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Legalità e legittimità

Legalità, legittimità, effettività

1. Legalità e legittimità

Nella storia del pensiero politico la nozione di legalità è spesso presa in considerazione assieme alla categoria della legittimità. La questione della legittimità concerne quella che Berlin ha definito la domanda fondamentale

della politica: «perché un uomo dovrebbe obbedire a un altro?»2. Se la legalità

rimanda alla dimensione dell’esercizio del potere, la legittimità riguarda la titolarità del potere stesso3. Nella figura classica del tiranno i due aspetti sono

tradizionalmente compresenti: è designato come tiranno sia l’usurpatore, che si impossessa illegittimamente del trono (tyrannus absque titulo), sia chi esercita il

potere in modo illegale (tyrannus quoad exercitium)4. Ancora in età moderna è



2 I. Berlin, Does Political Theory Still Exist? (1962), tr. it. Esiste ancora la teoria politica?, in Id., Il fine

della politica, Edizioni di Comunità, Torino 2002, p. 180.

3 Si veda N. Bobbio, Stato, governo e società, Einaudi, Torino 1985, p. 77, e Sul principio di legittimità

(1964), in Id., Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1970, p. 82.

4 La letteratura in materia è sterminata, si veda, a titolo di esempio, M. Turchetti, Tyrannie et

tyrannicide de l’antiquité à nos jours, PUF, Paris 2001; L. Strauss, On Tyranny: An Interpretation of Xenophon’s Hiero (1948), tr. it., La tirannide: saggio sul «Gerone» di Senofonte, Giuffrè, Milano 1968; R. Tabacco, Il tiranno nelle declamazioni di scuola in lingua latina, Accademia delle Scienze, Torino 1985; H. Baron, The crisis of the early Italian Renaissance: civic humanism and republican liberty in an age of classicism and tyranny (1955), tr. it. La crisi del primo Rinascimento italiano: umanesimo civile e libertà repubblicana in un’età di classicismo e di tirannide, Firenze, Sansoni 1970. Di particolare rilievo, dato il periodo storico, è la letteratura latina in epoca quintilianea e quella italiana in età comunale.

impossibile non notare l’affinità dei problemi che ruotano attorno alla categoria di «tirannia» e alla questione del «potere arbitrario». Nella voce «Tiranno» dell’Encyclopédie Diderot afferma:

con la parola tiranno si intende non solo un usurpatore del potere sovrano, ma anche un sovrano legittimo che abusa del proprio potere per violare le leggi, opprimere i popoli, e far dei sudditi le vittime delle proprie passioni o volontà ingiuste, sostituendole alle leggi.5

Come criteri di giudizio sul potere, legalità e legittimità si possono dire indipendenti, non nel senso che non si diano relazioni fra essi, ma che l’uno non è implicazione necessaria dell’altro. A proposito della categoria della

disnomia, un «cattivo governante» può essere designato come tiranno6 in senso

proprio se esercita un potere illegittimo; mentre il despota, nell’accezione classica aristotelica, pur governando in modo simile al tiranno, è un governante legittimo: il despota orientale aristotelico, pur esercitando sui governati una forma di «dominio» assimilabile a quella del padrone sui servi, è legittimato a farlo in ragione della naturale tendenza alla schiavitù che Aristotele attribuisce a tali popolazioni.

Il problema delle due facce della tirannia sembra però cambiare d’accento con la modernità; per gli antichi il rischio maggiore è quello rappresentato dal

tyrannus ex parte exercitii, esemplificato dal tiranno platonico, che governa al solo

scopo di «soddisfare i suoi piaceri illeciti». I moderni, invece, si preoccupano



Nel De tyranno, ad esempio, Bartolo da Sassoferrato propone un’interessante classificazione incrociando due dicotomie: quella del tyrannus manifestus opposto al tyrannus tacitus e quella del tyrannus ex defectu tituli opposto al tyrannus ex parte exercitii.

5 D. Diderot, Tyran (1751-72), tr. it., Tiranno, in Id., Scritti politici con le «voci» politiche

dell’Encyclopédie, Utet, Torino 1967, p. 732.

6 L’uso del singolare per i termini «tiranno» e «despota» richiama alla prevalenza nella storia di

figure singole che hanno rivestito questi ruoli, ma esperienze come quella dei «trenta tiranni» in Atene o espressioni come «dispotismo della maggioranza» (Montesquieu) attestano che questi termini non sono applicabili ai soli regimi monocratici.

soprattutto del potere «di fatto» di un governante illegittimo. Se si escludono i moderni miti della fondazione (il principe nuovo di Machiavelli è sempre una sorta di tiranno ex defctu tituli) le teorie del contratto hanno come scopo quello di far risalire la giustificazione del potere a un accordo (corredato di clausole) formalmente stipulato fra le «parti» della società.

