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3. Gli Atranenses nella Lucania longobarda del X secolo

3.1 I casi familiari di Ligorio e di Orso de Rini Atranenses

Il primo documento che attesta la presenza atranese nella Lucania salernitana è quello stipulato nel 957 tra Ligorio e il vescovo di Paestum Giovanni137. Ciò richiama alla mente il presunto interesse originario degli

Atranenses per i territori lucani e quelli limitrofi, secondo l’agiografo della Translatio sanctae Trophimenis138. La documentazione su Ligorio prosegue nel biennio 985-986, quando in un contenzioso con un altro atranese, Orso di Mauro di Giovanni139, dichiara di possedere una casa con fondo «in vico sancte

Trefomee» a Salerno, ottenuta in concessione dai principi Pandolfo, padre e figlio,

durante la loro dominazione a Salerno (978-981)140.

Dai monimina portati dai contendenti veniamo a sapere che tale possedimento cittadino confinava, tra gli altri, con quello del nonno di Orso, Giovanni detto Spiczacanzone e del fratello di questi, atranesi anch’essi, nonché con un altro fondo dello stesso Ligorio141. Orso, dal canto suo, mostra un altro

praeceptum, datato agli ultimi anni del principato di Guaimario II, in cui si dice

Sichardus princeps concesserat Cunari Atrianensi, qui fuit bisabio mulieri nomine Grusu, que est uxor predicti Ursi, can dede [forse sta per quando dedit] Bonipertus de Uniano cum uxore et filiis et omnia eius pertinentia» (ibidem).

136

Una figlia di Guaifiero I sposò il figlio del prefetto Marino (867-898). A tal proposito v. TAVIANI-CAROZZI, La principauté lombarde de Salerne, p. 807 e nota 258.

137

Cfr. supra, pp. 93-94. 138

Translatio sanctae Trophimenis, in Acta Sanctorum, Iulii V, 13, in cui si parla del populum atranese e di quello salernitano ai tempi di Sicardo: «Vobis argentum, aurumque nobis, et cuncto populo nostro, nisi totam Lucaniae regionem et finitima praedia iureiurando distribueritis, vestris suasionibus assensum numquam praebebimus».

139

Su questo personaggio v. CDC, I, c. 169 (a. 940), in cui è detto «de Rini», e «consovrinus frater» insieme a due altri amalfitani, tale Lupeno di Orso e Leone clericus.

140

Ibidem, II, c. 377 (985 giugno). L’atto fa cenno di uno «scriptum sigillatum quod ipse Ligori ostedit continebat qualiter domnus Paldolfus et Paldolfus principibus concesserat Ligori Atrianense filio quondam Iohanni terra vacua in ipsa ripa de intus hanc Salernitanam cibitatem pertinentem palatio in vico sanctae Trefomee a super casa eius» (ibidem). Le due parti presentano come mediatori rispettivamente «Ursus Atrianensis, qui dicitur Boccabitellu» per Ligorio e «Ursus filius Mauri» per Orso (ibidem).

141

«A meridie fine Iohanni atrianense qui dicitur Spiczacanzone et de germano eius […] et per eadem fine exiente et coniungente ad fine ipsius Ligori» (ibidem).

108 che Giovanni e sua moglie detenevano il fondo da trecento anni e che non avevano mai dovuto pagare il censo alla chiesa di S. Michele, sottoposta alla giurisdizione della cappella palatina, che sorgeva sulla terra vacua del fondo142. Dopo aver sospettato che il documento portato da Orso fosse falso, fu accertata la sua validità e dunque il giudizio si concluse in favore di questi143.

Un anno più tardi, invece, ritroviamo Ligorio in Lucania, dove, dopo aver fondato la chiesa di S. Giovanni a Tresino, ne affida l’officiatura al sacerdote Bernando144. Nonostante i molti interessi patrimoniali che questo personaggio detenne nella Lucania longobarda, la Taviani-Carozzi è propensa a credere che egli non risiedesse in quella zona, ma piuttosto nella sua casa di Salerno145, ma sappiamo con certezza che egli, in seguito alla sentenza dell’anno precedente, non l’ebbe più in uso e che adiacente alla casa salernitana contesa, egli aveva sì un fondo, ma la lite non specifica se esso fosse o no edificato.

Nel 966 giugno veniamo a sapere che Pietro, vescovo di Paestum, aveva già concesso metà della chiesa di S. Felice a Fonti nel salernitano, «qui fundata est

super mare», con la metà delle pertinenze fondiarie connesse alla chiesa, a un

amalfitano, Pietro di Lupeno, detto de Rini, come attesta uno scriptum di sua proprietà146. Essi dunque erano altri rappresentanti della medesima famiglia di Orso di Mauro, detto de Rini nel 940147 e protagonista del giudicato del 985, che coinvolgeva alcune proprietà urbane salernitane della sua famiglia contro gli interessi di Ligorio. Nel 966 giugno dallo stesso documento già citato sappiamo che un altro amalfitano, Sergio di Stefano, detto Calendola, per conto della moglie Lintu, vedova di Orso, che era fratello del suddetto Pietro, chiede al vescovo pestano Pietro che gli sia ceduta fino alla morte della moglie quella parte già

142

«Ipse Maurus dixerat, ut ille et ipse genitor eius [Giovanni] per triginta annos illut tenuisset, et nullam censum inde in pars ipsius ecclesie dedisset» (ibidem).

