse dovessero derivare dalla volontà comune di tutto un popolo e nel considerare ogni suddito, in quanto vuol esser cittadino, come se egli avesse dato il suo consenso a una tale volontà. Questa infatti è la pietra di paragone della legittimità di una qualsiasi legge pubblica»74.

Nella modernità, comunque, il ricorso al tipo del «fondatore di stati e ordinamenti» sopravvive e se ne trovano versioni illustri nel Contratto sociale di Rousseau e nel Principe di Machiavelli. In Rousseau il topos del grande legislatore, che propone un modello di governo, è ripreso per distinguerlo dal buon governante, che esercita i poteri così come imposto dal modello:

Per scoprire le norme costitutive di società che meglio convengono alle nazioni, occorrerebbe un intelletto superiore, che conoscesse tutte le passioni degli uomini senza provarne nessuna; che non avesse alcun rapporto con la nostra natura e che la conoscesse a fondo; la cui felicità fosse indipendente dalla nostra, ma che, tuttavia, volesse di buon grado occuparsi della nostra; che infine, preparandosi nel corso del tempo una gloria remota, potesse lavorare in un secolo e godere in un altro. Ci vorrebbero gli dei per dare delle leggi agli uomini.75

Machiavelli invece, dopo aver distinto repubbliche da principiati e i principati fra ereditari e nuovi, dedica una fra le sue opere più celebri proprio alla figura del «principe nuovo». A tale proposito vengono ricostruite le possibili vie alla conquista del potere, attraverso le coppie virtù-fortuna e violenza-consenso. Alla tradizionale classificazione delle forme di governo e ai criteri classici per distinguere buongoverno da malgoverno, Machiavelli sostituisce il solo criterio dell’efficacia del potere. Nelle pagine finali de Il

principe, in riferimento al «principe nuovo», auspicato per l’Italia, si dice:



74 I. Kant, Sul detto comune, cit., p. 143.

75 J. J. Rousseau, Du contrat social (1762), tr. it. Contratto sociale, II, 7, Laterza, Roma-Bari, 1997, p.

mi pare corrino tante cose in benefizio d’uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo. E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d’Isdrael fussi stiavo in Egitto, et a conoscere la grandezza dello animo di Ciro, ch’e’ Persi fussino oppressati da’ Medi e la eccellenzia di Teseo, che li Ateniensi fussino dispersi; così al presente, volendo conoscere la virtù d’uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ell’è di presente, e che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d’ogni sorte ruina.76

Dopo il fondatore e il legislatore si incontra la figura del «grande giudice». In esso si ritrovano le caratteristiche dell’«uomo regio» platonico, applicate alle prerogative del potere di giudicare le controversie nei casi concreti. Anche la figura del «grande giudice» attraversa l’intera storia del pensiero: da Salomone, i cui proverbi servono «per conoscere la sapienza e la disciplina, per capire i detti profondi, per acquistare un’istruzione illuminata, equità, giustizia e rettitudine, per dare agli inesperti l’accortezza, ai giovani conoscenza e riflessione»77; fino all’ideale del giudice «di capacità, cultura pazienza e ingegno

sovraumani» descritto da Ronald Dworkin, e chiamato col fantasioso nome di Ercole:

Potremmo, perciò, considerare come un giudice filosofo potrebbe sviluppare, in casi adeguati, teorie su cosa richiedano lo scopo legislativo e i principi giuridici. Troveremmo che egli costruirebbe queste teorie come un arbitro filosofo costruirebbe il carattere del gioco. Ho inventato, a questo scopo, un giurista di capacità, cultura, pazienza e ingegno sovraumani che chiamerò Ercole.78



76 N. Machiavelli, Il Principe (1532), VI, Einaudi, Torino 1995, p. 34. 77 Proverbi, 1, 2-6

78 R. Dworkin, Taking rights seriously (1977), tr. it. I diritti presi sul serio, il Mulino, Bologna 1982, p.

Sia Salomone sia Ercole rappresentano il «grande giudice» come l’«arbitro filosofo» che estrae precetti generalissimi di giustizia dalla «storia dell’umanità» e li applica a quei casi in cui la generalità della legge penalizza qualcuno in una specifica situazione. Si tratta del giudizio di equità: l’epieikeia ricostruita da Aristotele nel libro V dell’Etica nicomachea o l’aequitas ciceroniana.79