Si può affermare, in via di prima approssimazione, che per legittimità si intende una sorta di «“investitura”, o rivestimento di valore, di “validità”,

intorno al nudo fatto del monopolio della forza»7. Chi contesta la riduzione

della politica a semplici rapporti di forza si trova a dover replicare alla celebre obiezione agostiniana della «banda di ladroni», per cui la differenza tra il potere coattivo dello Stato e quello derivante dall’intimidazione del ladro sarebbe di tipo esclusivamente quantitativo. Quando Alessandro Magno chiede al pirata appena catturato a quale titolo egli si senta padrone del mare, Agostino gli fa rispondere:

con lo stesso diritto che hai tu; ma poiché io lo faccio con una piccola nave, sono chiamato pirata, mentre tu, che lo fai con una grande flotta, sei chiamato imperatore.8

La prima grande distinzione relativa al fondamento del potere politico è, allora, da ricercare nella contrapposizione fra le teorie che riconducono il potere (secondo la classificazione proposta da Weber) alla categoria di Macht (potenza, potere di chi ha la forza per imporsi) o quelle che lo concepiscono, piuttosto, in termini di Herrschaft (potere riconosciuto, che incontra obbedienza). Solo se si assume che il potere politico sia una forma di

Herrschaft, ha senso parlare di «potere legittimo».



7 Si veda M. Bovero, La natura della politica. Potere, forza, legittimità, in «Teoria politica», XIII, n.3,

1997, p. 6.

Il problema della titolarità del potere può essere affrontato in modi diversi a seconda del criterio adottato per distinguere fra poteri legittimi e illegittimi. Una prima famiglia di teorie, di tipo normativo, ricorre a criteri assiologici per distinguere il potere legittimo da quello di fatto. Per il contrattualismo, ad esempio, è legittimo il potere che rispetta le clausole sostanziali del «contratto

sociale» (il rispetto dei diritti naturali).9 Lo «stato di diritto», come

sottomissione del potere alla legge, costituisce la risposta moderna, storicamente più rilevante, al problema della distinzione fra potere legittimo («di diritto», appunto) e potere illegittimo («di fatto»).

Un secondo gruppo di teorie sul fondamento del potere politico è di tipo descrittivo, e non si chiede a quali condizioni individui liberi per natura

dovrebbero sottomettersi al potere, ma in quali circostanze il potere riesce effettivamente a farsi obbedire. Fra queste teorie, la più celebre è quella

sociologica proposta da Max Weber, secondo il quale sarebbe possibile individuare (storicamente) tre diversi principi di legittimazione: tradizionale,

carismatica e legale-razionale10. A ognuno di questi corrisponde un tipo di

potere legittimo:

Nel caso del potere fondato sulla statuizione si obbedisce all’o r d i n a m e n t o i m p e r s o n a l e statuito legalmente e agli individui p r e p o s t i in base ad esso, in virtù della legalità formale delle sue prescrizioni e nell’ambito di queste. Nel caso del potere tradizionale si obbedisce alla singola p e r s o n a d e l s i g n o r e designata dalla tradizione e vincolata (in tale ambito) alla tradizione, in virtù della prevalenza da parte di coloro che la riconoscono. Nel caso del potere carismatico si obbedisce al d u c e in quanto tale, qualificato carismaticamente, in virtù della fiducia personale



9 Per un esempio si veda J. Locke, Second Tract of Government (1689), tr. it. Secondo trattato sul governo,

in Id. Due trattati sul governo e altri scritti politici, UTET, Torino 1982, p 228.

10 M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft (1922), tr. it. Economia e società, Edizioni di comunità,

Milano 1999, libro I, p. 207 ss. e libro II, p. 258 e ss. Sulla questione metodologica nella teoria della legittimità weberiana si veda S. Wolin, Legitimation, Method and the Politics of Theory, in «Political Theory», Vol. 9, n. 3, 1981.

nella rivelazione, nell’eroismo o nell’esemplarità, che sussiste nell’ambito di validità della credenza in questo suo carisma.11