143

«Dixit ipse Ligori, ut ipse scriptum, quam ipse Ursus ostendit, falsum esse, et ipsa terra cum casa, que ipsum scriptum ipsius Ursi continet, nunquam ille tenuisset aut dominasset […] Ursus iusta legem adverare ipso scriptum quam ostendit» (ibidem).

144

Ibidem, c. 388 (a. 986). Sui termini, cfr. supra, nota 69. 145

TAVIANI-CAROZZI, La principauté lombarde de Salerne, p. 810. Per la genealogia di Ligorio e di tutti gli altri Atranenses trattati, cfr. ivi le tavole poste alla fine.

146

«Medietatem ipsa ecclesia [di S. Felice a Fonti] et medietatem supradicta res [le pertinenze della chiesa] dedimus ad tenendum Petri amalfitani filius Lupeni qui dicitur de Rini, sicut eius continet scriptum» (CDC, II, c. 242).

147

«Lupenus amalfitanus filius Ursi et Leone clericus et Ursus amalfitanus filius Mauri, qui dicitur de Rini, et sunt consovrini frates» sono i concessionari per Pietro, vescovo di Salerno, della chiesa di S. Felice di Fonti (ibidem, I, c. 169, 940 novembre).

109 detenuta dal cognato di nozze precedenti di Lintu per la somma di due monete d’argento, offrendosi anche di pagare il censo annuale di un tarì e mezzo al vescovato148.

A portare l’argento al vescovo fu lo stesso Sergio149. L’accordo fu sancito a Salerno alla presenza del diacono e vicedominus Sichelmo e di due giudici, Moncole e Pietro, quest’ultimo avvocato dell’episcopio. Il vescovo si dice compiaciuto della proposta, «ut ipse vinee non redire in desertum», dunque accetta di concedere i beni a Sergio «per bona conbenientia per hunc

scriptum»150, assicurandosi comunque per sé la piena libertà in materia di officiatura e di ordinazione del clero sacerdotale. Incrociando i dati di genealogia familiare che ci forniscono i tre documenti degli anni 940, 966 e 985, possiamo farci un’idea preliminare abbastanza chiara dell’albero genealogico della famiglia de Rini, la quale, già nel corso di più generazioni, aveva in concessione la chiesa di S. Felice a Fonti, teoricamente dipendente dalla diocesi salernitana, ma da alcune generazioni di fatto divenuta privata151.

I due rami di discendenze che, dalle nostre notizie, vedono in cima Orso e Mauro152, attestati nel 940, devono appartenere alla stessa famiglia per tre ragioni: a) Lupeno figlio di Orso e Orso figlio di Mauro condividono entrambi

l’interesse economico per la chiesa di S. Felice a Fonti;

b) i suddetti due rappresentanti dei diversi rami familiari, o tutt’al più Pietro invece del padre Lupeno, sono detti de Rini, quindi nel 940, insieme al prete Leone, si presentano riuniti in consorzio familiare; c) i due rami della genealogia condividono la stessa ricorsione

dell’antroponimico Orso nelle rispettive discendenze.

148

«Nunc autem venit ad nos Sergius amalfitanus, filius Stephani.qui appellatur Kalendola, pro vice et pars mulieri nomine Lintu relicta Ursi qui fuit germanum supradicti Petri, et postulabit nos, ut pro eius parte dare nobis argentum libras duas et per omnis annum dare ad pars nostri episcopii censum unum tari bonum et medium tari de dinari, et ego eidem Lintu dare medietatem supradicta ecclesia cum medietatem dicta res ad tenendum et dominandum et frudiandum diebus vite sue» (ibidem, II, c. 242).

149

«Ipse Sergius pro vice ipsius Lintu dedit nobis ipso argentum» (ibidem). 150

Ibidem. «Per bona conbenientia per hunc scriptum pro vice ipsius Lintu tradidimus tibi nominato Sergi [il patrimonio suddetto] ut amodo et cumtis diebus vite ipsius Lintu […] esset ad potestatem ipsius Lintu» (ibidem).

151

Dello stesso parere anche TAVIANI-CAROZZI, La principauté lombarde de Salerne, p. 626. 152

Si faccia riferimento alla genealogia, invero non precisissima nei particolari, ma sostanzialmente corretta in ibidem, p. 627.

110 Huguette Taviani ipotizza legittimamente che il Leone presbiter dell’atto del 940 fosse il fratello dell’Orso di Mauro, ma potrebbe anche trattarsi di un rapporto consortile tra i due e non necessariamente di un legame di sangue.

In ogni caso una precisazione va fatta in merito alla prima discendenza conosciuta di questa famiglia: dalla contesa del 985 sappiamo che Mauro era figlio di Giovanni detto Spiczacanzone, dunque l’Orso primo rappresentante conosciuto dell’altro ramo familiare potrebbe ipotizzarsi essere il fratello di Mauro, entrambi figli di Giovanni. Dallo stesso documento apprendiamo che Giovanni detto Spiczacanzone aveva un fratello, di cui si ignora il nome. Orso, padre di Lupeno, potrebbe essere il figlio di questi e dunque questo fratello di Giovanni potrebbe essere il primo rappresentante di quel ramo familiare. In ogni caso, ribadiamo come si debba necessariamente ammettere una unione a qualche livello tra gli avi di questi rami familiari. Insomma in qualche punto della loro storia familiare i due rami si trovarono a condividere i propri avi, ma non è possibile stabilire quante generazioni siano intercorse da quel momento fino all’avvento delle prime generazioni conosciute del X secolo.