Il potere tradizionale, caratteristico delle società premoderne e specificamente di ancien régime, poggia sulla credenza nel carattere sacro della tradizione; il potere carismatico, che richiama invece la dimensione affettiva dell’agire sociale, si traduce nella figura del capo12 dotato di qualità eccezionali,

che si impone nei momenti in cui entra in crisi l’effettività del potere13; il

potere legale-razionale, infine, è il modello tipico della modernità che si fonda sulla progressiva spersonalizzazione dello stato. Il potere legale-razionale è

impersonale, neutro e funzionale alla salvaguardia degli interessi privati.14

Ancora una volta è interessante notare come tale sviluppo affondi le radici nella svolta individualista alla base del giusnaturalismo moderno, che porta con sé il processo di «laicizzazione» e «razionalizzazione» del diritto. Per «laicizzazione» si intende l’affermazione del principio per cui il diritto naturale è accessibile senza altri intermediari che la ragione; per «razionalizzazione» si intende quel processo di codificazione di norme generali e astratte che si



11 Ivi, libro I, p. 210.

12 Si veda, tra gli altri, F. Tuccari, Capi, élites, masse. Saggi di storia del pensiero politico, Laterza, Roma-

Bari 2002, pp. 139-164.

13 La trattazione teorica di questa figura è molto antica e la si può forse già ritrovare nella celebre

ricostruzione di Platone dei cambi di «costituzione» (scanditi dall’avvicendarsi delle generazioni che vanno peggiorando), nell’VIII libro della Repubblica. Il passaggio dalle forme «rette» (e ideali) di governo, a quelle «corrotte» (e reali), passa per la «timocrazia» (governo fondato sull’onore) in cui potere è nelle mani dei guerrieri. (si veda N. Bobbio, La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Giappichelli, Torino 1976, pp. 18 e ss.)

14 Di tutt’alto parere è Habermas, la cui ricostruzione del tipo di potere «legale-razionale»

consiste nel riscontro della presunta insufficienza della razionalità formale come fonte di legittimazione del potere. Diversamente dall’ipotesi weberiana, per Habermas l’organizzazione dello stato moderno implica l’adesione a opzioni tutt’altro che neutre dal punto di vista del riferimento a valori. Egli parla di razionalità delle regole intesa come razionalità strumentale fondata sulla regolarità (da cui deriverebbe la certezza del diritto); razionalità delle scelte come razionalità rispetto al fine, (da cui la legge astratta e universale); razionalità scientifica (da cui il concetto stesso di sistema giuridico). Le caratteristiche di certezza del diritto, eguaglianza formale e coerenza dell’ordinamento sarebbero i meta-valori (morali) fonte di legittimazione. Si veda J. Habermas, Recht und Moral (1986), tr. it. Diritto e morale, in Id., Morale, Diritto e Politica, Edizioni di Comunità, Torino 2001, pp. 9 e ss.

sostituiscono alla sedimentazione normativa del diritto consuetudinario,

considerato generalmente come accumulazione di atti singoli.15

Tale processo di «razionalizzazione» è, almeno nel linguaggio della teoria, alternativo rispetto alle forme della legittimità «tradizionale». Parlando della gerarchia di decisione nel modello puro del potere tradizionale, Weber afferma che essa è determinata «su base tradizionale, a volte con la considerazione della provenienza di determinate norme giuridiche che vengono da altri paesi o dei

precedenti»16; oppure «è completamente rimessa alla discrezionalità del signore

al quale, quando compare di persona, cedono tutti gli incaricati»17.

La legittimità legale-razionale: Weber e Kelsen

Nonostante sembri intuitivo distinguere due piani di analisi del potere, relativi a esercizio e titolarità, esistono anche teorie che mettono in discussione tale indipendenza, e che si potrebbero, per questo, definire «riduzioniste». Se la teorizzazione hobbesiana della sovranità riduce la legalità alla legittimità (che si accompagna all’analoga riduzione della giustizia di una norma alla sua

validità18), Weber basa la legittimità del potere tipicamente moderno sul

connotato della legalità. Ciò non implica, però, una semplice riduzione della legittimità a legalità. Weber stesso denuncia, infatti, l’insufficienza di quest’ultima categoria:

Questa legalità può valere come legittima: 1) in virtù di una stipulazione (o accordo) da parte degli individui interessati; 2) in virtù di una imposizione (o concessione) fondata su un potere legittimo di uomini su altri uomini, e su una corrispondente disposizione ad obbedire.19



15 Si veda, N. Bobbio, Max Weber, il potere e i classici (1981), in Id., Teoria generale della politica, p. 90. 16 M. Weber, Economia e società, cit., vol. I, p. 224

17 Ibidem.

18 Cfr. infra, p. 66 e pp. 87 e ss.

Qualunque potere costituito, in altre parole, fonda la propria legittimità su una qualche norma. Tale fondazione apre, tuttavia, una prospettiva di regresso all’infinito: se la legittimità rinvia alla legalità si pone il problema ulteriore di trovare un fondamento alla stessa legalità.20

Se si adotta, nello studio della politica, la prospettiva della priorità del potere rispetto al diritto (il re fa la legge), nel qual caso i poteri danno vita a nuovi poteri mediante norme, è necessario ipotizzare, per non generare un regresso all’infinito, un potere ultimo che fondi la catena di legittimazione (teoria della summa potestas, che, nel senso di «imposizione fondata su un potere legittimo di uomini su altri uomini», vale ancora per Weber). Se invece si guarda al medesimo problema dalla prospettiva della teoria del diritto, per cui la legge risulta fonte di attribuzione, giustificazione e regolazione del potere

politico (la legge fa il re)21, si pone rimedio al problema del regresso con una

norma prima che chiuda il sistema; tale è la teoria, proposta da Hans Kelsen, della norma fondamentale, che si presuppone quando il potere è effettivo. Rispetto alla teoria tradizionale della summa potestas, Kelsen non fa altro che invertire la gerarchia classica fra norme (di autorizzazione) e poteri (che producono norme):

In una teoria normativa rigorosa come quella di Kelsen la norma fondamentale è il concetto esattamente simmetrico a quello del potere sovrano. La norma fondamentale è la norma delle norme come il potere sovrano è il potere dei poteri.



20 Si veda M. Bovero, Luoghi classici e prospettive contemporanee su politica e potere, in Id. (a cura di),

Ricerche politiche, Il Saggiatore, Milano 1982, p. XXIII.

21 La ricostruzione dei due punti di vista dai quali si possono analizzare i rapporti fra politica e

diritto, si trova in N. Bobbio, La politica (1987), in Id., Teoria generale della politica, cit., p. 178 e ss.

Perfettamente simmetrici, questi due concetti, perché la norma fondamentale e il potere sovrano hanno la stessa funzione, quella di chiudere il sistema.22

In un altro luogo Bobbio evidenzia in maniera più radicale il fatto che potere sovrano e norma fondamentale sono due nozioni che differiscono per il punto di vista teorico da cui vengono affrontate: politico il primo, giuridico il secondo:

strana norma, davvero, la norma fondamentale: è invocata per fondare un potere, di cui ha essa stessa bisogno per essere fondata. La norma ultima viene così escogitata per fondare il potere ultimo, nello stesso tempo in cui il potere ultimo viene richiesto per fondare la norma ultima. Giunti a questo vertice, si può affermare, parafrasando un detto celebre, che lex et potestas convertuntur.23

Weber e Kelsen riconoscono entrambi nella modernità un processo di positivizzazione del diritto, ma giungono a conclusioni differenti. Per Weber lo stato moderno si caratterizza per il sopravvento del diritto statuito (dal potere sovrano) su tutte le altre forme di diritto caratteristiche dei regimi premoderni, dal diritto naturale a quello consuetudinario. Kelsen, sostenendo che Weber si è «fermato troppo presto», fa deriva da tale concezione della legalità la

riduzione del concetto stesso di stato a quello di ordinamento giuridico.24

Il pensiero sociologico di Weber si può far risalire a una posizione lato

sensu giuspositivista in quanto riconosce che il diritto positivo nello stato

moderno sostituisce quello tradizionale; il pensiero giuridico kelseniano è



22 N. Bobbio, Kelsen e il potere giuridico (1981), in Id., Diritto e potere. Saggi su Kelsen, Edizioni

Scientifiche Italiane, Napoli 1992, p. 125.

23 N. Bobbio, Sul principio di legittimità, cit., p. 89.

24 Si veda H. Kelsen, Reine Rechtslehre (1934), tr. it. Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi,

Torino 2000, pp. 140 e ss. A tale proposito Bobbio afferma che «mentre per Weber la teoria dello Stato, imperniata sulla teoria del potere e delle diverse forme di potere, è distinta dalla teoria del diritto, in Kelsen la teoria dello Stato è una parte della teoria del diritto» (N. Bobbio, Max Weber e Hans Kelsen (1981), in Id., Diritto e potere. Saggi su Kelsen, cit., p. 175).

positivista in senso stretto, quando afferma che non si può (a pieno titolo) definire diritto nient’altro che una norma dotata di validità formale in un

determinato ordinamento (positivo e, dunque, nomodinamico)25. Tutto ciò

senza rimuovere il problema del potere (ultimo), che semplicemente viene escluso dalla teoria generale del diritto (e dello stato) con parole rimaste celebri:

La questione che occupa il diritto naturale è l’eterno problema di cosa si celi dietro il diritto positivo. Ma chi cerca una risposta trova – temo – non la verità assoluta d’una metafisica o l’assoluta giustizia d’un diritto naturale. Chi solleva il velo e non chiude gli occhi incrocerà lo sguardo fisso della testa di Gorgone del potere.26

Se Weber era interessato ai molteplici meccanismi sociali e psicologici rilevanti nello studio del potere, per Kelsen dietro il diritto positivo non c’è null’altro all’infuori del mero fatto della violenza.

Di particolare interesse sono le critiche mosse da Marco Revelli a tale ricostruzione delle caratteristiche del diritto moderno. Secondo Revelli tale processo porterebbe con sé una legittimazione della violenza impensabile, almeno nei discorsi della teoria, nel mondo antico. La giustizia viene sostituita, da Hobbes in poi, con la forza; ciò sarebbe conseguenza della rottura del paradiga antico dell’ordine come kosmos. Tale (irreversibile?) frattura mostra tutta la brutalità del Leviatano che si fonda sull’assunto weberiano del monopolio della forza; riproducendo il «male da cui dovrebbe proteggerci»:



25 Si noti che la divisione giuspositivista classica fra sistemi nomodinamici (es. il diritto) e

nomostatici (es. la morale) è messa in discussione dalle teorie più recenti sugli «stati costituzionali di diritto». Si veda, ad esempio, L. Ferrajoli, Principia iuris, Teoria del diritto e della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2007, vol. I, p. 571.

26 Traduzione citata da M. La Torre, La crisi del Novecento: giuristi e filosofi nel crepuscolo di Weimar,

l’idea di Giustizia trapassa nel concetto (apparentemente opposto) di Forza. La differenza fra un «regno» e una «banda di ladroni» cessa di essere questione di contenuto (la presenza o meno di una Giustizia come valore in sé, indipendente dal potere stesso e capace di legittimarlo o meno). E diventa questione di quantità – potremmo dire «di scala» (secondo, appunto, l’«argomento del pirata») –: di estensione dell’esercizio della forza. Anzi, di esclusività del controllo di essa. Di «monopolio», appunto, della violenza.27

Revelli si pone così in esplicita opposizione rispetto alla tradizionale posizione liberale e giuspositivista che giustifica il diritto penale come «tecnica di minimizzazione della violenza, sia privata che pubblica» e, più in generale, lo stato di diritto come «tecnica di minimizzazione del potere, altrimenti assoluto e selvaggio».28 Il diritto dello «stato di diritto» coincide, in questo senso, con le

regole dell’uso della forza: le regole per imbrigliare il potere come Macht. La legittimità, che non è di per sé un limite al potere e nulla dice sul problema dell’«arbitrio», diventa concetto chiave per studiare il «potere limitato» quando la legge che stabilisce il titolo valido di un potere (la «lex che facit regem») regola anche l’esercizio del potere vincolando i contenuti degli atti che esso è autorizzato a produrre.29

Legalità e legittimità tradizionale

Seguendo ancora Max Weber, è possibile misurare la distanza fra le diverse forme di potere legittimo.

Per Weber, «all’estremo opposto del potere legale sta il potere carismatico: l’uno e l’altro rappresentano esemplarmente la contrapposizione fra il governo degli uomini e il governo delle leggi. Il potere tradizionale sta in mezzo fra i



27 M. Revelli, La politica perduta, Einaudi, Torino 2003, pp. 50-51. 28 L. Ferrajoli, Principia iuris, cit., vol. II, p. 229.

due estremi»30. La tripartizione dei tipi di potere – ciascuno con il suo

principio di legittimità – nasce dall’intersezione di due dicotomie, secondo il seguente schema31:

potere impersonale potere personale

potere ordinario potere

legale-razionale tradizionale potere

potere straordinario potere

carismatico

Tale schema richiama anzitutto, relativamente alla differenza fra il potere legale-razionale e quello tradizionale, la diversa concezione della legalità. Come è stato più volte sottolineato, i pensatori politici premoderni avevano già elaborato sofisticate teorie del «governo della legge», sottolineando entrambi gli aspetti della legalità, sia nel senso del «governo sub lege» sia in quello del «governo per leges», anche se con un interesse decisamente maggiore per il primo32. Dov’è, allora, la differenza fra l’ideale antico del «governo della legge»

e quello moderno dello «stato di diritto», nella sua forma evoluta di «stato costituzionale»?33

Il nodo centrale è costituito dal rapporto fra diritti e doveri. Le concezioni politiche antiche e medievali tendono a ricostruire la figura del governante come il detentore del diritto-dovere di governare, che ha diritto al potere perché rispetta i suoi doveri nei confronti dell’ordine religioso, tradizionale o (in